“L’uomo che ci ha
ridato Gramsci”, così Guido Liguori, presidente della
International Gramsci Society, nell’intervento conclusivo
del convegno che ha ricordato, nel centenario della nascita, la
figura di Valentino Gerratana, e che si è tenuto a Modica, città di
origine dello studioso, il 15 e il 16 giugno.
Il convegno modicano,
organizzato da una “scuola di formazione politica” intitolata
alla memoria di Virgilio Failla (storico leader e a lungo deputato
del Pci nel ragusano, in quella che a lungo è stata la “provincia
rossa” della Sicilia), in collaborazione con l’Istituto Gramsci
siciliano e quello nazionale, nonché con la Gramsci International
Society, ha avuto il merito di collocare la figura di Gerratana nel
contesto della sue radici (a partire dalla relazione di Giancarlo
Poidomani, storico dell’università di Catania, su “la
costruzione del Partito nuovo nella provincia iblea”) e di
illuminare passaggi della biografia di Gerratana che sono rimasti a
lungo poco conosciuti, quasi oscurati dall’imponente lavoro per
l’edizione critica dei Quaderni di Gramsci, a cui il nome di
Gerratana rimarrà indubbiamente legato.
Un momento culminante, e
anche molto toccante, del convegno si è avuto con una lunga
video-intervista di Emanuele Macaluso. Lo storico leader del PCI ha
ricordato i suoi rapporti con Valentino Gerratana, conosciuto in
Sicilia nei primi anni del Dopoguerra, quando Macaluso era segretario
della Cgil siciliana e Valentino – inviato in Sicilia dal partito
per affiancare Girolamo Li Causi – era il direttore, di fatto, de
“La voce della Sicilia”, il quotidiano voluto dal Pci per
sostenere la battaglia politica durissima di quegli anni per la
democrazia e la “terra ai contadini”. La testimonianza di
Macaluso ha sottolineato, tra l’altro, la grande stima che
Togliatti aveva maturato nei confronti del giovane intellettuale
siciliano.
L’amicizia con
Giaime Pintor
La relazione generale
introduttiva del sen. Concetto Scivoletto ha ricostruito l’intero
percorso biografico di Gerratana.
Nato il 14 febbraio del
1919, da una famiglia di piccola borghesia impiegatizia (il padre era
un agente delle imposte, la madre viene ricordata negli atti
anagrafici come “possidente”), secondo di quattro figli,
Gerratana perde il padre ad appena 13 anni, e si impegna fortemente
nello studio, conseguendo la maturità classica a 17 anni nel liceo
classico di Modica.
Segue poi il
trasferimento a Roma, iscrivendosi a Giurisprudenza e laureandosi poi
nel 1941. Risalgono a quegli anni, le prime testimonianze del suo
impegno critico sul terreno filosofico, pubblicando Gerratana, sul
Bollettino dell’Istituto di Studi Filosofici dell’Università di
Roma, tre saggi di polemica con Benedetto Croce. Ma la “grande
storia” incombe: e Gerratana, frequentando la scuola allievi
ufficiali di Salerno, incontra nel 1939 due figure che segneranno la
sua vita: Giaime Pintor e Carlo Salinari.
L’amicizia con Giaime,
e la sua tragica morte, non possono che dargli una forte motivazione
politica e morale e spingerlo all’impegno politico: Carlo Salinari
diviene il tramite per l’ingresso nel Pci clandestino e nella
Resistenza romana: Gerratana sarà uno dei capi militari dei Gruppi
di Azione Patriottica romani (con il nome di battaglia “Santo”).
Anni di duro impegno e di dolore, che imponevano rigorose scelte
morali, come lo stesso Gerratana ricorderà poi nella sua
introduzione al testo di Giaime Pintor, Sangue d’Europa,
pubblicato da Einaudi. E anni che segnano dolorosamente anche la sua
vita familiare: nel 1941 muore in Grecia il fratello maggiore di
Gerratana, ufficiale medico.
A Gerratana sarà poi
conferita una medaglia d’argento al valor militare; ma, come è
stato ricordato da molti nel corso del convegno modicano, egli
rifuggirà sempre da ogni enfasi celebrativa su questi sui trascorsi:
un costume di riservatezza che sarà uno dei tratti costitutivi della
sua personalità, e ricordati anche dalla testimonianza dell’avv.
Carmelo Ruta, già sindaco di Modica, che conferì negli anni Novanta
a Gerratana un riconoscimento a nome della città.
