Osserva Roberto Battaglia
che la cultura italiana, che non può avere il ritmo rapido della
cronaca, maturava una risposta al fascismo dell’8 settembre,
risposta «altrettanto chiarificatrice e decisiva per il futuro,
quanto quella fornita dalla classe operaia nell’urto diretto ed
esplicito degli scioperi invernali». «... Nel momento in cui era in
gioco la vita del paese, sembrò a molti, forse alla maggior parte
degli uomini di cultura, di avere perduta la propria funzione, di non
avere più nulla da dire finché non fosse tornata la pace... ». È
naturale che, in questo stato di cose, gli intellettuali e gli
artisti non avrebbero potuto precorrere la rivoluzione armata del
proletariato. «Ma non c’è da sorprendersi per ciò, della quasi
totale mancanza, ad esempio, d’una vera e propria Poesia della
Resistenza... Solo nel futuro, e ancor più nel dopoguerra, potrà
maturarsi una diversa e più larga posizione » (Storia della
Resistenza Italiana, pag. 174 e segg., Einaudi, II ed.).
Anche limitate al solo
campo del cinema, le osservazioni del Battaglia si rivelano esatte.
Il cinema evidentemente non avrebbe potuto dare un contributo alla
Resistenza, nel tempo in cui questa era nel suo pieno sviluppo,
poiché il controllo sulla produzione e le serie deficenze
organizzative costituivano limiti insormontabili per un cinema
rivoluzionario. L’opera del cinema avrebbe potuto sopraggiungere
dopo la fine delle ostilità, e così infatti è accaduto. Ora è
però da vedere se quest’opera è stata sufficiente e idonea a
restituire alle grandi lotte popolari quanto ha potuto da esse
attingere, di forza e di verità.
Non solo la Resistenza ha
preceduto e superato il rinnovamento della cultura, ma ancora oggi
essa non è stata interamente raggiunta dagli intellettuali
democratici e non è stata tradotta in opere consapevolmente e
sufficientemente destinate a renderla alla storia e all’arte
nazionale, in tutta la sua grandezza.
Riguardo al cinema, si
riconosce ad alcuni artisti il merito di avere, per primi e con
migliori risultati, raccolto i benefici delle lotte popolari di
liberazione. Anzi in questo senso il cinema ha sopravanzato le altre
arti che, con ritardo e con minor vigore, hanno appreso la lezione
degli ultimi avvenimenti. Le opere cinematografiche del primo
dopoguerra hanno raggiunto un livello artistico eccezionale ed hanno
assicurato un prezioso patrimonio alla cultura italiana, offrendo
alla stessa letteratura ì temi e il modo per operare un radicale
rinnovamento.
I primi motivi che
mossero alcuni tra i maggiori film furono l’occupazione nazista e
la guerra partigiana.
Roberto Rossellini, con
Roma, città aperta (1945) si rivelò come il primo uomo di
cinema che, il giorno dopo la liberazione, era già in grado di
esprimere una ribellione — pure confusa e immatura — sorta come
diretta conseguenza dei recenti fatti rivoluzionari.
Rossellini non si era
trovato, a differenza di molti altri, influenzato e limitato dalla
cultura tradizionale; egli poteva quindi, con libertà e
spregiudicatezza, scavalcare tutti i confini della retorica ed
esprimersi con sincerità e immediatezza. Posto dinanzi ad una
realtà, che aveva generato in lui un moto spontaneo di reazione,
Rossellini ha saputo dare un quadro della vita di allora, che ancora
oggi — dopo quasi dieci anni — conserva freschezza e
drammaticità. E anche in alcuni episodi di Paisà (1946),
quando già non s'intravedono ricerche di stile e tendenze
spirituali, è possibile oggi riconoscere ambienti, situazioni,
atmosfera, drammaticità, che segnarono la vita italiana di quel
momento.
