In Platone, in Senofonte
e in Aristotele è costante la distinzione tra la musica e la
ginnastica e le attività produttive svolte a scopo di guadagno.
Musica e ginnastica appartengono alla sfera della poesia e del
teatro, traverso cui l’uomo si accosta alle alte sfere, mentre le
attività produttive e mercantili non sono degne degli uomini liberi.
Non a caso nascono in Grecia le Olimpiadi, evento rituale imparentato
con le rappresentazioni tragiche, e durante il cui svolgimento si
interrompe ogni guerra. Il mito dell’atleta si sposa in Grecia con
quello del poeta tragico, l’Odissea vede gare atletiche con
protagonista lo stesso Ulisse. La ginnastica che noi conosciamo,
quella dei mitici Comaneci, Menichelli, Chechi, è una specialità
moderna, che attinge all’archetipo greco. Gli anelli, specialità
maschile, è la più spettacolare, nel senso profondo dell’aggettivo.
Un uomo sospeso, in poco più di un minuto l’atleta deve
raggiungere la posizione, trovare un perfetto assetto statico con
fulminei passaggi dinamici. Sospensione assoluta a cui segue la fase
finale del salto, l’uscita, che deve essere perfetta come un tuffo.
Jury Chechi, cinque ori mondiali e uno olimpico più un’infinità
di altre medaglie, è uno degli eroi di questa disciplina.
Che cosa significa
praticare gli anelli rispetto alle altre specialità di ginnastica?
Mi pare che in tutte le altre, che lei pure ha praticato, ci sia una
notevole percentuale di movimento. Negli anelli ho la sensazione che
il movimento sia solo una spinta energetica per conseguire una
perfetta immobilità. È così?
«In parte è così. Ogni
attività della ginnastica ha caratteristiche diverse. Forse negli
anelli la loro sintesi è probabilmente più difficile. La prima
fase, di slancio, precede quella statica, definitiva, è velocissima,
fondamentale. L’insieme delle due consente di cercare la perfezione
».
In che senso la
perfezione?
«Io sento perfettamente
che esiste una perfezione, una posizione assoluta di equilibrio».
Scusi, la devo
interrompere. Quale perfezione?
«C’è una perfezione
assoluta, nella realtà. Io, il ginnasta, cerco quella che riguarda
la mia sfera. Esiste una posizione agli anelli assoluta. Come ogni
perfezione non è raggiungibile da un uomo, ma ci si deve avvicinare
al massimo. Mi sono spesso avvicinato al 10, ho avuto 9,87, ma il
dieci è la perfezione assoluta, che non è degli uomini. Perché,
poi, ricordiamo che sono uomini anche i membri della giuria, coloro
che ti danno i voti, e quindi anche il loro sguardo, la loro
valutazione, non possono essere perfetti in assoluto. E meno male che
a noi umani la perfezione assoluta è preclusa! Ma noi dobbiamo
cercare di avvicinarvici, quanto più possiamo. Vale in tutti i
campi. Sì, la perfezione esiste, ha dei modelli, astratti, ma reali.
Mentre inizio l’esercizio, quando sono nelle condizioni di forma e
allenamento ideali, nella mente io raggiungo la perfezione, disegno e
immagino esattamente quale sarà la posizione, il rapporto tra la
fase dinamica della spinta e quella statica dell’equilibrio. Il
corpo non può raggiungere la perfezione, la mente la vede
nettamente. Se sei allenato mentalmente. Perché il primo allenamento
è spirituale, mentale, e va di pari passo con quello fisico».
Corpo e mente non sono
separati?
«Sono realtà diverse,
ma devono procedere e agire in accordo. La perfezione che la mia
mente vede con assolutezza deve essere seguita dal corpo. Di qui
l’importanza del lavoro, della disciplina: mi riferisco a una
disciplina che è contemporaneamente mentale e fisica. Il corpo non
può rispondere totalmente alla visione della figura perfetta che la
mente dell’atleta deve raggiungere. Ma deve sapervi corrispondere».
Scusi, lei parla della
perfezione del ginnasta sugli anelli come quello che si potrebbe
definire un assoluto platonico, una figura astratta, quindi crede che
esistano perfezioni assolute, astrali. E nello stesso tempo afferma
che è anche positivo che l’uomo, pur aspirando a quella
perfezione, non la possa conseguire. Lei è un campione e a me basta
quanto ha dato all’Italia, a me italiano, e in generale all’uomo.
Agli anelli. Ma ora mi colpisce anche qualcosa di preesistente ai
suoi ori: il suo è un discorso che ha qualcosa di religioso.
«Non sono credente, per
un mio percorso che parte da istanze di fede. Ma la maggior parte dei
valori su cui si fondano la mia vita, la mia attività, la mia
visione, sono valori di fede. Molto vicini ai valori cristiani, anche
se non credo in Dio. E in questo c’entra anche il lavoro, il senso
di sacrificio, il desiderio di superarsi, di dare sempre il massimo.
