Che sia stato il
consigliere del Male (Old Nick, il vecchio Nicolò, era il diavolo),
oppure l’eroico suscitatore di energie politiche nazionali o
sociali (da De Sanctis a Gramsci), Machiavelli ha scoperto il campo
della politica moderna come un magma ribollente di energie e di
sfide, di crisi e di catastrofi. Dopo la sua morte, nel 1527, che
coincide con il tracollo del sistema politico italiano, il conflitto
per l’egemonia europea tra Francia, Spagna e Impero diviene un
susseguirsi di guerre di religione da cui l’Europa inizierà a
uscire solo alla metà del XVII secolo. La via dell’ordine sarà
allora il razionalismo individualistico, la teoria del contratto, la
politica dei diritti e della rappresentanza, la sovranità dello
Stato nazionale. Sarà il liberalismo, la democrazia, il socialismo.
E il pensiero adeguato a questo sforzo di ordine sarà, oltre alla
filosofia costruttiva dell’illuminismo, quella progressiva e
rivoluzionaria del marxismo, e, più vicino a noi, la scienza
politica, capace di misurare e catalogare le istituzioni, i partiti,
i sindacati, la partecipazione; di decifrare il funzionamento dei
rapporti tra pubblico, sociale, privato; di studiare i nessi fra
economia, psicologia di massa, politica.
È questo ordine liberale
del mondo a essere oggi in crisi, con le sue certezze, le sue
ideologie, le sue previsioni. Tramontata la filosofia dialettica
della rivoluzione e del progresso, anche il pensiero liberale e
democratico ha sempre meno presa sugli sviluppi reali della
contemporaneità. La scienza politica, poi, è più a suo agio
davanti ai normali processi delle istituzioni democratiche che non
nella fase della loro crisi.
Sta qui il vero
significato dell’attenzione a Machiavelli, oggi. Con lui e
attraverso di lui si retrocede al momento magmatico in cui la
politica moderna si è presentata in tutta la sua potenza, prima che
prendessero forma le soluzioni ordinative che hanno costituito
l’ossatura della storia degli ultimi trecento anni, e che oggi
vacillano.
Nelle recenti
interpretazioni di Machiavelli – a titolo esemplificativo, quelle
di Ciliberto, Asor Rosa, Ginzberg, Marchesi –, è evidente
l’interesse a confrontarsi con un pensiero che si genera dalla
crisi, che non la inserisce in una rassicurante narrazione.
L’interesse, cioè, non a misurare lo Stato e il suo funzionamento
a regime, ma di fondare un ordine ex novo; non a maneggiare norme e
regole, ma di fronteggiare l’eccezione, di constatare come la
libertà umana, l’umana capacità di dare forma ordinata al mondo
(la “virtù”), sia insidiata e smentita dalla contingenza, dal
caos imprevedibile degli avvenimenti (la “fortuna”); come il
“riscontro” fra ragione e realtà – il successo dell’agire
umano – non sia garantito da alcun algoritmo, né da alcuna
provvidenza, da alcuna tattica (sia questa l’ “impeto” o al
contrario il “rispetto”).
Ciò che è al centro
degli studi machiavelliani, oggi, al di là del loro valore
storiografico, è il recupero dell’insegnamento più radicale di
Machiavelli: che la politica è l’espressione più alta e più
tragica dell’instabilità del reale, e che se ne devono
fronteggiare animosamente e accortamente gli aspetti inquietanti, le
dinamiche sfuggenti, con un pensiero non astratto, non precostituito,
non semplificatorio: non una teoria generale da applicare alla
realtà, ma un pensiero nervoso, acuto, in chiaroscuro, aperto al
confronto continuo con le pieghe e le insidie del reale. Davanti
all’evidenza che il reale non è né razionale né interamente
razionalizzabile, Machiavelli è il pensatore non della forma ma
della metamorfosi; non della netta separazione fra ordine e
disordine, fra “lupo” (l’uomo in natura) e “cittadino”
(l’uomo dentro lo Stato), ma della loro commistione. Per lui, ogni
circostanza politica reale si presenta spaccata in due, come un
dilemma che va minuziosamente analizzato per coglierne le
contrapposte potenzialità; per lui, ogni regola esiste solo nel
momento in cui è attraversata da eccezioni; e la ragione, la
valutazione delle forze in campo e dei loro rapporti, il calcolo
lungimirante delle conseguenze, coesiste con la consapevolezza che le
situazioni possono essere forzate da un’azione spiazzante, “pazza”,
nella disperata speranza di controllare, almeno per un po’, il
corso della fortuna.
Machiavelli pensa la
irrazionalità della politica, la sua drammatica contraddittorietà,
ma senza essere un irrazionalista; pensa il destino delle umane
costruzioni di “ruinare”, ma senza rassegnarsi alla sconfitta e
all’inerzia; pensa non per teorie, ma dall’interno delle
situazioni di crisi, per capirle e per risolverle. Non è un filosofo
politico, ma un politico filosofo, un uomo d’azione che riflette
sull’azione e che modifica la propria riflessione dentro le
contingenze in cui si imbatte.
Eppure non è un
opportunista: ha combattuto per un’idea repubblicana contro il
potere mediceo, e sempre ha avuto in mente la salvezza dello Stato,
di quello fiorentino e di quello italiano che non si è formato, come
sarebbe stato necessario, con la conseguente rovina del nostro Paese.
E non è neppure un decisionista nel senso di Carl Schmitt – che
infatti non lo ebbe tra i suoi autori preferiti –: il decisionismo
è il rovescio irrazionale del razionalismo della macchina statale
moderna, mentre in Machiavelli vibra sempre la concretezza umana
della politica.
Enigmatico come la
politica in cui è immerso, a questa ha dedicato la vita, nello
sforzo di pensarla fino in fondo e di darle un ordine: uno sforzo che
egli sapeva destinato a non avere successo e che tuttavia era l’unica
cosa per la quale valesse la pena vivere. Umanista – la sua
scrittura audace e immaginosa è uno dei più alti godimenti che
offra la lingua italiana – non fu un “letterato” che si rifugia
nelle frivolezze e nelle fiabe: fu umanista perché esperto delle
cose umane, quindi pessimista ed energico al contempo. Concreto,
intelligente, appassionato, scettico, potente e ironico, il suo
ingegno è analogo per certi versi a quello di Leonardo, impaziente e
minuzioso, geniale e artigianale al contempo.
Non è quindi necessario
che di Machiavelli si faccia un totem; che si ripeta, in forme nuove,
la sua storica lezione – che l’Italia ha bisogno di un capo e di
un popolo che si sostengano a vicenda per rifondare uno Stato
corrotto e snervato dalla religione cristiana –; non sta
nell’invocarlo a ogni crisi della nostra Italia il significato più
profondo del ritorno di Machiavelli. Quel significato sta piuttosto
nell’esigenza, che attraverso di lui si manifesta, di ripensare
radicalmente la politica, di prenderla sul serio, di non lasciarne il
senso al diritto, all’economia, alla morale. L’esigenza – che
anch’egli provò, ma che è da calibrare sulle crisi dei nostri
giorni, che non coincidono con quella che egli conobbe – di farsi
coinvolgere nella politica, come in un destino che si riaffaccia
perentorio ed elusivo, non più trattenuto da schemi e istituzioni
ormai scricchiolanti. Ritorna la politica, insomma, e quindi ritorna
Machiavelli, come possibile alternativa agli esiti di quella
modernità che egli ha grandiosamente aperto.
«Corriere della Sera –
La Lettura», 9 giugno 2019
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