Giardino all'inglese |
Nella città ideale
di Tommaso Moro, dove la proprietà privata è bandita, ogni casa deve
possedere un giardino. Assunto così dalla Utopia come
elemento essenziale di un modello universale ed astratto, il giardino
pare a sua volta obbedire, nella concreta varietà dei suoi modelli
storici, a una forte esigenza utopica. Esso può essere lo specchio
in cui una intera civiltà si compiace di rimirarsi, ma anche il
luogo di estraneamento e di fuga in cui ogni individuo è libero di
dettare le proprie leggi.
L'utopia è solo una
delle tante chiavi possibili con cui affrontare La Letteratura e i
Giardini, il tema del bel volume edito da Olschki (pagg. 436,
s.i.p.) che raccoglie gli atti del convegno internazionale di studi
tenutosi a Verona nell'ottobre del 1985. Così, nell'introduzione,
Enea Balmas ci guida attraverso le metamorfosi di questo luogo
privilegiato che partecipa simultaneamente al mondo dei sensi e dello
spirito e che, ricco di mille valenze, non si risolve nel fenomenico,
ma prolunga il suo significato in direzioni infinite. Ecco, nella
relazione di Anna Maria Finoli, il giardino seminato di fiori di
giglio della poesia di Charles d'Orléans, che ci introduce
nell'hortus conclusus medievale. Qui, un breve spazio protetto
da alte mura, con al centro una fontana, simbolo della vita, accoglie
una pergola, delle piante esotiche, degli alberi da frutta, qualche
grazioso animale, e fiori in gran profusione. È il locus amoenus
della tradizione classico-letteraria, lo stesso in cui prenderà
l'avvio il Decamerone, ma anche il rifugio dove ci si ripara dal
tumulto della vita, dove si celebra il mito del paradiso perduto.
Con il Rinascimento la
concezione del giardino cambia radicalmente. Esso cessa di essere una
metafora della creazione divina e si trasforma nel banco di prova
delle capacità demiurgiche dell'uomo, del suo trionfo sugli
elementi. È in questa ottica che Montaigne, in viaggio in Italia nel
1580, ammira, a Pratolino, il giardino creato da Bernardo Buontalenti
per Francesco I de' Medici. Il celebre parco, scrive Rosa Maria
Frigo, si impone come opus contra naturam, fatto di pietra, di grotte
artificiali, di fontane alimentate da sorgenti remotissime, di
automi, di figure antropomorfe. Dando forma geometrica ai pochi
alberi tollerati, il giardiniere rinascimentale si è trasformato in
architetto.
Tuttavia la letteratura
non si limita a celebrare i giardini reali, o a disegnarne di
fantastici, in sintonia con l'estetica dell' epoca: talvolta, con
netto anticipo sul suo tempo, essa crea le premesse per una
rivoluzione del gusto. In Inghilterra, per esempio, osserva Esther
Menascé, in pieno trionfo del formale, geometrico giardino Tudor,
una dinastia di poeti protestanti, da Edmund Spenser a John Milton,
difendono la causa della natura contro quella dell'artificio. E, fin
dal 1625, Bacone teorizza quella natural wilderness, quella
natura spontanea, che trionferà un secolo dopo con il così detto
giardino all' inglese.
Paul Vernière illustra
il nesso che può intercorrere tra arte dei giardini e propaganda
politica. Mentre, sotto la spinta dell'imperialismo di Luigi XIV,
tutta l'Europa imita il giardino alla francese creato a Versailles da
Le Notre, l'Inghilterra, emersa dalla incruenta rivoluzione del 1688
con la nuova dinastia protestante di Guglielmo d'Orange, rifiuta il
modello imposto dal Re Sole e gli contrappone il landscape garden, l'
arte di creare il paesaggio. Esaltato dalla rivalità politica, il
contrasto che si dichiara tra i due paesi in fatto di giardini ha, in
realtà, origini complesse. Il giardino alla francese rispecchia la
geometrizzazione cartesiana dell'universo, quello all' inglese la
tradizione empirista e il pensiero sensualista, che tendono entrambi
a privilegiare il rispetto della natura contro l'artificio dell'uomo.
I molti saggi raccolti
nel volume ci invitano tuttavia a diffidare dalle schematizzazioni e
dalle formule. Il parco di Versailles non è riconducibile solo al
trionfo della ragione e della geometria, ma simbolizza una concezione
politico-religiosa incentrata sul mito del Sole. A sua volta, il
creatore del landscape garden, William Kent, spinge il culto della
naturalezza fino all'estremo artificio di piantare alberi morti per
rendere più veri i suoi giardini. E, sebbene antitetici, i due
modelli, francese e inglese, finiscono col coabitare, spesso
affiancati, per tutto il XVIII secolo. Il giardino è, nel
Settecento, il luogo di acclimatazione da cui prende l'avvio
l'esplorazione romantica della natura. Saranno le serre ad
accogliere, un secolo dopo, i viaggiatori stanchi e delusi dalla
grande avventura. E i jardins d'hiver di Huysmans, di Zola, di
Maeterlinck, di Gourmont, come osserva Valeria Ramacciotti,
diventeranno uno dei simboli più chiari del mal du siècle
decadente. La natura ha fatto il suo tempo, proclama il protagonista
di A Rebours, Des Esseintes, che, demiurgo perverso, accumula
nella sua serra tutto ciò che il mondo della natura ha di malato, di
mostruoso, di deforme. Ma questa trasgressione estrema dell' ordine
naturale non è forse soltanto l' incubo con cui finisce l' antico
sogno utopico dell'uomo del Rinascimento?
“la Repubblica”, 18
novembre 1987
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