Qui posto due articoli:
il primo del 2017 da "Pagina 99",
che dà conto di una ricerca americana sui rapporti sessuali di
“sierodiscordanti” (un partner sieropositivo e l'altro no) che
riguardava i rapporti sessuali in vagina e rimandava ad una ricerca
in corso per i rapporti con rischio maggiore (anali). Il secondo del
maggio di questo 2019 è tratto dalla rivista on line della LILA
(Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids). Il linguaggio è tecnico,
ma se l'ho capito io lo possono capire molti altri non specialisti.
So
bene che la novità susciterà la reazione di certi moralisti in casa
d'altri per i quali la sicurezza dei rapporti agevolerà la
prostituzione e il peccato omosessuale. Peggio per tutti quelli che
odiano la libertà e la gioia degli altri. (S.L.L.)
Chi è in cura non
trasmette il virus (Antonio Michienzi)
Se vi dicessero che dopo
58 mila rapporti sessuali non protetti intercorsi tra persone
sieropositive e partner non affetti da Hiv non si è verificato
nessuna trasmissione del virus, ci credereste?
Eppure è così. I dati
sono quelli di un ampio studio denominato Partner che ha monitorato
oltre mille coppie sierodiscordanti (così vengono definite le coppie
in cui solo uno dei partner ha contratto l’infezione). I risultati
sono stati pubblicati lo scorso anno sul Journal of the American
Medical Association e non ritraggono un’eccezione, ma la
quotidianità in cui vivono migliaia di coppie in cui uno dei due
membri ha l’Hiv. «È un’informazione di cui forse non si ha
sufficiente consapevolezza», dice Adriana Ammassari, infettivologa
all’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro
Spallanzani di Roma e tra gli autori della ricerca. «Lo studio
Partner e altri prima di questo ci confermano che quando l’infezione
è ben controllata per lunghi periodi di tempo le probabilità di
trasmissione sono vicine allo zero».
Ben controllata significa
che la quantità di virus presente nel sangue è così bassa da non
poter essere rilevata dagli strumenti di analisi di cui oggi
disponiamo. Una condizione per niente rara, vi-sto che in Italia
riguarda circa il 90 per cento delle persone sieropositive.
Per questa ragione,
spiega l’infettivologa, «se fino a qualche anno la terapia
dell’Hiv era pensata a scopo di beneficio individuale, dal 2014
sono cambiate le linee guida e si riconoscono al trattamento anche
benefici collettivi».
Si tratta di una scoperta
epocale che ha avuto un forte impatto sulla vita delle persone
sieropositive. «L’immagine del soggetto sieropositivo nella
società è sempre stata quella di colui che può trasmettere
l’infezione. L’idea di non essere in una condizione di rischio è
stato un potente elemento di destigmatizzazione con enormi
conseguenze personali e sociali», dice il direttore del Dipartimento
clinico dello Spallanzani Andrea Antinori.
Ora si attendono i
risultati dello studio Partner2 per avere la conferma definitiva che
la trasmissione in coppie sierodiscordanti non si verifica neanche
con comportamenti a elevato rischio (come i rapporti anali).
Anche se ciò non deve
indurre ad abbassare la guardia, sembra però ormai chiaro che
l’utilizzo combinato di strategie diverse potrebbe in un prossimo
futuro dare un colpo mortale all’epidemia di Hiv, anche senza avere
a disposizione il tanto agognato vaccino che da anni si attende
invano. (Pagina 99, 21 aprile 2014)
U=U, le conclusione
di PARTNER 2: otto anni di studi, oltre 100mila rapporti sessuali
senza condom, zero contagi. ( Laura Supino)
Il 2
maggio sono state pubblicate su “The Lancet” le conclusioni dello
studio PARTNER 2, già anticipate lo scorso luglio, in occasione
della Conferenza Internazionale sull’ AIDS di Amsterdam. Lo studio
fornisce evidenze scientifiche definitive sul principio U=U,
Undetectable= Untrasmittable, ossia le persone con HIV in trattamento
ART (antiretrovirale), con carica virale non rilevabile (inferiore
alle 200 copie per ml), non trasmettono sessualmente il virus. Se la
prima fase dello studio aveva escluso con certezza rischi di
trasmissione nei rapporti sessuali vaginali, la fase 2 ora li esclude
definitivamente anche per i rapporti anali.
