NEW YORK
Lo ammazzarono sul
palcoscenico della Audubon Ballroom di Harlem, il quartiere della sua
abiezione e dei suoi trionfi. Lo crivellarono di revolverate il
pomeriggio del 21 febbraio 1965, vent'anni fa, tre musulmani neri,
appartenenti alla setta dalla quale si era separato, con dolorosa
polemica, appena un anno prima. Ancor oggi non è certo che i tre
condannati come colpevoli fossero tutti i veri killers e si sospetta
che il delitto sia stato ordito in qualche oscuro recesso del potere.
Era il secondo dei grandi assassinii politici degli anni turbolenti e
terribili scanditi dalle fucilate di Dallas. Poi sarebbe toccato al
secondo Kennedy e a Martin Luther King.
Dei quattro simboli,
tutti violentemente abbattuti, del cambiamento americano, Malcolm era
quello che aveva percorso l’itinerario più accidentato. In meno di
quarantanni di esistenza aveva vissuto ì più radicali cambiamenti
umani e politici.
A sei anni soli gli fu
inferto il primo e più atroce stereotipo che potesse capitare a un
reietto di pelle nera: una banda di razzisti bianchi rapì suo padre
e lo linciò, a Lansing, uno dei centri automobilistici del Michigan.
A dodici anni lasciò la scuola per farsi strada nei bassifondi delle
metropoli nel nordest, come racconta in quello straordinario
documento esistenziale che è la sua autobiografia, pubblicata dopo
la sua morte, come del resto aveva profetizzato: da sciuscià a
teppista, da rapinatore a manutengolo di bordelli, da ladro a
spacciatore di droghe. Sei anni e mezzo di carcere e l’insegnamento
di un fratello più giovane, Reginald, propiziarono il suo riscatto,
la conversione religiosa, la milizia nella nazione dell’Islam, cioè
nella setta dei musulmani neri.
La rottura col passato
adolescenziale fu netta, fino a proiettarsi nel cambiamento del nome.
Abbandonò il cognome «da schiavo», inflitto dai padroni a tutta la
gente di colore trascinata in catene nelle piantagioni del sud
americano. Non si chiamò più «Little» bensì El-Hajj Malik
El-Shabazz e successivamente Malcolm X, ché avrebbe acquistato un
potere magnetico tra le folle elettrizzate dalla sua oratoria
trascinante. Il furore del neofita, il potere di suggestione che era
capace di sprigionare come tribuno del popolo nero, un fascino
intellettuale stravolgente, il piglio aggressivo di un leader che
aveva vissuto le stesse esperienze del propri seguaci gli
assicurarono rapidamente una posizione di spicco tra 1 sacerdoti
della sua setta. Divenne presto il dirigente della moschea di Harlem,
fondò un’altra dozzina di templi, sparsi dalla California al
Connecticut, salì al vertice della gerarchia della nazione
dell'Islam, generando invidie e gelosie.
Dieci anni dopo l’avvio
di questa traiettoria, Elljah Muhammad, il capo della setta, lo
radiava prendendo spunto dalla dichiarazione iconoclasta che Malcolm
aveva fatto sull’assassinio di John Kennedy («I nodi vengono al
pettine»). Tre mesi dopo, nel marzo del 1964, il nero più ribelle
d’America lasciava la nazione dell’IsIam. Nei dieci mesi che gli
restavano da vivere, bruciò ,le esperienze più originali. Si
convertì all’ortodossia islamica, compì un viaggio alla Mecca, si
incontrò (ricevendone un trattamento da statista) con i leader del
Terzo mondo più autorevoli, denunciò Muhammad come razzista, subì
minacce di morte e un tentativo di assassinio a colpi di bombe,
maturò la più serrata delle trasformazioni personali, quella che
nell’autobiografia ha chiamato «una cronologìa di cambiamenti».
