Tennessee Williams |
Viaggio a Echo Spring. Storie di scrittori e di alcolismo di
Olivia Laing è un libro ispirato, vitale, e per quanto mi riguarda
formidabilmente disturbato. Come sempre più spesso in certa buona
letteratura anglosassone, si tratta di un’opera che se ne infischia
di votarsi a un genere prestabilito, e che per questo va presa per
ciò che è: saggio letterario, trattato antropologico, compendio di
prose narrative, manuale di divulgazione medica, ma anche
ricognizione autobiografica, diario intimo, resoconto di viaggio.
Affronta a brutto muso e come meglio non potrebbe l’etilismo di una
manciata di grandi scrittori del Novecento americano. Già, i nomi
sono loro, i primi che ci vengono in mente: Fitzgerald, Hemingway,
Tennessee Williams, Cheever, Berryman, Carver (con qualche cameo di
Capote, Lowell, Schwartz, Dylan Thomas e Faulkner).
Come a suo tempo ha notato Lewis Hyde (opportunamente citato da
Laing): «Su sei americani che hanno vinto il premio Nobel per la
letteratura, quattro erano alcolisti. E circa la metà dei nostri
scrittori alcolisti ha finito per suicidarsi». Il che non significa
postulare una relazione tra genio letterario ed ebbrezza etilica
naturalmente, ma dare la giusta enfasi a un dato statistico a dir
poco significativo.
«Per quanto riguarda l’origine di questo mio interesse –
confessa Laing – ammetto di essere cresciuta io stessa in una
famiglia di alcolisti. Tra gli otto e gli undici anni ho vissuto in
una casa che era sotto il dominio dell’alcol e gli effetti di quel
periodo mi hanno segnata».
Così, nel 2011, intraprende un vertiginoso on the road attraverso
gli Stati Uniti, all’inseguimento degli spettri di questi geniali
ubriaconi. Da New York, passando per Charlotte e New Orleans, giù
giù fino a Key West; da lì di nuovo su, verso il nord-ovest più
selvaggio, dall’altra parte della costa, con una breve sortita a
Chicago, fino a Port Angeles. Il risultato è questo libro
appassionato e dolente, sobriamente erudito, ricco di rimandi,
insieme personale, sconcertante, autorevole.
«Gli scrittori, anche quelli più disinvolti e inseriti in società,
devono in qualche modo essere degli outsider, se non altro perché il
loro mestiere è quello di osservatori e testimoni». Così Laing
parla di Cheever: delle sue pose altolocate in contrasto con i natali
umili (di cui si vergognava) e con una natura desolatamente
eccentrica. Ma mi pare che qualcosa di analogo si possa dire della
stessa Laing, la quale degli outsider ha la libertà morale e la
franchezza.
Dopotutto non esiste un modo giusto di parlare degli autori che ami e
della loro degradazione civile. Ogni volta che lo fai, preghi Iddio
di trovare una forma un po’ meno convenzionale del solito.
Cos’altro dire del crollo nervoso di Fitzgerald, dell’infantile
virilismo di Hemingway, delle compulsioni omo-erotiche di Cheever,
della vanagloria di Berryman, delle attitudini delinquenziali di
Carver? Ma il punto è proprio questo: forse non serve dire qualcosa
di nuovo. È sufficiente rinnovare il punto di vista o, se mi passate
l’espressione, rifare il guardaroba alle proprie impressioni. Ed è
esattamente ciò che fa Laing nel suo libro. Si lascia andare alla
poesia dei luoghi, trovando un punto di equilibrio tra accuratezza
bibliografica e trasporto emotivo, tra nitore scientifico ed
effusione lirica. Il tutto evitando come la peste le grandi metafore
letterarie. Del resto, quando è proprio costretta a generalizzare,
dà prova di pertinenza e puntualità. Che so, a un certo punto si
sofferma su una coincidenza che a me pare davvero ironica, notando
come le opere artistiche degli alcolisti siano zeppe di riferimenti
acquatici: le piscine di Fitzgerald e di Cheever, i gelidi ruscelli
di Carver, il mare che ispira Hemingway e che attrae Hart Crane fino
a ucciderlo.
