Conigliette |
Il dibattito
sull'illuminismo ha generato come proprio figlio, più o meno
legittimo, il dibattito sul gioco. Confesso che ho avuto un senso di
fastidio. Avevo scritto come cosa ovvia, in un articolo precedente,
che uno dei bisogni umani fondamentali, oltre al nutrimento, al
sonno, all'affetto e alla conoscenza, è il gioco, e mi sono visto
rilanciare l'idea come (cito da un titolo di “Repubblica”
dell'Epifania) una mia "provocazione". Eh, santa pace, come
se nessuno si fosse mai accorto che bambini, gattini e cagnolini si
esprimono anzitutto attraverso il gioco e come se, accanto alla
definizione di uomo come animal rationale, non circolasse da
gran tempo quella di homo ludens.
Talora si ha
l'impressione che i mass media scoprano sempre l'acqua calda, ma poi,
a rifletterci bene, bisogna ammettere che "riscoprire"
l'acqua calda è una delle loro funzioni fondamentali. Un giornale
non può uscire così, all'improvviso, dicendo che vale la pena di
leggere i Promessi Sposi. Deve aspettare che appaia una nuova
edizione dei Promessi Sposi e poi intitolare su molte colonne:
"Mode culturali. Il ritorno di Manzoni". Nel fare così fa
benissimo, perché tra i suoi lettori ci sono quelli che Manzoni lo
avevano dimenticato e molti giovani che ne sanno assai poco. Come
dire che, visto che ormai i ragazzi credono che l'acqua calda scenda
da sola dal rubinetto, ogni tanto bisogna trovare un pretesto per
ricordare che per ottenerla occorre o farla bollire o andarla a
cercare sottoterra.
E va bene, riparliamo del
gioco. Rileggendo i vari interventi apparsi su questo giornale mi
sono reso conto che in modi diversi alludevano tutti a una profonda
mutazione antropologica che ci sovrasta. Il gioco, come momento di
esercizio disinteressato, che giova al corpo o, come dicevano i
teologi, toglie la tristitia dovuta al lavoro, e sicuramente
affina le nostre capacità intellettive, per essere tale ha bisogno
di essere parentetico. E un momento di sosta in un panorama
giornaliero di diversi impegni, non necessariamente il duro lavoro
manuale, ma persino l'intensa conversazione filosofica tra Socrate e
Cebete.
Uno degli aspetti
positivi della felix culpa è che se Adamo non peccava non
avrebbe dovuto guadagnarsi il pane col sudore della fronte, e a
gingillarsi tutto il giorno nell'Eden sarebbe rimasto uno
zuzzurellone. Dal che emerge la provvidenzialità del Serpente.
Tutte le civiltà hanno
tuttavia riservato alcuni giorni dell'anno al gioco totale. Era un
periodo di licenza, che noi chiamiamo Carnevale e per altre civiltà
è o è stato qualcosa d'altro. Durante il Carnevale si gioca senza
interruzione, ma perché il Carnevale sia bello e non faticoso, deve
durare poco. Anche qui prego “Repubblica” di non aprire un altro
dibattito su questa "provocazione", perché la letteratura
sul Carnevale è amplissima.
Ora una delle
caratteristiche della civiltà in cui viviamo è la carnevalizzazione
totale della vita. Questo non significa che si lavora meno, lasciando
fare alle macchine, perché la incentivazione e organizzazione del
tempo libero è stata una sacrosanta preoccupazione e delle dittature
e dei regimi liberal-riformisti, ma perché si è carnevalizzato
anche il tempo di lavoro.
È facile e ovvio parlare
di carnevalizzazione della vita pensando alle ore spese dal cittadino
medio di fronte a uno schermo televisivo che, al di là di tempi
brevissimi dedicati all'informazione, provvede eminentemente
spettacolo, e tra gli spettacoli predilige ormai quelli che
rappresentano la vita come eterno carnevale, dove giullari e
fanciulle bellissime non lanciano coriandoli bensì una pioggia di
miliardi che chiunque può guadagnare giocando (e poi ci lamentiamo
perché gli albanesi, sedotti da questa immagine del nostro paese,
fanno carte false per venire in questo Luna Park permanente).
