Ho ritrovato in una copia dell'Unità di oltre 50 anni fa questo articolo (con annessa carina illustrativa) che faceva, allora, il punto sulla questione curda, molto bello e molto chiaro, credo persino utile a comprendere l'oggi di quelle terre martoriate. E ho fatto tra me e me qualche considerazione.
Primo: la situazione non è per niente migliorata, anzi ...
Secondo: quelli che ci avevano promesso dopo la fine dell'URSS un mondo unificato e pacificato dal mercato e dal benessere capitalistico si ingannavano e/o ci ingannavano. Forse non è sempre il capitalismo a generare le guerre, che talora hanno radici molto lontane, ma di sicuro le alimenta e se ne alimenta.
Terzo: l'Unione Sovietica, pur con i suoi errori ed orrori gravissimi e tragici, conservava un nocciolo duro delle sue origini internazionalistiche, pacifiste e umanitarie, che immettevano feconde contraddizioni nelle sue stesse politiche imperiali. Non dirò certo "ardatece l'URSS", perché quella specie di comunismo non è crollato solo per l'iniziativa dei suoi nemici, ma perché era fatto molto male; ma credo di poter dire che, senza l'URSS, e nonostante i progressi tecnologici che potrebbero sconfiggere dappertutto la miseria, il mondo è peggiorato. (S.L.L.)
Un popolo di
pastori che lotta per l’indipendenza
Si chiamano «
Pesh-merga » (« a favore della vita ») i soldati dell’esercito
del leggendario Barzani — Dal crollo dell’Impero Ottomano ai
trattati di Losanna — La feroce politica di repressione dei turchi
— Le prime rivolte iniziano nel 1930 — La storia del Kurdistan
irakeno: dalla vittoria alla nuova clandestinità — Un problema che
deve essere risolto all’interno del mondo e dell’unità araba
«Pesh-merga
significa nella nostra lingua a favore della vita. Ma sarebbe più
giusto tradurre votato alla morte. Votato alla morte per il Kurdistan
». Cosi si definiscono i Pesh-merga. i soldati regolari
dell’esercito di Mollati Moustafa Barzani, il leggendario capotribù
curdo che ha diretto, attorno agli anni 30, la rivolta contro re
Faysal. che ha fondato una libera Repubblica curda nel 1946 su
territorio persiano, che è stato costretto all’esilio con alcune
centinaia di suoi uomini per quasi dodici anni, che è rientrato come
un eroe nazionale a Bagdad nel 1958 e che dal 1961 è in guerra
dichiarata contro il governo centrale. Un fanatico separatista? Un
«signore della guerra»? Un capo religioso? Un conseguente
rivoluzionario? Non è facile dare una risposta a questi
interrogatici. E non è nemmeno facile raggiungere i protagonisti di
questa guerra, che vivono e combattono nella zona più impervia del
massiccio montuoso che sta tra Turchia. Iran e lrak, là dove nascono
il Tigri e l’EuJrate e dove la Bibbia vuole sia andata ad
infrangersi, dopo il Diluvio, l’Arca di Noè.
René Mauriès, un
giornalista francese che, circa un anno fa. è riuscito a raggiungere
i guerriglieri e a vivere per alcune settimane nelle zone controllate
dal « Consiglio del Comando della Rivoluzione curda» e che ha
assistito alla sanguinosa battaglia di Ruwanduz, ha pubblicato
recentemente un ampio resoconto del suo viaggio (R. Mauriès: Le
Kurdistan ou la mort , ed. Laffont). C’è in queste pagine di
reportage da una zona di guerra, una sincera commozione ma anche il
tentativo, abbastanza scoperto, di interpretare in chiave nettamente
antiaraba (ed antisovietica) una questione come quella curda la cui
soluzione non può essere che affidata all’accordo politico.
Anche R. Abdel Rader, in
un saggio già recensito dall’Unità. ha collocato la questione
curda in questa prospettiva. Anzi, egli pretende addirittura di
tracciare un singolare segno di uguaglianza tra il problema curdo e
quello israeliano. Si tratta, dice Abdel Rader di « due nazionalismi
non arabi che costituiscono in seno al mondo arabo la contraddizione
principale capace di determinare un rovesciamento rivoluzionario
imminente ». La proposta appare quanto mai arbitraria. Non si vede
infatti proprio cosa abbiano in comune il nazionalismo israeliano,
con la sua carica aggressiva antiaraba e il suo collegamento
internazionale con l’imperialismo, con la battaglia nazionale di un
popolo come quello curdo, che colloca le proprie rivendicazioni di
autonomia ben all’interno del mondo e dell’unità araba.
Quanti sono i curdi?