È fondamentale il sacrificio, il lavoro. La via verso la perfezione
è sacrificio, dedizione assoluta».
Per essere Chechi o
Stefania Belmondo ci vuole qualcosa di più dell’abnegazione. Come
per un poeta.
«Certo, il dono. Quello
è tutto, se non c’è non c’è. Ma agisce al trenta per cento.
Quanti ne ho visti, dotati, non giungere a nulla. Il dono va onorato
con il sacrificio, e con l’applicazione della mente».
Lei sta parlando di
qualcosa che credo di conoscere… Scusi, ma l’atleta che raggiunge
la perfezione agli anelli, e lei è uno dei pochi che vi sono
riusciti, non incontra, nella sospensione assoluta, una sorta di
estasi? Insomma quando consegue la perfetta immobilità, è fuori di
sé o sta lavorando mentalmente per mantenere il controllo?
«Fino a quando mi
aggrappo c’è la tensione assoluta, lo sforzo fisico e una
bruciante volontà. Nel momento in cui mi fermo – parlo delle
situazioni vincenti, in quelle diverse percepisco subito, in pieno,
l’imperfezione, l’errore – mi sento fuori. Non vorrei
esagerare, parlando di stato di trance…».
Io, vedendo lei,
Dibiasi, in certi momenti epici, ho pensato a uno stato di trance,
letteralmente…
«Preferisco limitarmi a
dire che è qualcosa di meno alto, ma imparentato. Certo di quel
minuto, intendo il minuto dei cinque mondiali, ancor più l’oro
olimpico, non ricordo, più nulla. Mai più. Qualche bagliore.
Ricordo perfettamente il prima…».
Il prima di
aggrapparsi, la spinta e il il balzo…
«Esattamente. E il dopo.
Dopo mi pare di scendere. Ma in quel minuto di cui non ricordo nulla
ho la certezza di essere giunto alla meta, vicino alla perfezione».
In cui si annulla.
«Lei mi fa domande
diverse dal solito. Questa conversazione è differente. Dalle solite.
Mi accorgo che è proprio così. Lei mi ha capito. Che mentre sento
che sto vincendo, mi annullo. Un attimo dopo, appena tocco terra,
soddisfazione, fierezza, gioia. Ma soprattutto, soprattutto un senso
di liberazione».
Liberazione?
«Sì, liberazione».
Nessuno la obbligava…
«Qualcosa mi obbligava.
E nel momento in cui lo conseguo la meta, mi libero di un vincolo».
Mantiene il patto. E
poi, di nuovo a terra, primo nel mondo, eroe delle Olimpiadi, non
prova la sensazione della gloria?
«Sì, e credo che se
qualche campione nega di provare questa sensazione non sia sincero
fino in fondo. O non sia normale… Sì, la gloria, la fierezza di
essere quello che sono per quanto ho fatto, con passione e sofferenza
».
E talento, scusi, dono
divino. O di natura, per ricorrere a una terminologia più consona al
suo sentire.
«Quello c’è, ripeto,
e conta il trenta per cento. Ma proprio perché c’è deve essere
onorato, mai sprecato, onorato con fatica e impegno. E dedizione
assoluta».
Ha provato l’ebbrezza
della gloria? Intendo la pura, assoluta felicità del campione
olimpico della Grecia antica, che sente l’eco che il suo nome avrà
nel mondo? Il brivido di avere compiuto un’impresa nobile, non
violenta, pacificante, e anche gloriosa?
«Sì, non lo nego
assolutamente. Liberazione, felicità, e un senso di onore quando
qualcuno mi riconosce, ancora. Pensi, c’è addirittura chi mi
incontra, e mi ringrazia».
Mi inserisco nella
lista degli eletti…
«Lo ammetto senza
esitazioni, mi fa piacere. E non nego anche la soddisfazione per i
guadagni pratici, economici, che le medaglie d’oro comportano. Fa
parte della ricompensa della vita. Guai ad anteporre queste cose al
puro esercizio di un compito. Devono stare al loro posto, ma ci sono.
D’altronde, per un atleta, la prima, la vera spinta è superare se
stesso. Dobbiamo vincere per migliorare noi stessi e dare felicità
agli altri. In questo nulla è paragonabile a un oro olimpico. Il mio
vale di più dei cinque Mondiali, e alla pari il bronzo olimpico,
quando, dopo l’infortunio, dissero che avevo finito e dovevo
ritirarmi. Quello è il mio secondo oro alle Olimpiadi. Che
culturalmente, spiritualmente, sono un’altra cosa. Come se
durassero tutto il tempo della civiltà, oltre il tempo».
Avvenire, 25 luglio 2015
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