Qualche giorno fa, dalla
“Stampa” torinese, ho appreso che a New York si sta proiettando
un iperfantacolosso, che ha per titolo Aliens, e che
rappresenta, così pluralizzato, la continuazione seriale del
celebrato film Ridley Scott. Questo, invece, lo ha girato James
Cameron, reduce glorioso da Terminator e notorio complice di
Rambo 2. Il titolista riassumeva il tutto così: Donna Rambo
contro Aliens. E l’articolista spiegava che una “donna molto
macho” che lotta contro una specie di Alien-regina,
micidiale pluriproduttrice di larve extraterrestri, difendendo la
propria bambina in modi tipicamente ramboideschi.
Chi sia fresco, come
fresco lo sono, della lettura degli Eroi del nostro tempo, che
è una silloge di studi sopra i miti di massa, per lo più cartacei e
celluloidali, del nostro ieri più recente e del nostro oggi più
palpitante, organizzata presso Laterza da Ferdinando Adornato, ha già
pronto il manuale per la futura decifrazione del nuovo prodotto, non
appena sbarchi sopra le nostre spiagge, e potrà darsi tutta la sua
buona esegesi. In particolare, Omar Calabrese, con il suo saggio sul
mostro instabile e Walter Veltroni, con le sue pagine sul
fattore R, cadono opportunissimi. La pellicola sarà una
splendida occasione di verifica, e anche, per massmediologi in erba,
un didatticissimo esercizio pilotato, con quelle egregie
complicazioni combinatorie che ivi si promettono contenute.
Intendiamoci bene, sto
pensando a gente qualunque, che si serva di questo 'Robinson' (è il
titolo della collana laterziana in cui si pubblica) come di uno
svelto 'Bignami'. Perché, come scrive proprio Calabrese, a proposito
della nuova teratologia di massa, “se Spielberg non conosce le
equazioni di Feigelbaum, né il teorema di Lorenz ha poca
importanza”, laddove per capire la “forma interna” che governa
i nuovi 'mostrini', senza cadere in grossolani equivoci, non sarà
male avere un’idea chiara e distinta della teoria delle catastrofi
(René Thom), della teoria dei frattali (Benoit Mandelbrot), della
teoria dei sistemi dissipativi (Ilya Prigogine), nonché del vario
paesaggio mentale suggerito dalle teorie del caos (Joseph Ford per
tutti). In parole povere, occorre dominare. con l'intiera
Enciclopedia Einaudi, il suo intiero apparato bibliografico. E poi
ancora. Per fortuna, questa prospettiva può rovesciarsi, giacché in
Agnes Heller, qui filosofante sopra il tenente Colombo, si riconosce
il breviario semplificato di Heidegger, della dialettica negativa di
Adorno e l'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Perché si, è vero,
“nessuna di queste dottrine è evidente nelle storie di Colombo”,
e di questo non so quanto sia lecito rammaricarsi, ma “lo spirito
di tutte queste”, che soffia proprio dove vuole, “è presente in
modo palpabile”.
In breve, con 200 pagine
dottamente interpretative, e un metaeroico supplemento fumettosamente
terminale di Panebarco, di ulteriori settanta pagine, se altro non si
ottenesse da codesto volume, si otterrebbe, misurata sul vivo e sul
vero, una palpabile testimonianza della incredibile svolta compiuta,
nel tratto che va da Adorno a Adornato, del tipo egemone di
intellettuale dell’Occidente, nei confronti della famigerata
industria culturale. Ma poiché questa è una vicenda complessa, e
implica tutta una riflessione intorno all’etica professionale
dell’uomo di cultura e all’eroe intellettuale del nostro tempo,
la rinviamo a una più riposata occasione.
Qui mi accontento di
notare l’opposizione che emerge, presso Goffredo Fofi riflettente
sopra James Bond, tra il best seller ‘controllato', ‘programmabile'
e ‘prevedibile', e il best seller ‘spontaneo', che sarebbe quello
“decretato dal pubblico e solo dal pubblico, per quanto aiutato
possa essere”, allorché “è davvero il pubblico che crea l’opera
e il personaggio, è il pubblico il vero autore”, in quanto non
soltanto seleziona e innalza e idoleggia il proprio eroe, ma ne
decide per intiero la significazione mitica. Che è tutto vero, e
anche più lo sarebbe, se la parola pubblico, con la sua buona faccia
democratica, non occultasse qui, come suole fare, sotto “le
centinaia di migliaia” di fruitori, l’indice di gradimento dei
consumatori eterodiretti, e insomma, più schiettamente, l’inchiesta
di mercato e, come si diceva un tempo, l’apparato induttivo e
repressivo dei bisogni dell’immaginario.