Persino su questo c’è incertezza. Autorevoli pubblicazioni inglesi
parlano di poco più di tre milioni di persone, B. Venier, uno
studioso francese di questioni irakene, li fa ammontare a oltre sette
milioni. 1 dati statistici, anche quelli che si riferiscono alla
popolazione, sono sempre piuttosto approssimativi, in queste zone.
Fatto sta che colonie curde più o meno consistenti sono presenti in
tutto il Medio Oriente; ma in Irak essi sono circa due milioni, un
terzo circa della popolazione complessiva del paese, il più grosso
problema nazionale di un paese che è un mosaico di nazionalità.
«Morire per te.
Kurdistan, niente è più bello...»: popolo di pastori e di
guerrieri (non parlano delle loro gesta perfino Erodoto e Senofonte?
non era curdo il Saladino?), i curdi cantano una vigorosa poesia
epica. Eppure il Kurdistan, come Stato, non è mai esistito, anche se
unità di linguaggio (una variante del persiano), di cultura e di
razza ha alimentato per lungo periodo le aspirazioni nazionalistiche
di alcuni gruppi.
Ci fu anche un momento,
subito dopo la prima guerra mondiale, in cui parve che queste
speranze potessero trovare concreta realizzazione. Il Trattato di
Sèvres infatti mentre sanciva il crollo e lo smembramento
dell’Impero ottomano non si preoccupava di alimentare in funzione
antiturca le aspirazioni nazionalistiche di popoli nuovi. Venne
quindi stabilito, a favore dei curdi una autonomia estremamente larga
fino a prevedere la possibilità di formazione di uno Stato curdo
indipendente ove tale volontà fosse stata espressa dalla maggioranza
delle popolazioni interessate. Il Trattato di Sèvres venne annullato
dai successivi accordi di Losanna; ma che il problema curdo non
potesse ricondursi alla irrequietezza di alcuni capitribù è provato
anche dal fatto che in quella sede il capo della delegazione turca,
Ismet Inonu, fosse costretto a fare dichiarazioni concilianti di
questo tipo: «La Turchia è il paese di due popoli. turchi e curdi,
e tutti e due hanno ugualmente diritto a governare il paese». Le
cose andarono molto diversamente. e la politica kemalista di
turchizzazione conobbe episodi di una ferocia inaudita. Persino la
parola curdo venne praticamente bandita e sostituita dall’ipocrita
termine «turco della montagna ».
Il Kurdistan irakeno
comprende la zona di Mossoul, ricca di petrolio. Sì spiega quindi
l’attenzione che fin da allora l’Inghilterra portò alla
questione, ottenendo finalmente l’inclusione della regione nellTrak
sottoposto a suo mandato. Mossoul venne definitivamente assegnata
all'lrak nel dicembre del 1925. con una decisione della Società
delle Nazioni che sottolineava tuttavia la esigenza di misure
particolari per il rispetto della etnia curda.
I curdi furono tanto poco
soddisfatti di questa soluzione che si rifiutarono, tra l’altro, di
prendere parte al referendum plebiscito con cui l’Inghilterra fece
eleggere Re l'Emiro Faysal. E viste costantemente disattese le loro
rivendicazioni, diedero vita attorno al 1930 alle prime vere e
proprie rivolte. Alta testa di queste si posero i capi di una delle
più antiche e «turbolente» tribù della montagna, i Barzani,
insieme capi religiosi politici e militari. I fratelli Barzani erano
due: il primo, Mahmoud trovò la morte in combattimento. Il secondo,
Moustafa. dirige la rivolta dal 1933. Sono passati da allora
trentacinque anni. Moustafa Barzani ha conosciuto la vittoria e la
ritirata, l’esilio e il trionfo. Ha fondato, nel 1946 la libera
Repubblica di Mahabad schiacciata dopo nemmeno un anno dalla
repressione congiunta inglese irakena e persiana. Mentre i capi della
Repubblica venivano impiccati dopo un processo sommario, Moustafa
Barzani con un migliaio di fedelissimi riusciva a sfuggire
all’accanito inseguimento nemico attraversando. in pieno inverno,
una catena montuosa di duemila metri di altezza per strade impervie
da lui solo conosciute, raggiungendo cosi il territorio sovietico.