La “Voce della
Sicilia” e l’Unità
Nel dopoguerra, Gerratana
si ritrova a vivere pienamente l’esperienza straordinaria di quel
“nucleo romano” del Pci che tanta parte avrà nella storia del
partito e nella costruzione del rapporto tra Pci e intellettuali: e
si ritrova a gravitare e lavorare nell’ambito della commissione
“stampa e propaganda” della direzione del partito. Una prima
svolta matura già nel 1946: Togliatti “invia” in Sicilia, a
costruire il Pci, Girolamo Li Causi e gli affianca Gerratana, per
dirigere la “La Voce della Sicilia”, il quotidiano del comitato
regionale del Pci: Michele Figurelli, nella sua relazione, ha
ricostruito la linea politica e editoriale del giornale, e il
contributo che vi diede Gerratana. E anche da queste pagine emerge la
forza con cui il Pci affrontò la drammatica condizione sociale
dell’isola, le lotte contadine, il movimento separatista, la
costruzione di un partito che aveva radici deboli e che pure, in
pochi mesi, ottenne risultati elettorali straordinari, fino al
successo delle elezioni regionali del ’47, con la successiva,
violenta reazione degli apparati statali, degli agrari e della mafia.
Gerratana rimane nella
sua Sicilia fino al ’48: da qui passa all’altro capo della
penisola, va a lavorare a Torino, presso la casa editrice Einaudi e
nella redazione torinese de “L’Unità” dove conosce –
restandogli legato da una lunga amicizia – Paolo Spriano e Italo
Calvino. Le relazioni di Delia Miceli e Gregorio Sorgonà, archivisti
e ricercatori della Fondazione Gramsci, hanno dato conto dei “fondi”
documentari che sono oggi conservati dalla Fondazione e che
testimoniano della lunga attività di Gerratana come protagonista
della politica culturale del Pci.
Dai primi anni Cinquanta
inizia la collaborazione con le Edizioni Rinascita; partecipa poi
alla fondazione degli Editori Riuniti di cui dirige la collana
“Classici del Marxismo”; collabora con l’Istituto Gramsci,
divenendo prima membro del consiglio direttivo e dal 1957 direttore
della sezione Filosofia. E svolge anche un’intensa attività
pubblicistica su tutta la stampa di partito, anche quella
“collaterale” dalle più dirette finalità pedagogiche (ad
esempio, “Il calendario del popolo”: una comunicazione del
giornalista Pinuccio Calabrese ha analizzato la collaborazione di
Gerratana sul tema “religione e politica”).
L’edizione
critica dei Quaderni dal carcere di Gramsci
Nel 1972 Gerratana
ottiene la cattedra di Storia della filosofia all’Università di
Salerno, dove rimarrà fino al 1994 (con una breve parentesi a
Siena): un riconoscimento per la sua ricchissima produzione
scientifica, che ha visto Gerratana curare e introdurre opere di
Rousseau, Antonio Labriola, Marx ed Engels, Lenin. Nel 1966, su
proposta dell’allora segretario generale dell’Istituto Gramsci,
Franco Ferri, e su decisione della segreteria del Pci, a Gerratana
viene affidato l’incarico di lavorare all’edizione critica dei
Quaderni dal carcere, conclusa nel 1975.
In un’intervista
rilasciata nel 1987 al giornalista dell’Unità Eugenio Manca,
Valentino Gerratana, a proposito della prima edizione dei “Quaderni”,
affermava che in quel caso “di Gramsci si offrì una
rappresentazione vera ma parziale, non priva di forzature o di
omissioni”. In effetti, Gerratana, come ha ricordato Guido Liguori,
riconosceva questi limiti, ma anche i meriti, della vera e propria
“operazione egemonica”, con cui Togliatti introdusse Gramsci
nella cultura italiana, organizzando – com’è noto – i Quaderni
su base tematica: il merito di aver fatto conoscere il pensiero
gramsciano forse nel solo modo, e nel modo più rapido, con cui
allora era possibile; ma il limite di averlo fatto con qualche
forzatura e censura nei testi, facendo perdere il legame critico che
Gramsci continuava a intessere – sebbene chiuso nelle carceri
fasciste – con le vicende del movimento comunista internazionale, e
trasformando la stessa immagine di Gramsci: non un politico e un
teorico rivoluzionario, che rifletteva sulle ragioni della sconfitta
del movimento operaio in Occidente, ma un grande intellettuale che
lavorava sulla base delle tradizioni partizioni disciplinari: la
filosofia, la critica letteraria, la storiografia… Un’immagine
parziale, che tuttavia permise al pensiero gramsciano di entrare
prepotentemente nella cultura italiana e che permise anche, almeno in
parte, di stemperare – nella cultura del Pci – gli effetti della
grigia stagione staliniana.
Quello
straordinario rapporto tra intellettuali e Pci
Valentino Gerratana, con
il suo lavoro e quello di tutto il gruppo dei suoi collaboratori –
tra cui va ricordato Antonio Santucci, prematuramente scomparso –
ci ha restituito un Gramsci che si arrovella, pensa, riflette, scrive
e riscrive i suoi appunti: un pensiero vivente che costituisce uno
straordinario patrimonio, come testimonia la crescita esponenziale
dell’interesse critico verso la sua opera, specie negli Stati Uniti
e in America Latina (la stessa nascita della International Gramsci
Society, di cui Gerratana sarà primo presidente, si deve – lo
ha ricordato Liguori – all’iniziativa di alcuni intellettuali
nordamericani).