Condotta
in 75 centri di 14 paesi europei, la prima fase dello studio PARTNER
si è svolta tra il settembre 2010 e maggio 2014 su 888 coppie
sierodifferenti in cui il/la partner con HIV era in ART (terapia
Antiretrovirale) e in stato di soppressione virologica e
l’altro/altra partner era sieronegativo/a e non assumeva PrEP
(profilassi Pre-Esposizione). Questa prima fase includeva sia coppie
eterosessuali (548) che omosessuali (340). I risultati erano stati
sorprendenti: su 58mila rapporti sessuali segnalati, senza l’uso
del preservativo, di cui 36mila tra coppie eterosessuali e 22mila tra
coppie gay, non si era verificato nessun contagio. I rigidi (e
scientifici) requisiti di follow-up previsti, consentirono, nella
prima fase, di raggiungere la certezza scientifica della non
trasmissibilità del virus solo per le coppie eterosessuali.
Per
questo PARTNER 2, partito nel 2010 e proseguito fino al 30 aprile
2018, ha poi reclutato e seguito soltanto coppie gay, portando quasi
a mille il numero di coppie omosessuali protagoniste dello studio.
Anche in questo caso il risultato è incontrovertibile: su 77mila
rapporti sessuali non protetti, cioè senza preservativo, non si è
verificato nessuno caso di trasmissione dell’HIV. Si colma così
quel gap di evidenze scientifiche che separava, quanto a supporti
scientifici sulla non trasmissibilità dell’HIV, le coppie gay
dalle coppie eterosessuali. Le conclusioni dello studio danno dunque
ancora più forza al messaggio, U=U, in grado di cambiare
profondamente la qualità della vita delle persone con HIV e di
assestare un duro colpo allo stigma e ai pregiudizi che ancora pesano
su chi è affetto dal virus: le persone con HIV in terapia
Antiretrovirale possono raggiungere un livello di virus nel sangue
talmente basso da bloccarne la trasmissione per via sessuale,
qualsiasi essa sia. Le conclusioni dello studio PARTNER sono
rivoluzionare non solo per le persone con HIV ma per tutta la
collettività in quanto una terapia ART di successo è in grado di
interrompere la catena dell’infezione con evidenti vantaggi per la
prevenzione generale.
Per
incrementarne l’efficacia in termini di salute pubblica è tuttavia
necessario incoraggiare, non solo la prevenzione primaria ma anche il
ricorso al test per l’HIV, tuttora gravato da troppe barriere:
richieste di documenti, prescrizioni dei medici di base, mancanza di
anonimato. Le statistiche ci dicono che oggi gran parte delle nuove
infezioni sono dovute alla mancata consapevolezza del proprio stato
sierologico e, secondo UNAIDS e OMS, almeno una persona con HIV su
quattro non sa di aver contratto il virus. Il nostro paese non fa
eccezione, lo dimostra anche il fatto che, in Italia, oltre la metà
delle nuove diagnosi giunga molti anni dopo il contagio (diagnosi
tardive), quando lo stato di salute delle persone è già molto
compromesso o addirittura in fase di AIDS conclamata. Questo fenomeno
ha pesanti conseguenze sulla salute dei singoli e sulla collettività
perché aumenta il periodo in cui si rischia di trasmettere
inconsapevolmente il virus ad altre persone. Un tempestivo accesso
alle terapie consente, invece, a chi ha l’HIV di raggiungere un
livello di salute e qualità della vita simile a quello della
popolazione generale ma anche di raggiungere una condizione clinica
di non-trasmissibilità. Una maggiore informazione, che consenta una
corretta percezione del rischio, aiuterebbe le persone a prevenire la
trasmissione o a rendersi conto di aver corso dei rischi e, dunque,
ad effettuare il test. Sapere di potere raggiungere una condizione di
non infettività può incoraggiare le persone a conoscere il proprio
stato, la lotta a stigma e pregiudizi è fondamentale per vincere
questa cruciale battaglia di salute pubblica.
