Una bella intervista al nostro amato Camilleri, in alcuni passaggi gustosissima, del mese scorso. Aspettiamo la prossima. (S.L.L.)
ROMA.
Andrea Camilleri è nato
nello stesso anno di Malcolm X, Bob Kennedy, Paul Newman, Pol Pot. Il
prossimo 6 settembre compie 94 anni. Nel frattempo ha scritto un
nuovo Montalbano, appena uscito da Sellerio, più un monologo di due
ore e mezza, poi ridotte a una e mezza, sul mito di Caino, che
interpreterà da solo sul palco delle Terme di Caracalla il 15
luglio. Se un infortunio domestico non l'avesse intralciato, a
quest'ora non sarebbe qui davanti a me per l'intervista, ma
probabilmente dal re di Svezia Carlo XVI Gustavo, che lo invita da
tempo perché è fissato con Montalbano. Lui e la regina consorte
Silvia hanno già visitato tutti i luoghi siciliani del Commissario.
E il popolo svedese, a ruota. «Sono stati istituiti speciali voli
charter Stoccolma-Comiso» mi comunica Camilleri. E aggiunge,
fumando: «Se ce la faccio, prima o poi in Scandinavia ci vado».
Quest'ultimo Montalbano
si intitola Il cuoco dell'Alcyon e l'Alcyon è una goletta
dove un losco imprenditore orchestra strani traffici e festini con
escort prima di finire accoppato.
Anche stavolta si è
ispirato a qualche fatto di cronaca?
«Stavolta no. Il libro
rielabora il soggetto di un film che si sarebbe dovuto fare con gli
americani ma andò in fumo. Rimettendo mano alla storia, l'ho spinta
un po' sopra le righe, ci ho infilato una vena parodistica».
Ormai Montalbano ha la
pellaccia abbastanza dura da poter sopravvivere anche alla sua
parodia.
«In questa indagine per
la prima volta si traveste. Si tinge baffi e capelli e perfino
Augello non lo riconosce, tanto che gli spara addosso. Però
l'Alcyon, io l'ho visto davvero. Anni fa, passeggiavo con mia moglie
lungo il molo del mio paese quando apparve una grande goletta,
identica a quella di Agnelli. Un amico negoziante mi rivelò che il
tre alberi si fermava a Porto Empedocle sempre per poche ore. Giusto
il tempo di caricare a bordo viveri, whisky e ragazze. Doveva essere
una di quelle bische galleggianti dove i miliardari se ne stanno a
giocare in acque internazionali belli tranquilli. Nel romanzo
immagino però che la barca venga utilizzata per oscuri summit».
Lei ha debuttato nel
romanzo a 53 anni, era il 1978, con Il corso delle cose. Anche
lì la trama ruotava intorno a un omicidio. Quasi tutta la sua
traiettoria letteraria si snoda sotto il segno del delitto. Come ce e
se lo spiega?
«A modo mio, mi sono
sempre occupato del Male. Come lei sa, non sono scrittore di
fantasia, parto sempre dalla realtà. E, quando ho cominciato con i
romanzi, la realtà erano i morti di mafia, non si contavano più,
non si parlava d'altro. A me questa cosa non andava giù».
In che senso?
«Nel senso che nei miei
libri avrei voluto parlare anche d'altro. Così, in Il corso delle
cose trovai una soluzione che in seguito non avrei più
abbandonato. Accanto a quel macigno che è la mafia ho sempre cercato
di mettere elementi di controcanto. Nel primo romanzo valorizzavo per
esempio il senso dell'amicizia che c'è in Sicilia».
Mafioso o no, mi
racconti un fattaccio siciliano che segnò l'immaginario del giovane
Camilleri.
«Uuuh... Ce n'è
un'infinità».
Ne scelga uno.
«A metà degli anni
Cinquanta c'erano ad Avola due fratelli contadini che si odiavano a
morte da sempre, per il possesso della terra. "La terra
significa guerra" dice il proverbio. Beh, un giorno uno dei due
sparisce. Nella stalla del fratello trovano tracce di sangue. I
carabinieri raccolgono altre prove. Fino a decidere che l'omicidio è
stato compiuto a pietrate e il corpo fatto sparire. La gente è
inorridita. Sulla spinta dell'emozione, la Corte d'Assise condanna il
contadino all'ergastolo».
Anche in assenza di
cadavere.
«Proprio così. Il morto
non si trova. Però qualche tempo dopo, in un paesino a una
cinquantina di chilometri, un commissario di Pubblica Sicurezza
riceve una mezza soffiata e si mette a battere un'altra pista. Indaga
e scopre che nessuno è stato assassinato. Il contadino scomparso si
è nascosto: aveva architettato una messinscena perfetta per mandare
l'odiato fratello a marcire tutta la vita in galera».
