La dico breve.
All'interrogativa finale non si può che rispondere no. E ciò perché
è sbagliata l'identificazione tra aumento del benessere e crescita
economica ed è fuorviante credere e far credere che la crescita
economica si identifichi con le opportunità di valorizzazione del
capitale, con la crescita delle attività “profittabili”.
Articoli così, pertanto, utili nella parte di denuncia, non servono
a niente se non si mette in discussione a fondo il vero paradigma in
vigore, quello per cui il capitale deve trovare occasioni di
incremento anche quando si tratta di rimediare ai danni che produce.
(S.L.L.)
Parlare di cambiamento
climatico è complesso. Non solo perché il tema coinvolge una
pluralità di problematiche interconnesse, e difficili da districare,
ma soprattutto perché ha una dimensione marcatamente sociale ed
economica: tutto ciò che ruota intorno al tema del cambiamento
climatico - e quindi dell’impatto dell’uomo sull’ambiente -
coinvolge direttamente i modi produzione, le modalità di consumo e
lo stile di vita delle persone. Un insieme, cioè, di processi,
micro-comportamenti e azioni - dalla fabbricazione dei prodotti, al
loro smaltimento; dalla dieta alimentare ai mezzi di trasporto - che,
a livello aggregato, non sono affatto neutri in termini di impatto
ambientale.
Nonostante il recente
Nobel attribuito a Nordhaus abbia posto con più forza l’attenzione
(non solo) degli economisti sulle questioni ambientali - dopo che per
decenni il tema è stato considerato come marcatamente marginale e, a
tratti, naïf - colpisce come in realtà le manifestazioni e scioperi
per il clima degli ultimi mesi siano in realtà gli ultimi di una
lunga serie, e che l’inerzia sembri essere uno degli attributi
principali del tema cambiamenti climatici. Lo dimostra ad esempio il
report del Club of Rome, un think thank dell’MIT che cercò
di stimare l’impatto dell’aumento della produzione, della
popolazione e dell’inquinamento ambientale in termini di crescita
economica di lungo periodo. Il lavoro, intitolato The Limits to
Growth (I limiti delo sviluppo), metteva per la prima
volta in evidenza l’impatto estremamente negativo delle emissioni e
del cambiamento climatico sulla crescita economica di lungo periodo.
Ebbene, il lavoro venne pubblicato nel 1972: e nonostante sia stato
più volte aggiornato, se si riflette oggi sul “quando” sia stato
concepito si riconosce subito l’attualità “inattuale” del tema
“cambiamenti climatici”.
L’impatto dell’uomo
sull’ambiente ha comunque radici più lontane nel tempo: è sulla
scia della prima rivoluzione industriale e in particolare dalla
seconda, infatti, che si è avuta una crescita esponenziale delle
emissioni di CO2 e conseguentemente un graduale aumento delle
temperature. Se si osservano i tre grafici di seguito - dal primo al
terzo - colpisce come, nel periodo 1870-2016, la crescita del reddito
pro capite, quella delle emissioni e la crescita delle temperature
seguano la stessa tendenza.
Emissioni cumulative di
CO₂, 1870-2014
Da questi grafici emerge
chiaramente la dimensione sociale ed economica dei cambiamenti
climatici: l’aumento delle emissioni è l’altra faccia della
medaglia dell’aumento del benessere. Infatti, le società
(occidentali in primis) hanno visto crescere considerevolmente, nel
periodo che va dal 1800 oggi - coincidente con quello di aumento
esponenziale delle emissioni - il proprio reddito pro capite, con un
incremento nell’aspettativa di vita e una incredibile espansione
delle possibilità e dei livelli di consumo. È quindi forse da
imputare alla stretta connessione tra la crescita economica (e quindi
la crescita del benessere) e l’aumento dell’impatto ambientale la
difficoltà latente nel ripensare certi modelli di produzione e
consumo, e cioè a sradicare la convinzione che non si possa agire
sul secondo aspetto - le emissioni - senza intaccare negativamente il
primo - la crescita economica. E non deve ingannare la tesi secondo
cui le economie in via di sviluppo siano le principali responsabili
dell’inquinamento: se infatti il ruolo di queste - Cina in
particolare - viene visto in una prospettiva diacronica (dal 1870 al
2014) rispetto a quello dei paesi occidentali, confrontando i livelli
di emissioni cumulate emerge chiaramente come ad esempio gli Stati
Uniti abbiano una responsabilità molto maggiore in termini di
emissioni (si veda il terzo grafico), e senza considerare i livelli
pro-capite. Per non toccare, poi, la questione per cui le emissioni
della Cina - diventata “manifattura del mondo” - non sono solo
connesse al miglioramento delle condizioni di vita dei cinesi, ma
anche allo stile di vita dei paesi occidentali, che importano i suoi
prodotti.
