Dommegge di Cadore 1963 |
Era di questi giorni, ai
primi di luglio, che si partiva. Alla stazione, la sera, l’afa su
Milano toglieva il fiato. Ma già dopo la notte in treno, all’alba,
l’aria limpida del Cadore aveva tutto un altro profumo. Erba,
resina, fieno, registrava attento il mio naso di bambina. Un altro
mondo ci si spalancava davanti: due lunghi mesi nelle Dolomiti. Di
quel privilegio della mia infanzia oggi mi meraviglia soprattutto una
cosa: la natura del tempo, in quelle estati. Era un tempo del tutto
differente: lento ma non noioso, e denso invece, e anzi colmo. Le
giornate iniziavano, di buon mattino, come con un passo leggero da
bambine; poi con l’alzarsi del sole maturavano nella pienezza di
luglio. Culminavano nel solleone a picco sulle montagne, dove, mi
immaginavo io dalla valle, si andavano sciogliendo gli ultimi nevai,
in uno sgocciolio lieve. Poi, il primo pomeriggio era l’ora
silenziosa delle persiane socchiuse, delle stanze in penombra, del
riposo. Alle quattro, col sole ancora alto, il tempo si faceva un
fiume largo, maestoso, che si avviava regalmente alla sua foce. E al
tramonto, nel rosa luminescente delle vette, ancora il sole non si
arrendeva, e si voltava indietro, mentre affondava nella linea
dell’orizzonte. Come se il giorno proprio non volesse morire.
Avvenire, 15 luglio 2014
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