3.7.19

Giardini. Storia e letteratura dal Medioevo al Novecento (Benedetta Craveri)

Giardino all'inglese

Nella città ideale di Tommaso Moro, dove la proprietà privata è bandita, ogni casa deve possedere un giardino. Assunto così dalla Utopia come elemento essenziale di un modello universale ed astratto, il giardino pare a sua volta obbedire, nella concreta varietà dei suoi modelli storici, a una forte esigenza utopica. Esso può essere lo specchio in cui una intera civiltà si compiace di rimirarsi, ma anche il luogo di estraneamento e di fuga in cui ogni individuo è libero di dettare le proprie leggi.
L'utopia è solo una delle tante chiavi possibili con cui affrontare La Letteratura e i Giardini, il tema del bel volume edito da Olschki (pagg. 436, s.i.p.) che raccoglie gli atti del convegno internazionale di studi tenutosi a Verona nell'ottobre del 1985. Così, nell'introduzione, Enea Balmas ci guida attraverso le metamorfosi di questo luogo privilegiato che partecipa simultaneamente al mondo dei sensi e dello spirito e che, ricco di mille valenze, non si risolve nel fenomenico, ma prolunga il suo significato in direzioni infinite. Ecco, nella relazione di Anna Maria Finoli, il giardino seminato di fiori di giglio della poesia di Charles d'Orléans, che ci introduce nell'hortus conclusus medievale. Qui, un breve spazio protetto da alte mura, con al centro una fontana, simbolo della vita, accoglie una pergola, delle piante esotiche, degli alberi da frutta, qualche grazioso animale, e fiori in gran profusione. È il locus amoenus della tradizione classico-letteraria, lo stesso in cui prenderà l'avvio il Decamerone, ma anche il rifugio dove ci si ripara dal tumulto della vita, dove si celebra il mito del paradiso perduto.
Con il Rinascimento la concezione del giardino cambia radicalmente. Esso cessa di essere una metafora della creazione divina e si trasforma nel banco di prova delle capacità demiurgiche dell'uomo, del suo trionfo sugli elementi. È in questa ottica che Montaigne, in viaggio in Italia nel 1580, ammira, a Pratolino, il giardino creato da Bernardo Buontalenti per Francesco I de' Medici. Il celebre parco, scrive Rosa Maria Frigo, si impone come opus contra naturam, fatto di pietra, di grotte artificiali, di fontane alimentate da sorgenti remotissime, di automi, di figure antropomorfe. Dando forma geometrica ai pochi alberi tollerati, il giardiniere rinascimentale si è trasformato in architetto.
Tuttavia la letteratura non si limita a celebrare i giardini reali, o a disegnarne di fantastici, in sintonia con l'estetica dell' epoca: talvolta, con netto anticipo sul suo tempo, essa crea le premesse per una rivoluzione del gusto. In Inghilterra, per esempio, osserva Esther Menascé, in pieno trionfo del formale, geometrico giardino Tudor, una dinastia di poeti protestanti, da Edmund Spenser a John Milton, difendono la causa della natura contro quella dell'artificio. E, fin dal 1625, Bacone teorizza quella natural wilderness, quella natura spontanea, che trionferà un secolo dopo con il così detto giardino all' inglese.
Paul Vernière illustra il nesso che può intercorrere tra arte dei giardini e propaganda politica. Mentre, sotto la spinta dell'imperialismo di Luigi XIV, tutta l'Europa imita il giardino alla francese creato a Versailles da Le Notre, l'Inghilterra, emersa dalla incruenta rivoluzione del 1688 con la nuova dinastia protestante di Guglielmo d'Orange, rifiuta il modello imposto dal Re Sole e gli contrappone il landscape garden, l' arte di creare il paesaggio. Esaltato dalla rivalità politica, il contrasto che si dichiara tra i due paesi in fatto di giardini ha, in realtà, origini complesse. Il giardino alla francese rispecchia la geometrizzazione cartesiana dell'universo, quello all' inglese la tradizione empirista e il pensiero sensualista, che tendono entrambi a privilegiare il rispetto della natura contro l'artificio dell'uomo.
I molti saggi raccolti nel volume ci invitano tuttavia a diffidare dalle schematizzazioni e dalle formule. Il parco di Versailles non è riconducibile solo al trionfo della ragione e della geometria, ma simbolizza una concezione politico-religiosa incentrata sul mito del Sole. A sua volta, il creatore del landscape garden, William Kent, spinge il culto della naturalezza fino all'estremo artificio di piantare alberi morti per rendere più veri i suoi giardini. E, sebbene antitetici, i due modelli, francese e inglese, finiscono col coabitare, spesso affiancati, per tutto il XVIII secolo. Il giardino è, nel Settecento, il luogo di acclimatazione da cui prende l'avvio l'esplorazione romantica della natura. Saranno le serre ad accogliere, un secolo dopo, i viaggiatori stanchi e delusi dalla grande avventura. E i jardins d'hiver di Huysmans, di Zola, di Maeterlinck, di Gourmont, come osserva Valeria Ramacciotti, diventeranno uno dei simboli più chiari del mal du siècle decadente. La natura ha fatto il suo tempo, proclama il protagonista di A Rebours, Des Esseintes, che, demiurgo perverso, accumula nella sua serra tutto ciò che il mondo della natura ha di malato, di mostruoso, di deforme. Ma questa trasgressione estrema dell' ordine naturale non è forse soltanto l' incubo con cui finisce l' antico sogno utopico dell'uomo del Rinascimento?

“la Repubblica”, 18 novembre 1987

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