7.7.19

Stroncature. “A sangue freddo” di Truman Capote (Giorgio Manacorda)

Ritrovo un ritaglio dall'Unità vecchio di cinquant'anni quasi esatti con un pezzo di Giorgio Manacorda dalla rubrica Rileggere, una “rilettura” dunque già allora, benché a pochissimi anni dall'uscita del libro di Truman Capote. 
Manacorda non poteva sapere che si trattava dell'ultimo romanzo portato a termine dallo scrittore americano, entrato negli anni 70 del 900 in una crisi letteraria ed esistenziale che – con alti e bassi (più bassi che alti) – lo accompagnò fino alla morte nel 1984; e dunque non sbagliò del tutto diagnosi quando sostenne che quel libro non era l'origine di un nuovo genere, di una nuova scuola (il “romanzo-verità”), ma l'opera di uno scrittore se non “finito” come il critico asserisce, quanto meno “alla fine”. E tuttavia la sua “stroncatura” - perché di questo si tratta, e non già di una rilettura – mi pare ingenerosa e sbagliata e il libro resta per me un libro molto importante, se non proprio un capolavoro. 
Affido l'articolo alla lettura (o – chissà – rilettura) dei 24 frequentatori di questo blog. (S.L.L.)

Truman Capote

1966. Un best seller internazionale: A sangue freddo di Truman Capote. Tutti lo leggono, tutti ne parlano. Polemiche in pubblico, polemiche in privato e l'inevitabile film che, in questa stagione di riprese, è annunciato sugli schermi del cinéma d'essai.
Un libro dichiaratamente sui generis, un romanzo costruito su un fatto di cronaca e scritto da Capote sulla base di colloqui con i due assassini.
Lasciamo da parte, per il loro carattere esterno rispetto all'opera scritta, le accuse che allora gli mosse il critico dell’Observer. Kenneth Tynan sosteneva che Capote non avrebbe fatto nulla per salvare la vita di quei due uomini, di cui egli diceva di essere diventato amico. Limitiamoci al libro. L'impressione che se ne ricava è la seguente, un libro costruito apposta per l'americano medio, il libro di uno scrittore finito, ma con tanto mestiere. Un autore che sfrutta fino in fondo le risorse di una realtà patologica, ma non per coglierne una qualche verità intima e dolorosa bensì per avere «qualcosa da dire».
Uno scrittore che non si rassegna all’esaurimento della propria vena, e tenta di rinsanguarla con sangue vero ma non ci riesce perché il libro è stato pensato sccondo le categorie estetiche e formali che improntano la mentalità e il comportamento dell’americano medio (come giustamente notò Moravia). La pretesa oggettività di Capote non è altro che un freddo estetismo da supermarket. A parte la struttura formale e lo «spessore» linguistico pei cui non vale la pena di spendere una parola, è molto rivelatrice la struttura narrativa di questo romanzo. Come prima cosa Capote ci descrive la vita delle vittime e ne fa un ritratto tale che ogni americano «come si deve» non può non amare.
Si tratta di un esempio tipico di famiglia americana, in cui il padre è di tempra dura, la tempra dei pionieri «che si sono fatti da soli» e i figli vivono spensierati e felici tra una partita di baseball e una torta di mele. Capote indugia a farci amare le vittime, ma è estremamente «obiettivo» freddo e distaccato nei confronti dei due assassini: essi sono semplicemente radiografati.
Gli stadi della struttura del romanzo sono tre: a) Amore. compassione e identificazione nella famiglia «per bene» depositaria dei valori della società e di tutto ciò che ni può desiderare; b) sgomento, terrore per la distruzione «senza ragione» di tanta perfezione, di tanto eden; c) rasserenamento nella spiegazione: sono due pazzi criminali che verranno uccisi a loro volta. La pace torna nell’americano medio: ciò che esce dalla regola è assurdo come un fulmine o una forza naturale o la pazzia dei due assassini.
Al di là o al di sotto delle intenzioni di Truman Capote, A sangue freddo è un romanzo in qualche modo emblematico: se dal suo interno non scaturisce nulla, scaturisce molto una volta che dal di fuori il critico collochi il romanzo e il suo autore nell'ambìto della società che li ha prodotti.

"l'Unità", 8 luglio 1969

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