Le indicazioni di
Rossellini non hanno avuto il seguito che meritavano; lo stesso
Rossellini, distaccatosi dalla realtà, che aveva protetto il suo
estro da tentazioni di stile e da presunzioni concettuali, ha
trascurato l’approfondimento dei suoi film maggiori.
Gli esempi di film
realizzati sotto la spinta della rivolta popolare, oltre a quelli di
Rossellini, sono pochi. Nel 1946 l’ANPI affidava ad Aldo Vergano la
direzione di Il sole sorge ancora. Questo film, pur essendo a
volte schematico (specialmente in alcune situazioni di carattere
personale) e pur non proseguendo su una condotta unitaria di stile e
di intenti, riesce tuttavia a rappresentare una realtà artistica e
soprattutto storica — la guerra partigiana — in modo vivo e
sentito.
Anche Blasetti aveva
avvertito il bisogno dì accostarsi agli insegnamenti della recente
storia e, con Un giorno nella vita (1946), affrontava il tema
della lotta di liberazione, nel tentativo di lanciare un atto di
accusa contro la barbarie nazista, che aveva travolto perfino le
suore di clausura nella più grande tragedia di ogni tempo. Ma le
esigenze di Blasetti non erano sufficientemente chiare e il suo
accostamento alla realtà si era mostrato incerto, così che il film
sciupava un’occasione per rappresentare con convinzione un momento
drammaticissimo della nostra storia.
Qualche altro film
costituisce solo un tentativo di presentare un quadro di certe
situazioni, con molta approssimazione e con non pochi equivoci.
Il cinema italiano del
dopoguerra si è mosso dunque, con notevole slancio, verso gli
episodi dell’occupazione nazista e della lotta partigiana, ma in un
momento in cui i suoi orientamenti erano ancora confusi e la sua
capacità di giudizio storico era scarsa è immatura. Le sue prove
migliori costituivano, al più, un generoso tentativo di partecipare
del rinnovamento che aveva operato la lotta sostenuta dal popolo ed
un bisogno di commemorarne, le grandezza. Questo cinema si fermava
quindi ad una cronaca o, qualche volta, ad una documentazione degli
avvenimenti che lo hanno promosso e rinnovato, senza riuscire a
prendere coscienza dei fatti accaduti e di raccontarli criticamente.
In sostanza, i primi film
del dopoguerra non tanto sono una valida rievocazione della
Resistenza, quanto invece una conseguenza della Resistenza.
Dopo qualche anno, il
cinema neorealista si è spinto verso l’indagine sui più
importanti problemi del Paese e, qualche volta, ci ha dato opere
notevoli per impegno e per qualità, nelle quali «l’uomo del
dopoguerra» viene rappresentato, come « tipo » della società
contemporanea. Una nuova poesia si è maturata con la ricerca de da
realtà, che ha raggiunto livelli eccezionali con film come Ladri
di biciclette e La terra trema. In questo momento, il
nostro cinema comincia a perdere le sue caratteristiche di
immediatezza e acriticità e acquista una più chiara coscienza della
vita e dell’umanità. L’attuale involuzione politica ha impedito
lo sviluppo di questa seconda fase del realismo, tuttavia, qualche
buon risultato si è avuto. E di questo secondo momento la esigenza
di riprendere i temi degli ultimi avvenimenti e di rappresentarli con
quel tanto di distacco, che permetta la formulazione di giudizi e di
rievocazioni storiche.
Da questa esigenza non è
scaturito che un tentativo, Achtung! Banditi!, di Lizzani
(1951). A questo regista è stato più volte rimproverato l’eccessivo
distacco con cui ha trattato il tema (i tedeschi, per esempio, sono
più umani nel film che non nella realtà, come ha scritto Abele Saba
su « Cinema », numero 80).
E il distacco,
effettivamente, c’è; si manifesta come pregio — quando permette
a Lizzani di passare dal tono della cronaca a quello più largo della
storia — e anche come difetto — quando una certa freddezza nella
narrazione schematizza i fatti e i personaggi.
