Per millenni
relegate al gradino più basso nella catena degli esseri, anche le
piante diventano soggetti etici ma la questione ambientale non si può
ridurre a un semplice antropocentrismo al rovescio
Il mondo delle piante
vive una clamorosa rinascita: tutti ne parlano, tutti le vogliono,
tutti si ergono a loro difensori. Parlando in loro nome, a qualsiasi
livello del dibattito pubblico: da quello filosofico a quello
politico, da quello della sensibilità diffusa al mondo, manco a
dirlo, dei social media. Di modo che oggi diventa possibile, come
mostra il bel libro di Pellegrino e Di Paola Etica e politica
delle piante (Editore:
DeriveApprodi)
Per millenni le piante –
selvatiche, coltivate, ornamentali, edibili, immaginarie o reali che
fossero – sono state relegate nel gradino più basso della catena
degli esseri. Per quanto il pianeta esista grazie a loro (costituendo
l'80% della biomassa della Terra, assorbono carbonio e forniscono
ossigeno), l'ideologia zoocentrica dominante – da Aristotele alla
biologia contemporanea – le ha considerate, tutt'al più, un puro
palcoscenico della vita animale, esseri viventi ma passivi, immobili
e incapaci di progettualità, privi di sensibilità e affetti, meno
che mai di cognizione e raziocinio. Nella migliore delle ipotesi, le
piante hanno funzionato da serbatoio simbolico per le varie culture,
restando comunque una sorta di alterità costitutiva della specie
umana. Essere ridotti al rango delle piante, puri vegetali, è per
gli uomini il massimo dell'abominio o dell'insulto, perché, appunto,
comporta un uscir fuori dalla propria natura.
Ora però, ragionano
Pellegrino e Di Paola, non solo nella storia del pensiero e della
religione sono ben esistite ideologie non zoocentriche (da Teofrasto
all'induismo e al giainismo), ma si è sviluppata ai nostri giorni
una visione filosofica che attribuisce ai vegetali tutt'altre
caratteristiche intrinseche. Falsa l'idea di un'immobilità delle
piante (basta avere le lenti giuste per coglierne gli spostamenti).
Per non parlare del fatto che, a conti fatti, esse sono dotate di
sensibilità, manifestando sentimenti di piacere e di dolore, e
partecipando da protagoniste alla costruzione e al mantenimento
dell'habitat non solo naturale ma anche sociale.
In un'epoca qual è la
nostra, dove ogni separazione fra natura e cultura, ambiente e uomo,
appare, piaccia o non piaccia, del tutto superata, la specie umana ha
perduto la sua supposta centralità nell'universo. È l'epifania del
cosiddetto Antropocene (al quale gli stessi due autori hanno dedicato
un importante volume lo scorso anno), che ha portato a riconsiderare,
prima, il ruolo degli animali (si pensi all'antispecismo,
l'animalismo, al veganesimo etc.) e, adesso, quello dei vegetali. E
se, come da qualche tempo si discute, occorre attribuire agli animali
loro precisi diritti, non in funzione dell'uomo ma in quanto tali,
analogo ragionamento deve essere condotto per quel che riguarda il
cosiddetto regno vegetale.
Per farlo, occorre
innanzitutto ridimensionare i nostri, di diritti: in nome di che cosa
uccidiamo le bestie? che diritto, appunto, abbiamo di sottoporle a
quelle immani torture che si svolgono negli allevamenti o, peggio nei
mattatoi? Allo stesso modo, ragionano Pellegrino e Di Paola, perché
recidere sistematicamente le radici un albero imponente per farne un
bonsai? In nome di quali valori potare il bosso nei giardini per
ottenere forme stravaganti che dovrebbero colpire l'immaginazione? E
anche: perché coltivare le lattughe, gli ortaggi e i cereali per
mangiarli?
Da qui l'etica e la
politica delle piante, aree di pensiero assai necessarie oggigiorno,
se pure tutt'altro che evidenti e pacifiche. Se da un lato infatti
sembra ragionevole dotare i vegetali di loro valori e loro diritti,
dall'altro va detto che le categorie di valore e di diritto sono
istanze propriamente umane che noi, in modo del tutto estrinseco,
applichiamo a esseri che non è detto vogliano accettarle. La natura
è il luogo delle peggiori nefandezze e delle più atroci violenze:
ci si uccide e ci si mangia a vicenda. Tutti prede e tutti predatori,
vegetali compresi. Insinuare in essa una qualche morale è quindi una
forma di addomesticamento, ossia ancora una volta di assoggettamento
all'uomo. Inoltre, come se non bastasse: se decidiamo di non mangiare
più le piante, così come s'è fatto per gli animali, che cosa
mettiamo nello stomaco? Dotare di valore gli altri esseri viventi
significherà, paradossalmente, ridurre quello della specie umana?
Antropocentrismo alla rovescia?
Le questioni, si vede,
sono tutt'altro che banali. E il libro in questione le discute con
intelligenza, conservandone tutta la problematicità. Quel che è
certo è che la questione ecologica e ambientale non può essere
affrontata in termini, per così dire, kantiani, dove l'uomo è il
fine d'ogni azione morale e tutto il resto il mezzo. Il pianeta è
una casa comune: allontanare da essa chi non ci piace – uomo,
animale o pianta – è soltanto arroganza da stolidi.
Tuttolibri La Stampa 20
luglio 2019
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