Il rottame umano dei
ghetti neri era diventato un leader politico. Il predicatore del
separatismo nero aveva allargato il suo orizzonte strategico. L’uomo
che aveva tacciato Martin Luther King da zio Tom della non violenza
intuì le implicazioni rivoluzionarie di questo sacerdote tolstoiano
del profondo sud. Il ribelle, lo spaccatutto, il predicatore della
vendetta razziale contro l’oppressione bianca, l’agitatore che
aveva proclamato «non ci può essere rivoluzione senza spargimento
di sangue», il fanatico predicatore della rivolta; si affinò,
divenne meno truculento, più sottile, cominciò ad avvertire la
complessità della lotta politico-sociale in un paese come gli Stati
Uniti, si avvicinò al troskysti newyorkesi, capì i limiti del
nazionalismo e del separatismo nero. Quattro giorni prima del suo
assassinio, in un discorso alla Columbia University, delineò una
posizione assai distante da quella che aveva segnato il suo debutto
sulla scena del radicalismo americano: «È scorretto — disse da
questa tribuna accademica prestigiosa — classificare la rivolta del
negro come un semplice conflitto razziale del nero contro il bianco.
Piuttosto, oggi stiamo puntando a una ribellione globale degli
oppressi contro gli oppressori». Era maturato dalla ribellione
psicologico-religiosa alla politica. E a questo punto fu stroncato.
La sua figura inquietante
grandeggiò oltre i confini della sua gente solo dopo la morte. Nel
pantheon del martiri americani il suo nome brilla in contrapposizione
con quello di Martin Luther King, in una salomonica divisione delle
parti recitate nella convulsa storia degli anni di fuoco dell’America
contemporanea. Malcolm, il fiore spuntato e reciso nei ghetti, Martin
la pianta cresciuta nel sud campagnuolo e schiavista. Il primo come
un rivoluzionario, il secondo da riformista. L’uno l’apostolo
dell’odio e della violenza, il simbolo della rabbia e della
frustrazione delle metropoli, l’altro il costruttore paziente di un
movimento che minò le fondamenta dell’ordine giuridico costituito.
Entrambi, comunque, accomunati dal destino di vittime designate.
Oggi Martin Luther King è
entrato nel tempio dei padri fondatori, la sua data di nascita è
stata consacrata festa nazionale. Malcolm, al contrario, resta un
personaggio controverso, un’ombra cupa dei ghetti in fiamme, un
brivido della cattiva coscienza americana. È difficile, forse
impossibile, santificarlo, mummificarlo anestetizzarne il potere
revulsivo, addolcirne la sgradevolezza.
L’America lo ha
ricordato male. Quella ufficiale lo ha ignorato. La sinistra, che
pure gli deve molto, in parte lo ha dimenticato, in parte si è
abbandonata alla nostalgia. A noi il ventesimo anniversario del suo
assassinio è sembrata l’occasione opportuna per discutere
sull’oggi del movimento nero e, più in generale della sinistra
americana. Lo abbiamo fatto con uno studioso, tra i più autorevoli,
della problematica dei neri americani: Eugene Genovese, professore di
storia all’Università di Rochester e autore tra i tanti volumi,
del fondamentale studio From rebellion to revolution (Dalla
ribellione alla rivoluzione - La rivolta degli schiavi afro americani
nella formazione del mondo moderno).
— Professor
Genovese, chi è stato Malcolm X per i neri d’America?
È molto difficile
rispondere. All’inizio, Malcolm, sembrò essere il portavoce di una
setta ristretta e piuttosto conservatrice, i musulmani neri. In
quanto tale, la sola cosa di lui che mi sembrò interessante fu il
suo talento individuale. Indubbiamente, egli fu una personalità
molto affascinante. A parte questo, non lo presi molto sul serio.
— Da quando cominciò
a interessarlo?
Da quando ruppe con la
Eplkjol dell’Islam, con i musulmani neri. Le dicevo che era un uomo
Interessante. Ma, francamente, non credevo che avesse una grande
influenza politica e non pensavo che potesse avere un grande avvenire
politico.
— E dopo la rottura?
Allora diventò
chiaramente il portavoce di quei neri radicali che pensavano a una
sorta di unità panafricana e terzomondista.
— Malcolm X fece una
serie di viaggi importanti in Africa e nel Terzo mondo.
Sì, diventò un leader
di rilievo intemazionale. Insisto: Malcolm aveva un enorme,
straordinario... non mi piace la parola carisma, preferisco dire
capacità di attrazione, anche come musulmano nero. Il suo punto di
vista non era largamente accettato dalla gente nera. Ma egli esercitò
ugualmente una grande influenza, semplicemente in forza della sua
personalità, della sua capacità di criticare a fondo il sistema
americano. Quando poi, rotti i rapporti con i musulmani neri,
cominciò a sviluppare una strategia politica assai più promettente,
diventò una forza molto patente negli Stati Uniti.
