In una scena di Mario,
Maria e Mario, film che Ettore Scola dedica ai travagli umani e
politici dei militanti del Pci di fronte alla svolta della Bolognina,
appare un dettaglio rivelatore: uno dei personaggi tiene sul comodino
Il conflitto sociale della modernità, libro di Ralf
Dahrendorf uscito presso Laterza (suo editore italiano) in quel
fatidico ’89.
Scola non aveva scelto a
caso: se c’è un intellettuale che accompagna da vicino e ispira i
fautori dello scioglimento e trasformazione del più grande partito
comunista d’Occidente, è proprio il sociologo liberale, direttore
della London School of Economics nel decennio ’74-’84, poi Warden
a Oxford, noto in Italia soprattutto attraverso i suoi editoriali su
“Repubblica”. Sarà lui stesso, nei Diari europei (1996),
a definire «di simpatia e stretta familiarità» i suoi rapporti con
il neonato Pds.
In Dahrendorf, di cui
ricorrono il 17 giugno i dieci anni dalla scomparsa, il gruppo
dirigente guidato da Achille Occhetto ritiene di trovare gli
strumenti teorici per definire il profilo del nuovo «moderno partito
riformatore»: dalla classe operaia si passa alla «cittadinanza»,
dalle contraddizioni economiche alla grammatica dei diritti,
dall’alternativa di sistema alla scoperta della democrazia
dell’alternanza. Ma non solo.
Il pensatore nato nel ’29
nella rossa Amburgo, a fine anni Ottanta cittadino britannico e
successivamente membro della camera dei Lord, serve ai fautori della
svolta soprattutto perché proclama – proprio lui, figlio di un
deputato della Spd perseguitato dal nazismo – la «fine del secolo
socialdemocratico»: le principali tradizioni del movimento operaio
sono entrambe arrivate al capolinea. E il Pds si propone come un
novum che vuole spingersi oltre le identità del passato: non
si lascia il comunismo per ricucire lo strappo di Livorno e
«ritornare» socialisti, come avrebbero voluto i miglioristi di
Giorgio Napolitano, ma per approdare su inesplorati (e fantomatici)
lidi di «sinistra democratica».
Si farebbe torto a
Dahrendorf, però, se si imputassero a lui le responsabilità della
deriva che il Pds e le sue successive trasformazioni avrebbero
conosciuto nei tre decenni successivi. La fortuna del sociologo
anglo-tedesco presso il gruppo dirigente della Bolognina resta un
fenomeno legato alla congiuntura dell’Ottantanove, non prosegue
oltre. La disponibilità all’ascolto del suo punto di vista viene
meno quando, dalla metà degli anni Novanta, il Pds di Massimo
D’Alema assume altri numi tutelari, come il cantore della «terza
via» Anthony Giddens, intellettuale di riferimento del nuovo corso
laburista di Tony Blair e della sua variante tedesca, quella di
Gerhard Schröder. Dahrendorf disturba le rappresentazioni
apologetiche delle magnifiche sorti e progressive della
globalizzazione, dell’integrazione europea, del «riformismo» di
quello che fu celebrato come «Ulivo mondiale». Mentre nelle due
sponde dell’Atlantico la parola d’ordine è liberalizzare,
proprio un autentico liberale come Dahrendorf mette in guardia sugli
effetti collaterali della sbornia pseudo-innovatrice dei
«socialdemocratici».
Nel decennio da Quadrare
il cerchio (’95) a La società riaperta (2005), avverte
sui rischi connessi all’emergere della nuova «classe globale» che
governa l’economia dei flussi, una classe per la quale «è
naturale tentare di sfuggire alle istituzioni tradizionali della
democrazia», ancorate ai luoghi. Un potere globale che non preoccupa
Blair e compagni, che, al contrario, prosperano grazie ai rapporti
che con esso intrattengono, infischiandone delle lacerazioni nel
tessuto sociale e delle nuove esclusioni. Per affrontare le quali i
laburisti della terza via brevettano il workfare (tuttora
assai in voga, vedi il cosiddetto reddito di cittadinanza),
condizionando l’aiuto a prestazioni «socialmente utili»: una
bestemmia per Dahrendorf, perché «l’obbligo del lavoro è, come
tutti gli obblighi, un passo verso la non-libertà». Il secondo
punto dolente, la crisi delle istituzioni democratiche, alimentata da
partiti ormai macchine elettorali al servizio dei leader, prigionieri
di un «presentismo» senza orizzonte ideale. E poi l’Unione
europea, guardata da Dahrendorf con gli occhi dell’«europeista
scettico» (da non confondere con l’euroscettico), «che è
allarmato dalla frattura esistente fra le intenzioni e la realtà»:
l’edificio comunitario soffre di grave deficit democratico, «il
'nucleo duro' spaccia i propri interessi per quelli europei»,
l’economia senza politica (e politiche sociali) rischia di far
crollare tutto.
Nulla di rivoluzionario,
certo, forse persino «insipido» come ebbe a dire di lui Mario
Tronti. Eppure, se nei due decenni della globalizzazione triumphans
la sinistra «riformista» italiana (ed europea) avesse continuato a
leggere Dahrendorf preferendolo a Giddens, avrebbe forse combinato
qualche guaio in meno.
Invece di aderire a
narrazioni irenistiche, si sarebbe accorta che persino assumendo un
punto di vista liberale si può riconoscere il conflitto sociale come
potenziale di progresso di fronte alla «minaccia per la libertà»
rappresentata dalla diseguaglianza «insopportabile», «quando i
privilegiati possono negare i diritti di partecipazione degli
svantaggiati» (Libertà attiva, 2003).
Di fronte alla quale, già
a inizio Duemila, il sociologo individua un solo rimedio: «un
livello di base delle condizioni di vita, forse un reddito minimo
garantito».
“il manifesto”, 15
giugno 2019
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