16.7.19

Il buono il vecchio e il cattivo. Intervista ad Andrea Camilleri (Mario Cicala)


Una bella intervista al nostro amato Camilleri, in alcuni passaggi gustosissima, del mese scorso. Aspettiamo la prossima. (S.L.L.)


ROMA.
Andrea Camilleri è nato nello stesso anno di Malcolm X, Bob Kennedy, Paul Newman, Pol Pot. Il prossimo 6 settembre compie 94 anni. Nel frattempo ha scritto un nuovo Montalbano, appena uscito da Sellerio, più un monologo di due ore e mezza, poi ridotte a una e mezza, sul mito di Caino, che interpreterà da solo sul palco delle Terme di Caracalla il 15 luglio. Se un infortunio domestico non l'avesse intralciato, a quest'ora non sarebbe qui davanti a me per l'intervista, ma probabilmente dal re di Svezia Carlo XVI Gustavo, che lo invita da tempo perché è fissato con Montalbano. Lui e la regina consorte Silvia hanno già visitato tutti i luoghi siciliani del Commissario. E il popolo svedese, a ruota. «Sono stati istituiti speciali voli charter Stoccolma-Comiso» mi comunica Camilleri. E aggiunge, fumando: «Se ce la faccio, prima o poi in Scandinavia ci vado».
Quest'ultimo Montalbano si intitola Il cuoco dell'Alcyon e l'Alcyon è una goletta dove un losco imprenditore orchestra strani traffici e festini con escort prima di finire accoppato.

Anche stavolta si è ispirato a qualche fatto di cronaca?
«Stavolta no. Il libro rielabora il soggetto di un film che si sarebbe dovuto fare con gli americani ma andò in fumo. Rimettendo mano alla storia, l'ho spinta un po' sopra le righe, ci ho infilato una vena parodistica».

Ormai Montalbano ha la pellaccia abbastanza dura da poter sopravvivere anche alla sua parodia.
«In questa indagine per la prima volta si traveste. Si tinge baffi e capelli e perfino Augello non lo riconosce, tanto che gli spara addosso. Però l'Alcyon, io l'ho visto davvero. Anni fa, passeggiavo con mia moglie lungo il molo del mio paese quando apparve una grande goletta, identica a quella di Agnelli. Un amico negoziante mi rivelò che il tre alberi si fermava a Porto Empedocle sempre per poche ore. Giusto il tempo di caricare a bordo viveri, whisky e ragazze. Doveva essere una di quelle bische galleggianti dove i miliardari se ne stanno a giocare in acque internazionali belli tranquilli. Nel romanzo immagino però che la barca venga utilizzata per oscuri summit».

Lei ha debuttato nel romanzo a 53 anni, era il 1978, con Il corso delle cose. Anche lì la trama ruotava intorno a un omicidio. Quasi tutta la sua traiettoria letteraria si snoda sotto il segno del delitto. Come ce e se lo spiega?
«A modo mio, mi sono sempre occupato del Male. Come lei sa, non sono scrittore di fantasia, parto sempre dalla realtà. E, quando ho cominciato con i romanzi, la realtà erano i morti di mafia, non si contavano più, non si parlava d'altro. A me questa cosa non andava giù».

In che senso?
«Nel senso che nei miei libri avrei voluto parlare anche d'altro. Così, in Il corso delle cose trovai una soluzione che in seguito non avrei più abbandonato. Accanto a quel macigno che è la mafia ho sempre cercato di mettere elementi di controcanto. Nel primo romanzo valorizzavo per esempio il senso dell'amicizia che c'è in Sicilia».

Mafioso o no, mi racconti un fattaccio siciliano che segnò l'immaginario del giovane Camilleri.
«Uuuh... Ce n'è un'infinità».

Ne scelga uno.
«A metà degli anni Cinquanta c'erano ad Avola due fratelli contadini che si odiavano a morte da sempre, per il possesso della terra. "La terra significa guerra" dice il proverbio. Beh, un giorno uno dei due sparisce. Nella stalla del fratello trovano tracce di sangue. I carabinieri raccolgono altre prove. Fino a decidere che l'omicidio è stato compiuto a pietrate e il corpo fatto sparire. La gente è inorridita. Sulla spinta dell'emozione, la Corte d'Assise condanna il contadino all'ergastolo».
Anche in assenza di cadavere.
«Proprio così. Il morto non si trova. Però qualche tempo dopo, in un paesino a una cinquantina di chilometri, un commissario di Pubblica Sicurezza riceve una mezza soffiata e si mette a battere un'altra pista. Indaga e scopre che nessuno è stato assassinato. Il contadino scomparso si è nascosto: aveva architettato una messinscena perfetta per mandare l'odiato fratello a marcire tutta la vita in galera».