È facile parlare di
carnevale pensando al danaro e al tempo dedicato al turismo di massa
che propone isole di sogno a prezzi charter, e ti invita a visitare
Venezia lasciando al termine della tua carnevalata turistica lattine,
carta appallottolata, avanzi di hot dog e mostarda, proprio come alla
fine di un Carnevale che si rispetti. Ma non si considera abbastanza
la completa carnevalizzazione del lavoro dovuta a quegli oggetti
polimorfi di cui parlava Calabrese, robottini servizievoli che
tendono (mentre essi fanno quello che una volta dovevi fare tu) a far
sentire come tempo di gioco il tempo del loro impiego. Vive il
carnevale perenne l'impiegato che al computer, di nascosto dal
capufficio, fa giochi di ruolo o visita il sito di “Playboy”.
Vive il suo carnevale chi guida una macchina che ormai gli parla, gli
insegna la strada da prendere, lo espone al rischio della vita
impegnandolo a schiacciare pulsanti per riceve informazioni sulla
temperatura, sulla benzina rimasta, sulla velocità media, sul tempo
di percorso.
Il telefonino (vera
coperta di Linus dei giorni nostri, come suggeriva Bartezzaghi) è
strumento di lavoro per coloro che fanno professione di pronto
intervento, come medici o idraulici. Per gli altri dovrebbe servire
solo in quelle circostanze eccezionali in cui, trovandoci fuori casa,
dobbiamo comunicare una urgenza improvvisa, il ritardo a un
appuntamento a causa del deragliamento di un treno, di un' alluvione,
di un incidente di traffico. Se così fosse, tranne che per esseri
scalognatissimi, il telefonino come strumento dovrebbe essere usato
una, al massimo due volte al giorno. Pertanto il novantanove per
cento del tempo speso da coloro che vediamo serrare il loro "oggetto
transizionale" all'orecchio, è tempo di gioco - come per
l'imbecille che davanti a noi in treno conduce transazioni
finanziarie ad alta voce come se si pavoneggiasse con una corona di
piume e un anello multicolore al pene.
È ludico il tempo
passato al supermercato o nei motel dell'autostrada, che ti offrono
un empireo multicolore di oggetti in gran parte inutili, così che
alla fine eri entrato per comperare un pacchetto di caffè, ti sei
trattenuto un'ora, ed esci avendo acquistato anche quattro confezioni
di biscotti per cani (naturalmente il cane non ce l'hai - se lo
avessi, sarebbe un delizioso Labrador, il cane più alla moda, che
non sa far la guardia, non sa andare a caccia né trovar tartufi, è
pronto a leccare la mano a chi ti sta pugnalando, ma è un
meraviglioso giocattolo, specie se lo metti in acqua).
Ricordo negli anni
Settanta l'invito rivoluzionario, rivolto da Potere Operaio, del
rifiuto del lavoro - perché tanto l'automazione trionfante ne
avrebbe ridotto la dura necessità. Si obiettava allora che se la
classe operaia rifiutava il lavoro, chi avrebbe sviluppato
l'automazione? In un certo senso aveva ragione PotOp, l'automazione
si è, come si suol dire, implementata da sola. Salvo che il
risultato non è stato una nobilitazione della classe operaia che
realizzava la condizione utopica vagheggiata da Marx, in cui ciascuno
sarebbe stato al tempo stesso - e liberamente - pescatore, cacciatore
eccetera. Al contrario, la classe operaia è stata assunta
dall'industria della carnevalizzazione come suo proprio utente medio.