Tuttavia la strada scelta
da Lizzani è quella giusta, perché tenta di raccontare, in termini
più obiettivi, gli episodi più significativi della nostra storia
recente e gli avvenimenti dell’ultima guerra.
Ma Achtung! Banditi!
non può da solo assolvere i compiti che spettano al cinema riguardo
alla Resistenza. Questo grande capitolo della nostra storia,
nonostante sia stato oggetto di validi studi, è stato rapidamente
allontanato, quale problema da approfondire, dalla classe dirigente
italiana, e non avrebbe ancora un suo documento critico, vasto e
chiaro, se Battaglia non avesse scritto la sua Storia della
Resistenza Italiana.
Da parte sua il cinema,
dopo i primi tentativi non certo notevoli per meriti storicistici, ha
dato un solo esempio di «film storico sulla lotta popolare di
liberazione». Gli uomini di cinema, che prima hanno cercato di
scoprire l’umanità e i suoi problemi, si sono fermati dinanzi ai
limiti posti dalle classi dominanti ed hanno ripiegato su posizioni
di comodo e assolutamente opposte ai motivi del neorealismo. La via
della storia e rimasta quasi intentata e lasciata alle equivoche e
sfacciate produzioni dei millantatori di patriottismo (La
pattuglia dell’Amba Alagi, Mizar ecc.).
E oggi, le manifestazioni
per il decimo anniversario della Resistenza non vedono l’apporto di
un cinema nazionale e democratico, seriamente orientato verso la
storia più vicina e più bella del nostro popolo.
È chiaro che non si
chiede di tornare indietro; oggi sarebbe fuori posto un cinema che
ripetesse le esperienze dell’immediato dopoguerra e che
ripercorresse la strada — allora valida — di Paisà o di
Il sole sorge ancora. Il cinema italiano è ormai abbastanza
maturo, per operare «con obiettività e distacco» sui fatti
dell’ultima guerra; purché si interpreti questo «distacco» come
possibilità di giudicare storicamente un avvenimento, oltre che
raccontarlo, e non come un comodo alibi morale, per giustificare
eventuali remore, imparzialità politiche e freddi accademismi, che
sarebbero troppo precoci e ipocriti, in confronto all’attualità
dei significali della Resistenza.
Sarà presto iniziata la
lavorazione di un film tratto da L’Agnese va a morire, di
Renata Viganò. E’ significativo che lo stesso regista e la stessa
Cooperativa che hanno realizzato Achtung! Banditi! e Cronache
di poveri amanti (che per molti motivi va considerato tra i film
sulla Resistenza) si siano impegnati in un secondo film, che tratta
della guerra partigiana. Quest’opera, nonostante la sua derivazione
letteraria (la quale potrebbe privarlo del merito che aveva il
precedente film, cioè un’esigenza propria del cinema di ritornare
sul tema della lotta di liberazione, con «chiari intenti
storicistici»), può essere idoneo ad indirizzare nuovamente il
cinema neorealista verso la sua stessa origine morale ed artistica.
E precisiamo che non deve
trattarsi di un ritorno di maniera, oggi insufficiente ed
artificioso, ma di una rivalutazione critica di quello che è stato
il momento più felice e più rivoluzionario del cinema italiano.
Mondo Operaio, n. 7, 1954
Postilla
A riprova della
difficoltà, nell'Italia del centrismo clericale, di produrre film
sulla Resistenza giova dire che il film di cui si anticipa
l'imminente realizzazione, L'Agnese va a morire
con la regia di Lizzani, non si girò. Un film con quel titolo,
tratto dal romanzo di Renata Viganò per la regia di Giuliano
Montaldo, andò nelle sale, in tutt'altra temperie politica, nel
1976. Il principale sceneggiatore fu l'autore di questo articolo,
Nicola Badalucco. (S.L.L.)
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