L’esilio e la
clandestinità non impedivano al movimento di riorganizzarsi e di far
sentire la sua voce, anche a livello intemazionale, in tutte le
possibili sedi. Così dopo la rivoluzione del 14 luglio che
rovesciava la monarchia, Moustafa Barzani rientrava trionfalmente a
Bagdad dove si incontrava pubblicamente con Kassem. Intanto il poeta
curdo Golan. da molti anni in carcere veniva liberato assieme ad
altri protagonisti della repubblica di Mahabad, sopravvissuti alla
lunga detenzione. La costituzione provvisoria riconosceva l’etnia
curda come associata con gli arabi nella nazione irakena, aboliva le
vecchie norme che proclamavano l’arabo lingua ufficiale dello
stato, apriva ai curdi possibilità larghe di avanzamento e di
carriera negli impieghi e nell’esercito, mentre si istituiva una
cattedra di lingua e storia curda nell’Università. Il disco d’oro,
emblema del Saladino trovava posto sulla bandiera irakena, mentre
nello stemma dello Stato, a simboleggiare questa raggiunta unità, si
incrociavano il pugnale curdo e la spada araba.
Con il nuovo regime
avevano vita legale anche i partiti e tra questi il Partito
Democratico del Kurdistan Irakeno (PDK1). Ne era segretario generale
lo stesso Moustafa Barzani, naturalmente. (Egli mantiene ancora
questa carica, nonostante alcuni fenomeni di crisi che si sono
verificati recentemente). Il partito si richiamava alla dottrina
scientifica del marxismo leninismo, respingeva in modo esplicito la
tentazione nazionalistica precisando le rivendicazioni nazionali
«sulla base dell’autonomia interna nel quadro dell’unità
irakena», era assai dettagliato infine per quanto si riferiva alle
misure di carattere economico da adottare per far uscire il Kurdistan
dalle sue più che secolari condizioni di arretratezza (richiedeva ad
esempio che una parte delle risorse del sottosuolo venisse dedicata
alla industrializzazione della zona). La questione curda si definiva
quindi non come uno strumento eversivo della unità irakena, ma come
un elemento di tensione per il raggiungimento di obiettivi più
avanzali sul piano sociale e politico. Questi obiettivi, che erano
del resto comuni al movimento democratico irakeno in quel periodo,
non vennero raggiunti, e mentre aumentava il disagio delle
popolazioni per le crescenti difficoltà economiche, cresceva anche
il disagio di coloro che avevano creduto negli impegni di Kassem.
Dalle polemiche di stampa si passò rapidamente alle misure di
polizia, alle prime repressioni, finché nell’ottobre del 1961 il
PDK1 venne di nuovo messo fuori legge e i suoi beni confiscati.
Moustafa Barzani aveva
già lasciato la favolosa villa alla periferia di Bagdad che il
regime aveva messo a sua disposizione (era la villa del vecchio Nouri
Saìd, consigliere di Re Faysal che la popolazione aveva linciato
all’alba del 14 luglio), ed era tornato tra le sue montagne. Da
allora, reparti regolari dell’esercito irakeno sono impegnati
nell’opera di repressione, ma senza risultato. I Pesh-merga
subiscono dure perdite, e ne infliggono, controllano vaste zone
dell’interno e della montagna organizzando la vita civile ed
economica di quelle popolazioni, resistono agli attacchi frontali ed
ai bombardamenti. Ma sette anni di guerra sono duri: villaggi e paesi
interi sono distrutti dai bombardamenti e svuotati dalla carestia,
migliaia di feriti sono privi di cure e di medicine. Sulle montagne
del Kurdistan d’inverno la temperatura scende ai 20 gradi
sottozero.
L’ultima grande
offensiva contro i guerriglieri curdi è stata lanciata senza
successo lo scorso anno; e a Ruwanduz. i Pesh-merga e le armate
regolari hanno avuto migliaia di morti. « Ogni famiglia irakena —
notava allora il corrispondente di Le Monde — ha ormai un parente o
un amico morto o ferito nella guerra contro i curdi ». Il governo
centrale sembra aver fatto, da allora, alcuni passi con creti avanti
per giungere ad una regolamentazione pacifica del conflitto
attraverso una presa di contatto con Barzani per definire le
condizioni non solo del cessate il fuoco — praticamente in atto da
allora — ma anche di un rientro del movimento curdo nella legalità.
Lo stesso Moustafa Barzani dichiarava: « Non è possibile nessuna
soluzione militare, Nè per noi nè per Bagdad. Bisogna convincersene
».
Probabilmente il governo
Bazzaz n’è convinto, anche se non è un mistero che gruppi
consistenti di militari si oppongono ad una soluzione politica del
conflitto che necessariamente significa garanzie e concessioni al
movimento curdo. Il tentativo di colpo di Stato della fine del giugno
1966, tentativo fallito per la pronta reazione governativa, ne è una
riprova.
Anche per trattare, non
solo per combattere, ci vuole coraggio.
Tra le molte
contraddizioni e problemi che lo travagliano il movimento democratico
arabo ha di fronte anche questo, non il più piccolo nè il più
trascurabile.
"l'Unità" , 18 ottobre 1967
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