A confronto. Caino e Abele erano due paciocconi. Ma ci arriveremo. Prima volevo chiederle se sul Camilleri giallista abbiano inciso, oltre alle letture, anche esperienze personali. Ed eventualmente quali.
«Non le ho mai raccontato di quando mi trovai in mezzo a quella strage di mafia?».

A me no.
«Ebbene, quando tornavo a Porto Empedocle andavo a farmi un whisky in un certo bar. Il proprietario era un tipo simpatico. Esordiva sempre dicendo: "Dottor Camilleri, il primo giro è offerto". Una sera di settembre aveva appena smesso di piovere e la gente era scesa tutta in strada. C'era un'atmosfera di festa. Andai al solito bar, ma lo trovai chiuso. Dopo un lungo giro, mi infilai nell'ultimo caffè del paese. Tra la folla, di spalle, c'era un uomo appoggiato al bancone. Quando ordinai il mio whisky il tizio si voltò e mi disse: "Lei stasera mi tradisce". Era il padrone del bar dove andavo di solito. Gli risposi: "Casomai è lei che tradisce sé stesso". Lui rise e mi disse: "Posso avere l'onore di averla al mio tavolo fuori? Vorrei presentarle mio padre e un amico". Mi precedette. Mentre mi apprestavo a seguirlo col whisky in mano tutte le bottiglie dietro al bancone esplosero. Il rumore era quello inconfondibile delle mitragliette. Un rumore osceno. Assomiglia a quello di certi cagnetti arrabbiati quando si mettono ad abbaiare».

Porto Empedocle come Chicago.
«Un massacro. Più che di paura, la mia reazione fu di rabbia. Chiesi al barista una pistola, volevo sparare. Lui mi disse: "Stasse calatu", stia giù. Mi abbassai, ma non più di tanto, perché c'era sangue dappertutto e non volevo sporcarmi il vestito. Alla fine, sei morti. E il bersaglio sa chi era?».

No, ma un sospetto ce l'ho.
«Il barista che mi aveva invitato al suo tavolo. Lui, suo padre e il guardaspalle erano mafiosi di pura razza. Ma io che tornavo in paese per tre giorni l'anno che potevo saperne? Era il momento nel quale i giovani, i cosiddetti stiddari, cercavano di sostituirsi alla vecchia mafia».

Di assassini ne avrà conosciuti.
«Questa domanda mi mette a disagio. Assassini... che dirle? Sono cresciuto assieme a un grosso mafioso che sarebbe stato condannato all'ergastolo. Ma come faccio a definirlo "assassino"? Me lo ricordo bambino... Giovanni era figlio di contadini, io di un proprietario terriero, andavamo a scuola, giocavamo assieme... Un giorno mio padre mi disse: "È sulla mala strada, cerca di non frequentarlo". Eppure con me continuava a essere affettuoso, quando arrivavo a Porto Empedocle da Roma mi faceva sempre trovare la ricotta fresca... Assassino? Sa, i rapporti mutano... Giovanni tentò di sfuggire alla morte scappandosene in Canada. Gli chiesi: perché te ne vai? E lui - sempre elegante, un bel ragazzo - rispose: "Nenè, parto perché questo Paese è diventato ingovernabile". S'era messo a parlare come un prefetto!».

Perché Camilleri torna a teatro?
«Perché sono un contastorie. In fondo non sono mai stato altro».

L'anno scorso il monologo sul greco Tiresia, adesso sul biblico Caino, il prototipo di tutti gli omicidi, un po' il patrono di voi giallisti. Lei lo riabilita.
«Nella tradizione ebraica, e in parte anche in quella musulmana, esistono una miriade di controstorie che ci raccontano un Caino molto diverso da quello della Bibbia. Su queste abbiamo lavorato».

Che dicono?
«Per esempio che né lui né Abele sarebbero figli di Adamo ed'Eva».

E di chi allora?
«Abele dell'unione tra la donna e un arcangelo, Caino di quella tra lei e un demonio. Se ne ricava che l'infedeltà coniugale nacque contestualmente alla prima e unica coppia del mondo».

Vatti a fidare.
«Non solo. In alcune di quelle antiche narrazioni lo scontro tra i due fratelli ne rovescia in qualche modo le posizioni rispetto al testo biblico. Quando vengono alle mani, Abele, che è il più grosso, sta per sopraffare Caino che per la prima volta nella storia dell'umanità legge negli occhi del fratello l'intenzione di uccidere».