Non ha più da perdere soltanto le proprie catene. Oggi (se ci fosse
un black out rivoluzionario) avrebbe da perdere la puntata del Grande
Fratello, e dunque vota per chi gliela dà, e continua a lavorare per
offrire plusvalore a chi la fa divertire.
Se poi si scopre che in
molte parti del mondo ci si diverte poco, e si muore di fame, la
nostra falsa coscienza sarà acquietata da un grande spettacolo
(giocoso) di beneficenza per raccogliere fondi per bambini neri,
paraplegici e ischeletriti.
Si è carnevalizzato lo
sport. Come? Lo sport non è gioco per eccellenza, come può
carnevalizzarsi un gioco? Diventando, da parentetico che doveva
essere (una partita alla settimana e le Olimpiadi solo ogni tanto),
pervasivo e, da attività fine a se stessa, attività industriale. Si
è carnevalizzato perché nello sport non conta più il gioco di chi
gioca (trasformatosi tra l'altro in durissimo lavoro che si riesce a
sopportare solo drogandosi) ma la gran carnevalata del prima durante
e dopo, dove di fatto gioca per tutta la settimana chi guarda, non
chi fa il gioco.
Si è carnevalizzata la
politica, per la quale si usa ormai comunemente la dizione di
politica-spettacolo. Esautorato sempre più il Parlamento, la
politica si fa in video, come gioco gladiatorio, e per legittimare un
Presidente del consiglio lo si fa incontrare con Miss Italia. La
quale tra l'altro, non appare vestita da donna normale (e piuttosto
intelligente come è apparsa a molti), ma in costume da Miss Italia
(si arriverà al giorno che anche il presidente per legittimarsi
dovrà apparire mascherato da presidente).
Si è carnevalizzata la
religione. Una volta sorridevamo su quelle cerimonie che si vedevano
nei film, in cui uomini di colore vestiti di paramenti variopinti,
danzavano il tip tap gridando "Oh yes, oh Jesus!" (e le
opere, e le opere, ci chiedevamo noi di educazione cattolica, dove
sono finite le opere in questi carnevali post-protestanti della sola
fede danzante?).
Oggi, absit iniuria,
molte manifestazioni giubilari a suono di rock ci hanno ricordato la
discoteca. E d'altra parte alcuni gay hanno creduto di trovar
risarcimento alla loro millenaria e sofferta emarginazione nel
Carnevale del Gay Pride. Alla fine sono stati accettati, perché nei
giorni del Carnevale si accetta tutto, anche una cantante che si
muove con l'ombelico scoperto davanti a Giovanni Paolo (non fingete
di averlo scordato, è accaduto, e solo pochi hanno provato pietà
per quell'infelice e nobile vegliardo).
Essendo creature ludiche
per definizione, e avendo perduto il senso delle dimensioni del
gioco, siamo nella carnevalizzazione totale. La specie ha tante
risorse, forse si sta trasformando, e saprà accettare questa nuova
condizione traendone persino vantaggi spirituali. E forse è giusto
che il lavoro non sia più maledizione, e che non si debba passare
il proprio tempo a fare l'esercizio della buona morte, che anche la
classe operaia vada finalmente in paradiso ridendoci su. Allegria!
O forse ci penserà la
Storia, una bella guerra mondiale con tanto uranio impoverito, un bel
buco dell' ozono più grande che pria, e il Carnevale finirà. Ma
occorre riflettere sul fatto che la carnevalizzazione totale non
soddisfa, bensì acuisce il desiderio, prova ne sia la sindrome della
discoteca, che dopo tanto danzare e tanti decibel si vuole ancora
correre, chiuse le porte, la gimcana notturna della morte.
La carnevalizzazione
totale rischia di produrre la situazione mirabilmente descritta da
quella vecchia barzelletta, del tizio che avvicina insinuante una
tizia e chiede: "Signorina, che cosa fa dopo l'orgia?".
“la Repubblica”, 8
gennaio 2001
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