A confronto. Caino e
Abele erano due paciocconi. Ma ci arriveremo. Prima volevo chiederle
se sul Camilleri giallista abbiano inciso, oltre alle letture, anche
esperienze personali. Ed eventualmente quali.
«Non le ho mai
raccontato di quando mi trovai in mezzo a quella strage di mafia?».
A me no.
«Ebbene, quando tornavo
a Porto Empedocle andavo a farmi un whisky in un certo bar. Il
proprietario era un tipo simpatico. Esordiva sempre dicendo: "Dottor
Camilleri, il primo giro è offerto". Una sera di settembre
aveva appena smesso di piovere e la gente era scesa tutta in strada.
C'era un'atmosfera di festa. Andai al solito bar, ma lo trovai
chiuso. Dopo un lungo giro, mi infilai nell'ultimo caffè del paese.
Tra la folla, di spalle, c'era un uomo appoggiato al bancone. Quando
ordinai il mio whisky il tizio si voltò e mi disse: "Lei
stasera mi tradisce". Era il padrone del bar dove andavo di
solito. Gli risposi: "Casomai è lei che tradisce sé stesso".
Lui rise e mi disse: "Posso avere l'onore di averla al mio
tavolo fuori? Vorrei presentarle mio padre e un amico". Mi
precedette. Mentre mi apprestavo a seguirlo col whisky in mano tutte
le bottiglie dietro al bancone esplosero. Il rumore era quello
inconfondibile delle mitragliette. Un rumore osceno. Assomiglia a
quello di certi cagnetti arrabbiati quando si mettono ad abbaiare».
Porto Empedocle come
Chicago.
«Un massacro. Più che
di paura, la mia reazione fu di rabbia. Chiesi al barista una
pistola, volevo sparare. Lui mi disse: "Stasse calatu",
stia giù. Mi abbassai, ma non più di tanto, perché c'era sangue
dappertutto e non volevo sporcarmi il vestito. Alla fine, sei morti.
E il bersaglio sa chi era?».
No, ma un sospetto ce
l'ho.
«Il barista che mi aveva
invitato al suo tavolo. Lui, suo padre e il guardaspalle erano
mafiosi di pura razza. Ma io che tornavo in paese per tre giorni
l'anno che potevo saperne? Era il momento nel quale i giovani, i
cosiddetti stiddari, cercavano di sostituirsi alla vecchia mafia».
Di assassini ne avrà
conosciuti.
«Questa domanda mi mette
a disagio. Assassini... che dirle? Sono cresciuto assieme a un grosso
mafioso che sarebbe stato condannato all'ergastolo. Ma come faccio a
definirlo "assassino"? Me lo ricordo bambino... Giovanni
era figlio di contadini, io di un proprietario terriero, andavamo a
scuola, giocavamo assieme... Un giorno mio padre mi disse: "È
sulla mala strada, cerca di non frequentarlo". Eppure con me
continuava a essere affettuoso, quando arrivavo a Porto Empedocle da
Roma mi faceva sempre trovare la ricotta fresca... Assassino? Sa, i
rapporti mutano... Giovanni tentò di sfuggire alla morte
scappandosene in Canada. Gli chiesi: perché te ne vai? E lui -
sempre elegante, un bel ragazzo - rispose: "Nenè, parto perché
questo Paese è diventato ingovernabile". S'era messo a parlare
come un prefetto!».
Perché Camilleri
torna a teatro?
«Perché sono un
contastorie. In fondo non sono mai stato altro».
L'anno scorso il
monologo sul greco Tiresia, adesso sul biblico Caino, il prototipo di
tutti gli omicidi, un po' il patrono di voi giallisti. Lei lo
riabilita.
«Nella tradizione
ebraica, e in parte anche in quella musulmana, esistono una miriade
di controstorie che ci raccontano un Caino molto diverso da quello
della Bibbia. Su queste abbiamo lavorato».
Che dicono?
«Per esempio che né lui
né Abele sarebbero figli di Adamo ed'Eva».
E di chi allora?
«Abele dell'unione tra
la donna e un arcangelo, Caino di quella tra lei e un demonio. Se ne
ricava che l'infedeltà coniugale nacque contestualmente alla prima e
unica coppia del mondo».
Vatti a fidare.
«Non solo. In alcune di
quelle antiche narrazioni lo scontro tra i due fratelli ne rovescia
in qualche modo le posizioni rispetto al testo biblico. Quando
vengono alle mani, Abele, che è il più grosso, sta per sopraffare
Caino che per la prima volta nella storia dell'umanità legge negli
occhi del fratello l'intenzione di uccidere».
Poi però avviene un
ribaltamento.
«Sì, ma uccidendo
Abele, è come se Caino dicesse: se l'avessi lasciato fare sarebbe
stato lui e non io il primo assassino dell'umanità».