Questo per dire che,
oggi, dato per certo il ruolo della società umana sul cambiamento
climatico, e al netto delle possibili dispute sulle responsabilità e
su chi debba essere “first mover” rispetto a una incisiva
riconversione economico-produttiva, la vera sfida sembri essere il
vedere tale riconversione, e più generalmente una transizione verso
modelli sostenibili, come un’occasione di sviluppo, e non più come
una inevitabile “decrescita”. Essere in grado, cioè, di
intendere il problema come un’opportunità. Un primo passo in
questo senso è rappresentato dalle possibilità offerte dalla
circular economy. Se generalmente il sistema
economico-produttivo è infatti basato su un modello lineare
cosiddetto take-make-dispose, che comporta - dal lato produzione e
consumo - un ciclo di vita dei beni di consumo a senso unico (dalla
fabbrica alla discarica), alla base della economia circolare sta
l’idea del recupero e del riutilizzo degli scarti che si producono
durante il ciclo produttivo e alla fine del ciclo di vita dei
prodotti. In altre parole, se il modello classico comporta un
utilizzo inefficiente delle risorse, poiché produce scarti che
corrispondono a uno spreco economico e a delle esternalità negative
per la società nel suo complesso, il modello circolare opera nel
senso opposto. Questo ha degli effetti rilevanti in termini di
riduzione dell’impatto ambientale, poiché tutto ciò che riguarda
una riduzione degli scarti e un riutilizzo di materiali implica
minori emissioni connesse al loro smaltimento e alla nuova
produzione. Un recente lavoro stima come un utilizzo consistente del
modello circolare potrebbe ridurre di oltre il 50% le emissioni di
CO2 dei paesi europei entro il 2050. Così facilitando il
raggiungimento del target dei 2° C aumento delle temperature
impostato dalla COP21, che prevede di ridurre le emissioni dagli
attuali 32 miliardi a 24 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2030.
Sebbene sia comprovato
come l’utilizzo degli schemi della circular economy possano
generare notevoli opportunità economiche, nonché benefici in
termini di benessere sociale, meno immediato è il favorire la
transizione verso questi tipi di modelli, considerando i costi -
iniziali - che possono riversarsi sulle imprese (e sui consumatori) e
le problematiche per i settori industriali che da questi nuovi
modelli verrebbero sostituiti. E da qui la difficoltà di accettare e
implementare generalmente un nuovo paradigma di crescita economica.
Ad esempio, è stata recentemente approvata la Direttiva Europea che
mette al bando la plastica monouso a partire dal 2021: nonostante le
ovvie implicazioni in termini di tutela ambientale (il WWF stima che
ogni minuto si disperdano nel mar Mediterraneo 33mila bottiglie di
plastica monouso), le implicazioni economiche sono tutt’altro che
positive. L’Italia è leader in Europa per la produzione di
plastica monouso, e si stima che nel settore lavorino circa 3000
persone: le quali, entro il 2021, senza un piano di riconversione, si
ritroverebbero disoccupate. Mutatis mutandis, se c’è qualcosa che
il movimento dei gilets jaunes insegna, è come dichiararsi
contro il cambiamento climatico possa essere facile, ma che le
conseguenze di certe misure tese al suo contrasto (in questo caso
l’aumento dei prezzi dei carburanti) non siano affatto di semplice
gestione, soprattuto se a essere colpite sono fasce sociali già
deboli. Qui si apre ancora una volta la dimensione strettamente
sociale del tema, e la difficoltà per i decisori politici di
implementare soluzioni efficaci e accettabili. Un ruolo fondamentale
in questo frangente è giocato - e potrebbe esserlo sempre di più -
dall’Europa. Se già misure importanti sono state adottate - ad
esempio con l’adozione, nel 2015, del pacchetto europeo sulla
economia circolare - uno schema efficace al contrasto dei cambiamenti
climatici potrebbe essere ancor più coordinato a livello centrale
per evitare schemi di dumping ambientale - il trasferimento di
imprese in paesi con meno costi connessi a regolamentazioni
ambientale - e sociale, garantendo al tempo stesso supporto per le
fasi di riconversione e transizione. Sarà quindi il risultato delle
recenti elezioni in grado di assicurare un Green New Deal per
l’Europa, un piano per assicurare che le esigenze sociali vadano di
pari passo con nuove opportunità di crescita sostenibile, senza
colpire le fasce di popolazione più fragili?
Treccani – Portale
dell'Istituto della Enciclopedia Italiana – pubblicato il 26 giugno
2019
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