Rosellina Archinto e Leopoldo Pirelli a Portofino nel 1972 (foto Briganti) |
ASSISI
«Con l'estate arriva
sempre un gran magone, il rimpianto di una stagione in cui sono stata
molto felice. E ora bastano un suono o un colore, una musica inattesa
o un'improvvisa visione, per evocare le atmosfere di quel tempo, il
ricordo di un legame che è stato parte fondamentale della mia vita e
ora mi manca enormemente».
A Portofino Rosellina
Archinto non è più tornata. Non è più entrata nella grande casa
condivisa per diversi decenni con Leopoldo Pirelli, compagno discreto
e generoso. Fino all'ultimo insieme, davanti alla finestra affacciata
sul mare. «Ancora la sera prima di morire progettava un viaggio a
Marrakech», racconta Rosellina con un accento insolito, il consueto
piglio energico stemperato dall'emozione, lo sguardo azzurro perso
chissà dove. Temperamento vigoroso lei, classe 1935, editrice di
raffinati carteggi, zibaldoni e di libri per bambini che hanno
segnato un'epoca; figura dell'imprenditoria liberale lui, simbolo
d'una borghesia illuminata di cui è rimasta rara traccia. Quasi
quarant'anni insieme, mai raccontati per scelta di stile e di pudore.
Ma con l'estate arriva
sempre quel gran magone. E seduta nel grande prato del suo castello
medievale, vicino ad Assisi, l'Archinto apre il suo diario intimo, un
libro degli affetti e delle vacanze scritto con un personaggio
speciale, «difficile, chiuso, riservato, esigente con se stesso e
con gli altri, ma anche dolcissimo e capace di tenerezza, un
sentimento a cui forse non ero stata abituata da un padre molto
severo». Fin dal principio il mare svolse un ruolo importante. «Sì,
prima una casa arrampicata su una collina, dietro Paraggi. Poi la
grande villa sul promontorio di Portofino. Poldo amava molto il mare,
stava ore al timone della sua barca a vela, solitario e assorto nei
pensieri, la sigaretta tra le labbra. Aveva inventato un modo per
accenderla con il vento. Il mare rappresentava la libertà. La
libertà dal suo ruolo pubblico, dal peso di una tradizione
famigliare, dall'impegno che aveva deciso di assumersi con rigore ma
forse non con piena felicità».
Il padre gli preferiva il
fratello maggiore, Giovanni, che però scelse una strada diversa. E
toccò a Leopoldo assumere la guida dell'azienda. «Si sottomise al
volere di suo padre con grande serietà e un fortissimo sentimento
etico, ma nel suo intimo voleva fare altro. Dedicava molto del suo
tempo libero a organizzare gli spazi, definendoli con cura in ogni
dettaglio, sia che si trattasse del guscio della barca a vela o di un
rudere di campagna. Gli piaceva vedere nascere le cose, forse sarebbe
stato un bravo architetto. Per tradizione famigliare intraprese un
altro percorso, lo fece fino alla fine con spirito illuminato». Non
sempre fu compreso. «Nel Sessantotto andavano di moda slogan come
"Agnelli e Pirelli, ladri gemelli". Lui non s'arrabbiava ma
era amareggiato. Lo mostrava alla sua maniera, sempre controllato,
mai una parola sopra le righe. Fu lui in quegli anni a proporre la
settimana lavorativa di cinque giorni e altre riforme molto avanzate.
Il sindacato reagì male e Leopoldo si convinse d'aver sbagliato per
eccesso di disponibilità. Di recente alla Pirelli è comparso uno
striscione: "Leopoldo, per favore, torna tra noi"».
A quell'epoca vi
conoscevate già? «Sì, ci eravamo incontrati a Milano e lui mi
faceva un po' di corte. Io ero una signora sposata con cinque figli,
non mi mancava il senso di responsabilità. Leopoldo, che aveva dieci
anni di più, mi dimostrò molto amore. Decise di separarsi per
vivere con me. Io lasciai passare un paio d'anni, poi decisi anche io
di separarmi. Nel 1972 rendemmo pubblico il nostro legame, ma non
abbiamo mai vissuto insieme. I figli sono rimasti la mia priorità e
Leopoldo fu comprensivo. Così i week-end e l'estate divennero il
tempo solo per noi. Il nostro era un legame fortissimo, nella
reciproca autonomia».