Insomma, la figura di
Gerratana è emersa dal convegno modicano in tutta la sua ricchezza:
“filosofo militante”, si dice, nel titolo stesso del convegno.
Chi scrive ha voluto offrire, nel suo intervento, qualche riflessione
su una stagione straordinaria del rapporto tra la cultura e la
politica, tra gli intellettuali e un partito come il Pci; e sui
termini con cui oggi sia possibile ripensare il nesso tra ricerca
teorica e intellettuale, cultura politica, partiti. Oggi, forse, non
si riesce nemmeno più a capire bene il senso di un’espressione
che, giustamente, può essere evocata anche a proposito di una figura
come quella di Gerratana, l’essere egli un “intellettuale
organico”. Anzi, questa definizione viene oramai spesso usata in
modo dispregiativo, o abbandonata perché foriera di equivoci. Si
stenta persino a comprendere, oggi, come una generazione di
intellettuali comunisti, di cui Gerratana è stato una delle più
alte espressioni, concepisse il proprio rapporto con la politica e –
quel che conta – con un organismo collettivo quale era un partito
di massa.
Il partito come
intellettuale collettivo
Non erano intellettuali
“prestati” alla politica, come si dice oggi: al contrario, erano
intellettuali che sentivano profondamente l’intrinseca “politicità”
del loro specifico lavoro teorico e scientifico, che proprio per
questo – anzi, tanto più per questo – doveva essere svolto con
il massimo del rigore intellettuale. Erano intellettuali che erano e
si sentivano profondamente parte di un “gruppo dirigente”, anche
senza avere specifici incarichi politici: e potevano farlo perché il
Pci era un partito che agiva come un luogo collettivo in cui questo
incontro tra ricerca, cultura politica diffusa e “senso comune”,
poteva esprimere al meglio le sue potenzialità.
Uno straordinario testo
di Gramsci ci ricorda come ogni uomo “è un filosofo”, portatore
di una “filosofia spontanea”, di una concezione del mondo spesso
assunta passivamente dall’esterno e non rielaborata criticamente.
Compito degli intellettuali è appunto quello di elaborare questa
“filosofia spontanea”, costruire una consapevolezza critica di
quanto spesso rimane implicito o confuso. E il partito, ricorda
Gramsci in un altro passaggio, può essere uno “sperimentatore”
di queste concezioni del mondo: il luogo collettivo in cui si cerca
di “tenere insieme” la “filosofia spontanea” e la riflessione
critica. Per questo, gli “intellettuali organici” di quella
stagione politica non vedevano il “partito” come un’entità a
cui sacrificare la propria libertà intellettuale: anzi, il partito
era lo strumento collettivo attraverso cui soltanto il pensiero di un
singolo poteva trovare il modo migliore per esprimersi ed essere
valorizzato: attraverso cui il lavoro intellettuale diveniva esso
stesso prassi. Si superava così una visione astratta,
individualistica, della propria libertà intellettuale. Se la propria
riflessione teorica doveva essere parte della costruzione di una
coscienza collettiva, livelli e forme di mediazione erano
inevitabili. E servivano a poco fughe in avanti che magari potevano e
gratificare una dimensione “narcisistica” individuale, ma che non
entravano nella costruzione di una più ricca e matura cultura
politica diffusa.
La costruzione
mancata di una cultura comune
Si comprende bene, così,
come anche Valentino Gerratana, al pari di altri intellettuali
comunisti della sua generazione, abbia vissuto molto male la “svolta”
della Bolognina e la fine del Pci: quel che soprattutto colpiva
negativamente era lo scarso rigore intellettuale, la notevole dose di
superficialità, con cui si affrontò il nodo storico della fine del
“comunismo reale”: qualcosa che strideva fortemente con
un’eredità critica che aveva segnato un’intera esistenza.
Oggi, i termini del
rapporto tra cultura e politica si pongono in modo certamente diverso
dal passato; ma ci dovrebbe essere (e spesso non c’è) una
drammatica consapevolezza di quanto urgente sia – per il destino
della sinistra e della stessa democrazia – ricostruire questo
rapporto. Non mancano oggi, nella cultura contemporanea, contributi
intellettuali di alto valore che offrono uno sguardo critico sul
presente e si interrogano sulle potenzialità di liberazione ed
emancipazione che possono essere aperte o anche solo intravviste.
Quel che manca, drammaticamente, e specie in Italia, sono le sedi, i
luoghi, i canali, attraverso cui riconnettere la ricerca teorica e la
produzione scientifica, da un lato, e – dall’altro – la
costruzione di una cultura politica diffusa, di una coscienza
collettiva che possa rappresentare il “bagaglio culturale” con
cui chi “fa politica” guarda alla realtà. Una sconnessione
letale, a cui bisognerà pur tentare di reagire.
Strisciarossa, 9 luglio
2019
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