Poi però avviene un ribaltamento.
«Sì, ma uccidendo Abele, è come se Caino dicesse: se l'avessi lasciato fare sarebbe stato lui e non io il primo assassino dell'umanità».

Facendolo fuori lo salva dall'empietà dell'omicidio.
«E lascia aperto un dubbio: forse non ero io quello condannato al Male in quanto figlio del demonio e lui quello destinato al Bene perché generato da un angelo. Viene fuori così la visione di un Male che non è legato alle nostre origini come una maledizione, ma è una nostra scelta».

Pure Caino è stato un grande incompreso. Il processo va rifatto.
«C'è tutta una parte del mito che è affascinante, ma totalmente ignorata. È quella del Caino fondatore di città, inventore dei pesi e delle misure, della lavorazione del ferro... Ma soprattutto quella di Caino inventore della musica. Il Caino che dice: "Ecco io so, ne sono sicuro, che davanti a Dio l'avere inventato la musica è valso più di ogni sincero pentimento"».

Però una volta lei ha detto: «Sono convinto che gli assassini e in genere i delinquenti siano sostanzialmente degli imbecilli». Ribadisce?
«Assolutamente. Chi crede al delitto perfetto che cos'è se non un imbecille? Una minima cretinata lo tradirà. E del resto a che cosa porta il delitto? A nulla. Hai solo momentaneamente eliminato un ostacolo. A meno di non adottare il principio staliniano secondo il quale ogni uomo è un problema ed eliminato lui, eliminato il problema. Era un'idea a suo modo visionaria (risata). Solo che comporta morti a milioni».

Da regista, lei ha lasciato il teatro negli anni 70. Che effetto le fa tornarci adesso da attore?
«Sono in tensione, ma relativa. È tale e tanto l'afflusso dell'adrenalina che non soffro più né il caldo né il freddo».

Ho letto che Strehler non apprezzava granché le sue regie.
«Non le apprezzava per niente. Che vuole, non ci prendevamo...».

Con chi altri non s'è mai preso?
«Con Cesare Garboli. Dei miei versi scrisse: "Le poesie di Camilleri non resistono a una seconda lettura". Alé!».

Torniamo a Montalbano. Quest'anno il commissario compie un quarto di secolo. Ma è vero che l'autentico modello del personaggio fu un suo parente?
«Allude a Carmelo Camilleri, il cugino di mio padre?».

Lui. Chi era?
«Un commissario della questura di Milano. Capo della squadra politica. Fascista brutale. Ma la sua vita cambiò il 12 aprile del '28, quando durante una visita di Re Vittorio Emanuele III scoppiò una bomba che fece venti morti. Negli ambienti anarchici e comunisti vennero arrestate sei persone e condannate a morte. Però, indagando, mio "zio" scoprì che all'origine dell'attentato c'erano faide tra fascisti. E da ligio funzionario mandò il rapporto ai suoi superiori che lo trasmisero a Mussolini. Il quale, dopo averlo letto, scrisse a margine: "Liquidate Camilleri", siglando il documento con la famosa Emme puntata. Carmelo Camilleri fu costretto a dimettersi dalla polizia, ma riuscì a far arrivare in Francia la sua relazione con gli atti probatori, che vennero pubblicati dal giornale comunista “L'Humanité”. Grazie al movimento d'opinione che ne scaturì la pena di morte fu commutata in ergastolo».

Il whistleblower del Ventennio.
«Sì, ma le autorità fasciste scoprirono subito che la fuga di documenti era partita da lui. Fu arrestato e spedito al confino. Lì conobbe dissidenti comunisti come Umberto Terracini. Scontata la pena tornò a casa, però nessuno voleva dargli lavoro e si ridusse a vendere sputacchiere. Dopo la Liberazione fu riabilitato. Sì, almeno inconsciamente, è stato lui il modello di Montalbano».

A 93 anni di che cosa ha paura?
«Mi prenderà per vanitoso, e non è escluso che io lo sia, ma mi crede se le dico che in vita mia non ho mai avuto paura di niente?».

E certo.
«Mi correggo. Di un solo tipo umano ho sempre avuto paura: 'o fesso. Come diceva Eduardo. Mi terrorizza l'ignorante supponente che ha solo certezze. Io scrivo libri perché sono un cultore del dubbio».

Però qualche anno fa confessò che essere diventato un romanziere di successo le aveva tolto la felicità originaria della scrittura. "Era un piacere, adesso è un lavoro" disse. E oggi che le sue storie è costretto a dettarle perché la vista le è volata via, come si sente?
«All'epoca attraversavo una fase di logoramento. Mi crede se le dico che invece oggi mi sento di nuovo felice?».

E certo.

“Il Venerdì di Repubblica”, 7 giugno 2019

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