La diversità cementò il
rapporto? «Sì, fu importante. Per Leopoldo rappresentavo la
scoperta di un altro mondo. Un'altra possibilità di vita, oltre la
casa e l'azienda. La prima volta che lo vidi mi apparve come
afflosciato in un sacchetto di vestiti, schiacciato dal peso di una
storia più ampia. Credo di averlo travolto con la mia vitalità, il
mio ottimismo: del bicchiere io vedevo sempre il mezzo pieno, lui il
mezzo vuoto. E poi lo divertivano le serate con gli amici scrittori e
musicisti, da Arbasino a Pollini ed Abbado». Un incontro che la
colpì? «All' epoca del 68 una sera venne a cena da me, a Milano,
Herbert Marcuse. Personaggi più distanti non potevano essere. Da una
parte il guru del movimento studentesco, il denunciatore della
società industriale repressiva; dall'altra un principe del
capitalismo. Fu una cena piacevolissima. Pirelli e Marcuse parlarono
fitto fitto tutta la sera. In realtà Leopoldo era un solitario però
non asociale. Era curioso, attento a quel che si muoveva nel mondo,
sensibile alle discussioni intellettuali». Che cosa le ha insegnato?
«Il rigore, la serietà. La pazienza del giudizio ponderato. Io ero
precipitosa e schematica, sparavo sentenze senza troppa cura. Lui m'
invitavaa riflettere, a liberarmi da pregiudizi e partigianerie. In
trentacinque anni non l' ho mai sentito alzare la voce. Anche nei
momenti più difficili».
Un momento difficile fu
quando morì il fratello Giovanni. «Un terribile incidente stradale,
nel 1973: Giovanni perse la vita, Leopoldo il suo bellissimo volto,
che rimase deturpato. Io ero già al suo fianco e ricordo l'angoscia
di quel periodo. Non voleva mostrarsi neppure agli amici più intimi.
E poi Giovanni era per lui un riferimento saldo, il più importante.
Partigiano, intellettuale, mente brillantissima: era il fratello
maggiore a supportarlo nelle scelte più delicate. Dopo un periodo di
lontananza, negli ultimi tempi si erano molto riavvicinati. La
famiglia non aveva gradito le scelte eterodosse di Giovanni. Per
Poldo fu una tragedia». Anche in quel caso il mare rappresentò un
rifugio. «La nostra prima casa fu quella di Paraggi, accessibile
solo dopo una camminata di mezz'ora. Leopoldo era sereno perché
finalmente riusciva a liberarsi della scorta. La sua era una vita
sotto sorveglianza, le Brigate Rosse non lo perdevano di vista. Ma
arrivato a Paraggi si sentiva fuori pericolo, forse non senza
incoscienza». Quali erano i vostri rituali? «Il nuoto, prima di
tutto. Leopoldo era un animale acquatico, nuotava per ore e ore, sia
in mare che in piscina. Poi la passione per la vela. All'inizio
capitava che a condurlo fossi io, sulla deriva, una barchetta poco
oltre i quattro metri. Di famiglia ligure, ero praticamente cresciuta
in barca a vela e mi divertivo a fare lo slalom tra le imbarcazioni
nel golfo. "Sei pazza, cosa fai?", Poldo mi guardava
atterrito. La deriva fu presto accantonata, e mi adattai felicemente
anche io alle sue barche di lusso». E le letture? «Tante, ma
diversissime. Lui si portava le carte del lavoro, prendeva appunti
con una scrittura nitida e molto curata, senza fronzoli com'era lui.
Se non leggeva saggi di politica ed economia, si buttava su Ken
Follett. Una volta tentai di fargli leggere un critico letterario di
gran fama, forse un tantinello pomposo. Dopo le prime pagine Poldo si
accasciò, "questo non puoi chiedermelo"». In vacanza
parlavate di lavoro? «No. Ci sostenevamo reciprocamente, ma non mi
sono mai mischiata nelle sue cose. E lui aveva gran rispetto del mio
lavoro di editore, anche se forse avrebbe voluto maggiore
disponibilità da parte mia. Ricordo che incontrava in gran segreto
Michelin, l'erede della famiglia francese dei pneumatici, ma nessuno
doveva saperlo. Non fu facile la stagione del suo commiato dalla
Pirelli. Avevamo già traslocato nella villa a Portofino e lo vidi
soffrire moltissimo, ma sempre secondo il suo stile. Rinunciò a
tutte le cariche con grande dignità, mai una parola polemica verso
qualcuno. Così come si tenne dentro tutta l'amarezza per le scelte
successive dell'azienda. Neppure con me si lasciò andare».
Al mare insieme, fino
alla fine. «Avrebbe voluto avere una bella vecchiaia, con me al
fianco. Io avevo più tempo da dedicargli, i figli ormai cresciuti.
Quando mi capita di incrociare per la strada coppie di persone della
nostra età, sono invasa dalla malinconia...
“la Repubblica”, 30
agosto 2011
Nessun commento:
Posta un commento