In un certo senso le storie e le personalità di questi beoni di
successo si somigliano; in un altro ciascuna di esse rivela, com’è
giusto che sia, un carattere proprio e inimitabile. Sono biografie
trucemente drammatiche, spaventosamente solitarie e errabonde, ma non
per forza dagli epiloghi tragici. Sia Cheever che Carver, a dispetto
dei loro colleghi, trovarono la forza di ripulirsi. Come ammise
Carver stesso in una famosa intervista: «Sarò sempre alcolista, ma
ora non sono più un alcolista praticante».
A proposito di punti di vista, occorre dire che quello di Olivia
Laing sull’alcolismo è pieno di senso pratico, insieme comprensivo
e severissimo. Si vede che sa di cosa parla, che ci è cresciuta
dentro. Sa cosa significa avere a che fare con un uomo o una donna
adulti che se la fanno nei pantaloni o che si lasciano andare alle
più inutili allucinazioni. Ciò le permette di tenersi alla larga
sia dalla retorica bohémienne che dal moralismo puritano; non tratta
la cosa come una faccenda di dannazione o redenzione. Ha frequentato
troppi etilisti per dare credito al loro mondo paranoico, omertoso e
spudoratamente negazionista. «Quando ripenso alla mia infanzia,
spesso vedo delle scimmie di ottone che mia nonna teneva nel
caminetto, che si tappano gli occhi, le orecchie e la bocca con le
mani. Non sentire il male, non vedere il male, non parlare del male:
la santissima trinità della famiglia alcolizzata».
Parlando di Blanche DuBois, l’infelice eroina di Un tram
chiamato desiderio, Laing scrive: «C’è in Blanche qualcosa
che ricorda una falena, un che di farinoso e ostile alla luce. Le
piacciono le illusioni, le belle ombre, e le piace bere per la stessa
identica ragione: per proteggersi dalla luce impietosa, dall’orrore
della realtà, perché lei è troppo delicata per sopportarla».
Che ritratto esemplare! Così si scrive di letteratura. Del resto,
viene da chiedersi se ciò che viene detto di Blanche non si attagli
anche al suo creatore: il disgraziato, depravato, tenerissimo
Tennessee Williams; e mica solo a lui ma anche a tutti i suoi
colleghi di bevute. E mi chiedo anche se a toccarmi così
profondamente di questo libro non sia stata proprio la sintonia
emotiva che lega questi spiriti tormentati e alla deriva.
Più leggevo, più mi sembrava di capire l’«acuto senso di
vergogna» che aveva reso intollerabili le vite di Fitzgerald, di
Cheever e di tutti gli altri; capivo il senso di inadeguatezza
emotiva e sociale che può condurti allo sballo e alla disperazione;
i complessi di inferiorità, gli sbalzi d’umore, l’infermità,
l’afasia, i pensieri suicidi, l’incapacità nel godere dei
trionfi, il vittimismo, l’auto-indulgenza; capivo la misantropia,
il nomadismo, i deliri nichilisti o religiosi. Ma soprattutto capivo
perché la prosa degli alcolisti può essere allo stesso tempo
torbida come uno stagno e nitida come un cristallo. E subito mi è
venuto in mente Malcolm Lowry e il suo enigmatico capolavoro
romanzesco.
Chi di noi non vive nel sospetto terribile che a un certo punto la
vita abbia imboccato una strada sbagliata e senza ritorno? Ha ragione
Laing allora: dev’esserci una trama nascosta che unisce l’esigenza
di bere a quella di scrivere, entrambe «legate al sentimento che
qualcosa di prezioso è andato in pezzi e al desiderio di ricomporlo
– di dargli tonicità e forma, per dirla con Cheever – e di
negare che sia così».
La Lettura – Corriere della Sera, 30 giugno 2019
Nessun commento:
Posta un commento