L’altra mattina a
Madrid ero a colazione col mio re. Non vorrei essere frainteso: pur
essendo di fieri sentimenti repubblicani, due anni fa sono stato
nominato duca del Regno di Redonda (col titolo di Duque de l’Isla
del Dia de Antes) e questa dignità ducale condivido con Pedro
Almodóvar, Antonia Susan Byatt, Francis Ford Coppola, Arturo
Pérez-Reverte, Fernando Savater, Pietro Citati, Claudio Magris, Ray
Bradbury e alcuni altri, tutti in qualche modo uniti dalla comune
qualità di essere simpatici al re.
Dunque, l’isola di
Redonda sta nelle Indie Occidentali, misura trenta chilometri
quadrati (un fazzoletto), è del tutto disabitata e ritengo che
nessuno dei suoi monarchi vi abbia mai messo piede. L’aveva
acquistata nel 1865 un banchiere, Matthew Dowdy Shiell, che aveva
chiesto alla regina Vittoria di costituirla in regno autonomo, ciò
che la graziosa maestà aveva fatto senza problemi perché non vi
vedeva alcuna minaccia per l’impero coloniale britannico. Nel corso
dei decenni l’isola era passata sotto vari monarchi, alcuni dei
quali avevano venduto il titolo più volte, provocando risse di
pretendenti (e se volete sapere tutta la storia pluridinastica
cercate Redonda su Wikipedia), e nel 1997 l’ultimo re aveva
abdicato a favore di un famoso scrittore spagnolo, Javier Marìas
(ampiamente tradotto anche in Italia), il quale ha cominciato a
nominare duchi a destra e a manca.
Ecco tutta la storia, che
naturalmente sa un poco di follia patafisica, ma insomma, diventare
duca non è cosa da tutti i giorni. Il punto tuttavia non è questo:
è che nel corso del la nostra conversazione Marìas ha detto una
cosa sulla qua le vale la pena di riflettere. Si discuteva sul fatto
evidente che oggi la gente è disposta a fare carte false pur di
apparire su un teleschermo, anche solo come l’imbecille che fa ciao
ciao dietro all’intervistato. Recentemente in Italia il fratello di
una ragazza barbaramente assassinata, avendo dolorosamente sfiorato
gli onori della cronaca, è andato da Lele Mora a chiedere un
ingaggio televisivo per poter fare fruttare quella sua tragica
notorietà, e sappiamo di chi, pur di apparire alla ribalta della
cronaca, è disposto a dichiararsi cornuto, impotente o truffatore,
né è ignoto agli psicologi criminali che ciò che muove il serial
killer è il desiderio di essere scoperto e diventare celebre.
Perché questa follia, ci
si domandava? Marìas ha avanzato l’ipotesi che quanto accade oggi
dipenda dal fatto che gli uomini non credano più in Dio. Un tempo
gli uomini erano persuasi che ogni loro azione avesse almeno uno
Spettatore, che conosceva tutti i loro gesti (e i loro pensieri),
poteva comprenderli o all’occorrenza condannarli. Si poteva essere
un reietto, un buono a nulla, uno “sfigato” ignorato dai propri
simili, che un minuto dopo la sua scomparsa sarebbe stato dimenticato
da tutti, ma si nutriva la persuasione che almeno Uno sapesse lutto
di noi.
“Dio sa che cosa ho
sofferto,” si diceva la nonna inferma, abbandonata dai nipoti, “Dio
sa che sono innocente,” si consolava chi era stato condannato
ingiustamente, “Dio sa quanto ho fatto per te,” diceva la madre
al figlio sconoscente, “Dio sa quanto ti amo,” gridava l’amante
abbandonato, “Solo Dio sa quante ne ho passate,” lamentava lo
sciagurato delle cui svenirne non importava niente a nessuno. Dio era
sempre invocato come l’occhio a cui nulla sfuggiva e il cui sguardo
dava senso anche alla vita più grigia e insensata.
Scomparso, rimosso questo
Testimone onniveggente, che cosa rimane? L’occhio della società,
l’occhio degli altri, a cui bisogna mostrarsi per non sprofondare
nel buco nero dell’anonimato, nel vortice della dimenticanza, anche
a costo di scegliere il ruolo dello scemo del paese che si mette in
mutande e balla sul tavolo dell’osteria. L’apparizione sullo
schermo è l’unico succedaneo della trascendenza, e ne è un
succedaneo tutto sommato gratificante: ci si vede (e ci vedono) in un
aldilà, ma in compenso in quell’aldilà tutti ci vedono qua, e
mentre qua ci siamo anche noi - pensate che vantaggio, godere di
tutti i vantaggi dell’immortalità (sia pure assai rapida e
transeunte) e avere nel contempo la possibilità di essere
festeggiati a casa nostra (in terra) per la nostra assunzione nell
Empireo.
Il guaio è che in questi
casi si equivoca sul doppio significato del “riconoscimento”.
Tutti aspiriamo a che vengano “riconosciuti” i nostri meriti, o i
nostri sacrifici, o qualsiasi altra nostra bella qualità; ma quando,
dopo essere apparsi sullo schermo, qualcuno ci vede al bar e ci dice
"l'ho vista ieri in televisione” semplicemente “riconosce te ,
ovvero la tua faccia — il che è cosa assai diversa.
Da “L'Espresso” una
bustina di Minerva del
2010 – ora in Pape Satàn Aleppe, La
Nave di Teseo, 2016
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