Ritrovo un ritaglio
dall'Unità vecchio di cinquant'anni quasi esatti con un pezzo di
Giorgio Manacorda dalla rubrica Rileggere,
una “rilettura” dunque già allora, benché a pochissimi anni
dall'uscita del libro di Truman Capote.
Manacorda non poteva sapere
che si trattava dell'ultimo romanzo portato a termine dallo
scrittore americano, entrato negli anni 70 del 900 in una crisi
letteraria ed esistenziale che – con alti e bassi (più bassi che
alti) – lo accompagnò fino alla morte nel 1984; e dunque non sbagliò del tutto diagnosi
quando sostenne che quel libro non era l'origine di un nuovo genere, di una nuova scuola (il “romanzo-verità”), ma l'opera di uno
scrittore se non “finito” come il critico asserisce, quanto meno
“alla fine”. E tuttavia la sua “stroncatura” - perché di
questo si tratta, e non già di una rilettura – mi pare ingenerosa
e sbagliata e il libro resta per me un libro molto importante, se non
proprio un capolavoro.
Affido l'articolo alla lettura (o – chissà –
rilettura) dei 24 frequentatori di questo blog. (S.L.L.)
Truman Capote |
1966. Un best seller
internazionale: A sangue freddo di Truman Capote. Tutti lo
leggono, tutti ne parlano. Polemiche in pubblico, polemiche in
privato e l'inevitabile film che, in questa stagione di riprese, è
annunciato sugli schermi del cinéma d'essai.
Un libro dichiaratamente
sui generis, un romanzo costruito su un fatto di cronaca e scritto da
Capote sulla base di colloqui con i due assassini.
Lasciamo da parte, per il
loro carattere esterno rispetto all'opera scritta, le accuse che
allora gli mosse il critico dell’Observer. Kenneth Tynan
sosteneva che Capote non avrebbe fatto nulla per salvare la vita di
quei due uomini, di cui egli diceva di essere diventato amico.
Limitiamoci al libro. L'impressione che se ne ricava è la seguente,
un libro costruito apposta per l'americano medio, il libro di uno
scrittore finito, ma con tanto mestiere. Un autore che sfrutta fino
in fondo le risorse di una realtà patologica, ma non per coglierne
una qualche verità intima e dolorosa bensì per avere «qualcosa da
dire».
Uno scrittore che non si
rassegna all’esaurimento della propria vena, e tenta di
rinsanguarla con sangue vero ma non ci riesce perché il libro è
stato pensato sccondo le categorie estetiche e formali che improntano
la mentalità e il comportamento dell’americano medio (come
giustamente notò Moravia). La pretesa oggettività di Capote non è
altro che un freddo estetismo da supermarket. A parte la struttura
formale e lo «spessore» linguistico pei cui non vale la pena di
spendere una parola, è molto rivelatrice la struttura narrativa di
questo romanzo. Come prima cosa Capote ci descrive la vita delle
vittime e ne fa un ritratto tale che ogni americano «come si deve»
non può non amare.
Si tratta di un esempio
tipico di famiglia americana, in cui il padre è di tempra dura, la
tempra dei pionieri «che si sono fatti da soli» e i figli vivono
spensierati e felici tra una partita di baseball e una torta di mele.
Capote indugia a farci amare le vittime, ma è estremamente
«obiettivo» freddo e distaccato nei confronti dei due assassini:
essi sono semplicemente radiografati.
Gli stadi della struttura
del romanzo sono tre: a) Amore. compassione e identificazione nella
famiglia «per bene» depositaria dei valori della società e di
tutto ciò che ni può desiderare; b) sgomento, terrore per la
distruzione «senza ragione» di tanta perfezione, di tanto eden; c)
rasserenamento nella spiegazione: sono due pazzi criminali che
verranno uccisi a loro volta. La pace torna nell’americano medio:
ciò che esce dalla regola è assurdo come un fulmine o una forza
naturale o la pazzia dei due assassini.
Al di là o al di sotto
delle intenzioni di Truman Capote, A sangue freddo è un
romanzo in qualche modo emblematico: se dal suo interno non
scaturisce nulla, scaturisce molto una volta che dal di fuori il
critico collochi il romanzo e il suo autore nell'ambìto della
società che li ha prodotti.
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