Tornando
allo studio PARTNER 2 nei due anni di follow-up richiesti si sono
verificati quindici casi di infezione da HIV ma gli esami
filogenetici previsti dai protocolli hanno escluso con certezza che
la trasmissione sia avvenuta all’interno delle coppie arruolate.
Tali
infezioni sono pertanto da attribuire a rapporti non protetti
avvenuti all’esterno della corte. Gli anni di follow-up accumulati
per ciascuna coppia sono 2072 di cui 556 durante Partner 1. L’età
media dei partecipanti è stata di trentotto anni per i/le
partecipanti HIV negativi/e e di quaranta per quelli positivi, tre le
persone transessuali che hanno partecipato. La media di rapporti
sessuali per coppia senza condom è stata di quarantatrè volte
l’anno. Il 97% dei/delle partecipanti aveva una carica virale (RNA)
soppressa con meno di 50 copie/ ml e il 99% una carica virale
soppressa inferiore ai 200 ml. Tra le coppie osservate ma non
arruolate si sono verificati tre casi di trasmissione nei primi sei
mesi di ART a causa della soppressione virale incompleta nel sangue e
nei compartimenti genitali. Lo studio suggerisce dunque l’importanza
di utilizzare il preservativo o la PrEP fino a quando la soppressione
virale nel sangue non sia stata raggiunta in modo stabile e completo.
È
risaputo che le persone HIV+ che si trovano in terapia ART, con
soppressione della carica virale nel sangue, possono avere una RNA
rilevabile nello sperma e altri fluidi del tratto genitale. Nello
studio questo fenomeno è stato riscontrato anche nel 6% dei campioni
raccolti tra uomini con più di sei mesi di ART. Tuttavia, il
rilevamento di piccole quantità di carica virale nello sperma non
sembra essere correlabile a rischi di trasmissione qualora la carica
virale nel sangue risulti comunque soppressa. Questo potrebbe
suggerire che il virus residuo nel liquido seminale possa non essere
integro o adatto alla replicazione o presente in livelli sufficienti
per causare la trasmissione. Nel corso degli studi non si è
verificata nessuna trasmissione da persone con una carica virale
rilevabile nel tratto genitale ma soppressa nel plasma. L’efficacia
della ART come prevenzione dipende dunque dal mantenimento di una
completa soppressione virologica nel sangue, fattore che mostra
l’importanza di un monitoraggio regolare della RNA e di supportare
un’aderenza ottimale e a lungo termine alle terapie. Nello studio
PARTNER sono state osservate le pratiche in vigore in Europa con test
a sei mesi o anche annuale, nel caso di buona aderenza e carica
virale stabile. Altri studi hanno già dimostrato come, con una RNA
soppressa e una buona aderenza al regime terapeutico, il rischio di
un rimbalzo viremico sia molto basso.
Lo
studio pubblicato su “The Lancet “non manca di far notare come la
conoscenza dello straordinario impatto che la soppressione della
carica virale può avere sulla prevenzione stia passando molto
lentamente dalla comunità scientifica all’opinione pubblica e
risulti sconosciuta anche a molte persone con HIV. La pubblicazione
riferisce come nel 2016, quando erano già usciti tutti i principali
studi sulla non trasmissibilità, compreso il primo PARTNER, il 90%
dei 1800 partecipanti allo studio ACTG A% sui farmaci fossero
convinti di essere infettivi nonostante il 91% di loro avesse una
carica virale al di sotto delle 50 copie ml. Per questo, sostengono
gli autori, è importante il sostegno che l’esito di questo studio
può dare alla campagna lanciata nel 2016 da Prevention Access
Campaign con il messaggio U=U, oggi approvato da 780 organizzazioni
(pubbliche, private, ONG) di novantasei paesi, incluse le principali
istituzioni scientifiche e mediche internazionali.
La
diffusione di questo messaggio –concludono gli studiosi- è
necessaria per promuovere i benefici di un più ampio ricorso al
test, dell’accesso tempestivo alle terapie ART e del contrasto alle
leggi che stigmatizzano, criminalizzano e colpiscono le persone con
HIV. (LILA News dal mondo Aids, Sabato, 4 Maggio 2019)
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