Giacché il vero eroe dal
mille volti, riposatamente quantificati in bilancio, annegato ogni
vano tormento qualitativo in un oceano di 'effetti speciali', è
proprio l’industriale della cultura, il quale sa benissimo che i
suoi avi facevano un mucchio di soldi, proclamando a grandissima voce
di mettersi al servizio del popolo, ma sa soprattutto che ormai,
essendoci in giro molto più «pubblico» che «popolo», tanto che
di «popolo» c’è un’infinita penuria, si tratta di riuscire a
moltiplicarseli, i soldi, dichiarandosi a completa disposizione del
capricci dittatoriali e delle smodatissime brame del signor
«pubblico». Non so che cosa passerebbe in testa a Kracauer se,
clonato postumo, leggesse queste robinsonate di massa. So però che,
a un giovane semlologo di belle speranze, non farebbe niente male
infilarsi in tasca, e soprattutto in testa, prima di ogni altro
manuale, e persino prima di questo, quell’aureo libretto in cui si
narrava come, una volta, partendo da Caligari, una bobina dopo
l’altra, si sia pervenuti a Hitler. Posso benissimo sbagliarmi,
perché errare è umano, ma il nome di quello sventurato Siegfried,
in queste pagine 200 più 70, non compare nemmeno per inciso. Ma è
una mania personale, e sia come non detto.
Per questa volta,
piuttosto, ho il dovere di rilevare che, nella transizione da Adorno
a Adomato, i saggisti in causa, da Roberto Roversi a Letizia
Paolozzi, da Alberto Abruzzese a Gianfranco Pasquino, sono molto più
variegati e cauti e problematici e perplessi di quanto non risulti, è
ovvio, da questo mio recensivo colpo d’occhio panoramico. Anzi, se
devo dirla tutta, sono cautissimi e perplessissimi. E sono peggio che
prudentissimi, e si rigirano il loro oggetto le mille volte, tra le
loro mani psichiche, prima di buttare via qualunque minima cosa. E
poi, per essere equi assaggiatori dell'insieme, facciamo almeno un
esempio evidente. E consideriamo Salvatore Veca, il quale non esita a
insinuare il generalizzabile sospetto, lasciamo perdere l’eroe, ma
di non trovarsi nemmeno dinnanzi a un personaggio, che sarebbe quasi
una persona e talvolta persino più che una persona, bensì dinanzi a
un mero «stereotipo». Non di fronte a “un punto di vista (umano)
sul mondo”, ma di fronte a uno schema. Non alle prese con
'questioni di vita', ma con 'questioni di televisione'. Insomma, con
il ‘consumo della distrazione'. Per me, in confidenza, è un
sospetto fondatissimo. Voglio dire una cosa molto semplice,
finalmente, e cioè che, se c'è sicuramente una buona ragione per
tutto quanto, compreso il successo di E.T. e di Rocky, di Tex Willer
e di Callaghan, niente garantisce che quella buona ragione sia
davvero una ragione buona, cioè una ragione ragionevole. Piuttosto,
è curioso, ma “l’eroe intellettuale di altri tempi sudava
maledettamente per difendere i profondi significati, latenti e
misconosciuti, di testi e immagini che il ‘popolo' sovente non
amava, e in cui il 'pubblico' stentava moltissimo, e stenta molto
spesso oggi ancora, a investire i propri sudati risparmi, e persino i
modesti spiccioli che si ritrova in tasca, tintinnanti e
ritintinnanti, in barba ai migliori Oscar e alle migliori Bur, tanto
per dire.
Allora, per finire,
rimanendo a Veca, mi accontento di un minimo sintomo stilistico.
Nella prefazione al volume, Adornato cita largamente un articolo di
Riotta, il quale aveva osservato, sul “manifesto”, che un tempo i
giornalisti nominavano ostensivamente Leopardi, Manzoni, laddove oggi
si inciampa, nel più normali elzeviri, in Cipputi e in Rambo: “Per
spiegare il movimento degli studenti nel 1985 il nome Timberland
compare quanto quello di Marcuse nel 1968”. Non indugio qui sulle
conseguenze, per cui nel ’68 lo studente poteva essere indotto ad
acquistare, e forse persino a sfogliare Marcuse, mentre nell’85
viene sospinto, con persuasione pochissimo occulta, a calzarsi le
Timberland. E mi astengo da ogni valutazione al riguardo, poiché
sono anche disposto a credere che le Timberland portate bene siano
meno nocive, socialmente parlando, di un Marcuse letto male. Ma
voglio almeno rilevare che Veca, per poter arrivare a menzionare “un
filosofo ebreo del secolo scorso, dimenticato dopo essere stato a
lungo un best seller internazionale in testa alle classifiche”, in
forza di un suo ‘tema' giovanile datato 1844, si esprime con rinvii
forzosi, imbarazzatamente arguti, al 'prof. William Sheakspeare', al
'prof. Wolfgang Ghoethe', e passa con un sospiro attraverso il
'professor Kant dell’Università di Koenigsberg'. Prima di
concludere, molto civettuosamente, con il 'professor Berlusconi'.
Nessuno più di me, lo giuro, apprezza un’amabile ironia. Voglio
soltanto sottolineare che, teste Riotta, questo stile concede di
datare inoppugnabilmente la pagina. È una pagina scritta per un
consumatore di Adornato, non di Adorno, per un adoratore di
Timberland, non di Marcuse, e insomma siamo nell’anno del signore
1988, e non certamente in quel remotissimo, mortissimo e sepoltissimo
1968.
“l'Unità”, 2 agosto
1986
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