Facendolo fuori lo
salva dall'empietà dell'omicidio.
«E lascia aperto un
dubbio: forse non ero io quello condannato al Male in quanto figlio
del demonio e lui quello destinato al Bene perché generato da un
angelo. Viene fuori così la visione di un Male che non è legato
alle nostre origini come una maledizione, ma è una nostra scelta».
Pure Caino è stato un
grande incompreso. Il processo va rifatto.
«C'è tutta una parte
del mito che è affascinante, ma totalmente ignorata. È quella del
Caino fondatore di città, inventore dei pesi e delle misure, della
lavorazione del ferro... Ma soprattutto quella di Caino inventore
della musica. Il Caino che dice: "Ecco io so, ne sono sicuro,
che davanti a Dio l'avere inventato la musica è valso più di ogni
sincero pentimento"».
Però una volta lei ha
detto: «Sono convinto che gli assassini e in genere i delinquenti
siano sostanzialmente degli imbecilli». Ribadisce?
«Assolutamente. Chi
crede al delitto perfetto che cos'è se non un imbecille? Una minima
cretinata lo tradirà. E del resto a che cosa porta il delitto? A
nulla. Hai solo momentaneamente eliminato un ostacolo. A meno di non
adottare il principio staliniano secondo il quale ogni uomo è un
problema ed eliminato lui, eliminato il problema. Era un'idea a suo
modo visionaria (risata). Solo che comporta morti a milioni».
Da regista, lei ha
lasciato il teatro negli anni 70. Che effetto le fa tornarci adesso
da attore?
«Sono in tensione, ma
relativa. È tale e tanto l'afflusso dell'adrenalina che non soffro
più né il caldo né il freddo».
Ho letto che Strehler
non apprezzava granché le sue regie.
«Non le apprezzava per
niente. Che vuole, non ci prendevamo...».
Con chi altri non s'è
mai preso?
«Con Cesare Garboli. Dei
miei versi scrisse: "Le poesie di Camilleri non resistono a una
seconda lettura". Alé!».
Torniamo a Montalbano.
Quest'anno il commissario compie un quarto di secolo. Ma è vero che
l'autentico modello del personaggio fu un suo parente?
«Allude a Carmelo
Camilleri, il cugino di mio padre?».
Lui. Chi era?
«Un commissario della
questura di Milano. Capo della squadra politica. Fascista brutale. Ma
la sua vita cambiò il 12 aprile del '28, quando durante una visita
di Re Vittorio Emanuele III scoppiò una bomba che fece venti morti.
Negli ambienti anarchici e comunisti vennero arrestate sei persone e
condannate a morte. Però, indagando, mio "zio" scoprì che
all'origine dell'attentato c'erano faide tra fascisti. E da ligio
funzionario mandò il rapporto ai suoi superiori che lo trasmisero a
Mussolini. Il quale, dopo averlo letto, scrisse a margine: "Liquidate
Camilleri", siglando il documento con la famosa Emme puntata.
Carmelo Camilleri fu costretto a dimettersi dalla polizia, ma riuscì
a far arrivare in Francia la sua relazione con gli atti probatori,
che vennero pubblicati dal giornale comunista “L'Humanité”.
Grazie al movimento d'opinione che ne scaturì la pena di morte fu
commutata in ergastolo».
Il whistleblower del
Ventennio.
«Sì, ma le autorità
fasciste scoprirono subito che la fuga di documenti era partita da
lui. Fu arrestato e spedito al confino. Lì conobbe dissidenti
comunisti come Umberto Terracini. Scontata la pena tornò a casa,
però nessuno voleva dargli lavoro e si ridusse a vendere
sputacchiere. Dopo la Liberazione fu riabilitato. Sì, almeno
inconsciamente, è stato lui il modello di Montalbano».
A 93 anni di che cosa
ha paura?
«Mi prenderà per
vanitoso, e non è escluso che io lo sia, ma mi crede se le dico che
in vita mia non ho mai avuto paura di niente?».
E certo.
«Mi correggo. Di un solo
tipo umano ho sempre avuto paura: 'o fesso. Come diceva Eduardo. Mi
terrorizza l'ignorante supponente che ha solo certezze. Io scrivo
libri perché sono un cultore del dubbio».
Però qualche anno fa
confessò che essere diventato un romanziere di successo le aveva
tolto la felicità originaria della scrittura. "Era un piacere,
adesso è un lavoro" disse. E oggi che le sue storie è
costretto a dettarle perché la vista le è volata via, come si
sente?
«All'epoca attraversavo
una fase di logoramento. Mi crede se le dico che invece oggi mi sento
di nuovo felice?».
E certo.
“Il
Venerdì di Repubblica”, 7 giugno 2019
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