— Ma anche quando
giunse al culmine della propria maturazione politica, cioè nel suo
ultimo anno di vita, fu semplicemente un leader del radicalismo nero
o anche, più in generale, un leader della sinistra americana? C’era
in lui la potenzialità di unificare la sinistra americana? In altri
termini, che cosa fu Malcolm per la sinistra americana?
Nell’ultima fase della
sua esistenza Malcolm stava dimostrando le potenzialità di leader
non soltanto del movimento nero, ma della sinistra nel suo complesso.
Però fu ucciso prima che riuscisse a sviluppare queste potenzialità.
Per questo è difficile rispondere alla sua domanda. Oggi, a
sinistra, molta gente reclama l’eredità di Malcolm. Ma quella in
cui Malcolm visse la sua esperienza più intensa era una fase di
transizione. Le politiche di molti gruppi di sinistra, ad esempio i
trotskysti, erano in evoluzione. Anche per questo non è possibile
collocare Malcolm in un settore particolare della sinistra, né tanto
meno ipotizzare dove avrebbe potuto collocarsi.
— C’è qualcosa di
vivo nell’eredità di Malcolm? Fu solo un uomo del suo tempo,
oppure parla ancora oggi ai militanti della sinistra?
Penso che Malcolm
potrebbe dire qualcosa di vivo alla sinistra bianca americana, ma
essa è in una situazione di tale scompiglio che questa mia
dichiarazione non ha molto senso. Per la gente nera la questione è
diversa, ma non sono io la persona adatta a rispondere a questo
problema. Posso solo dirle una mia supposizione: nel futuro Malcolm
sarà ricordato e la sua vita sarà studiata come una esperienza
importante. In altre parole, Malcolm ha lasciato una eredità che
sarà riscoperta. Ma questa domanda bisognerebbe rivolgerla al neri.
Non sono io che posso rispondere. Non so, ad esempio, quanti giovani
neri nei campus universitari sanno chi sia stato Malcolm X.
— Ha ancora un senso
la contrapposizione tra il Malcolm X rivoluzionario e il Martin
Luther King riformista?
Mi sembra che nell’ultimo
anno di vita di Malcolm la distanza tra lui e King si stesse
restrigendo. Io credo che se fossero sopravvissuti, nel giro di
qualche anno entrambi questi due leader neri sarebbero stati capaci
di collaborare per costruire insieme un nuovo movimento nero. Se
questo fosse avvenuto, sarebbe stato molto pericoloso per il
capitalismo americano. Perché entrambi avevano una visione
internazionale. Malcolm si stava spostando verso le posizioni che
King aveva già raggiunto. Malcolm stava sensibilmente modificando il
suo separatismo, il suo integralismo nero. Anche se King fu un
integrazionista, cioè un oppositore del separatismo nero,
bisognerebbe sempre ricordare che egli costruì un grande movimento
nero, un movimento che cooperava coi bianchi, che aveva alcuni
“vetrinisti” bianchi, ma che era formato soprattutto da masse
nere, che usciva dalle chiese nere...
— E la sua presa di
posizione contro la guerra del Vietnam gli diede un respiro
internazionale che ferì l’establishment moderato bianco.
Certo. Mi sembra che il
problema di come mettere insieme questi diversi elementi, gli
integrazionisti e i nazionalisti neri, resti un grande problema
aperto. Se guardo alla leadership nera di oggi, ad esempio al
reverendo Jesse Jackson, se analizzo la loro strategia, vedo che
cercano di saldare la vecchia frattura tra separatismo e
integrazionismo, tentano di combinare insieme le due strategie. Il
che sarebbe oggi la cosa più vantaggiosa. Ma non c’è dubbio che
nessun leader nero è riuscito a stabilire una egemonia sul processo
politico.
— Neanche Jesse
Jackson?
Neanche lui. È
influente, certo. E importante più di ogni altro, ma rappresenta una
singola tendenza. Uno dei grandi problemi di oggi è la mancanza di
un movimento, è la mancanza di una strategia e di una leadership
come quella che Martin Luther King fu capace di costruire attraverso
il movimento dei diritti civili. Ma il problema non è solo dei neri.
Tutta la sinistra è in disordine. I neri stanno un po’ meglio dei
bianchi, ma penso ci vorranno degli anni prima che un grande
movimento popolare, analogo a quello degli anni sessanta, riesca ad
affermarsi.
“l'Unità”, 26
febbraio 1985
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