Riprendo dal “manifesto” di qualche giorno fa un articolo di Norma Rangeri sul terremoto; non solo per ragioni estetiche. (S.L.L.)
Le immagini del capannone accartocciato, destinazione mortale per gli operai richiamati incredibilmente al lavoro, sono il simbolo tragico di un paese sfasciato. Che si sgretoli una chiesa antica è ammesso (e non concesso), che si sbricioli una fabbrica moderna è una ferita che non rimargina. Nulla è inevitabile. Non lo è la crisi economica, non lo sono i crolli e le vittime dei nostri terremoti, conseguenza di umane corruzioni, guadagni, cinismi. Case, monumenti e soprattutto capannoni, tirati su al risparmio, senza i criteri antisismici, costruzioni «che anche un vento particolarmente forte può far venir giù come un castello di carte», secondo il parere degli esperti.
Nulla è casuale se la maggior parte delle persone è morta sotto le macerie di edifici industriali, se le mappe antisismiche ancora attendono di essere aggiornate. I fabbricati della piccola e media industria, fiore all’occhiello dell’economia domestica del nord, oggi, nelle zone colpite, si posano come una corona funebre sui corpi operai, italiani e stranieri. Pagano il lavoro con la vita, sono le ultime ruote del carro e i primi a morire. Il gravissimo bilancio, umano e culturale, di questo secondo terremoto emiliano è, al contrario, il frutto, l’ennesimo, di quell’anomalia italiana che affligge il nostro paese, rendendolo fragile, esposto alla furia della terra che trema ormai da dieci giorni. Il dovere della prevenzione è un eterno auspicio, una disperata promessa mancata.
Alla fine di una giornata segnata da ripetute richieste di annullare la parata militare (quattro milioni di euro), con un comunicato il Quirinale annuncia l’ossimoro: «Celebreremo sobriamente il 2 giugno in memoria delle vittime». In questo momento, di lutto, di massimo impegno nei soccorsi, di raccolta straordinaria di fondi, la celebrazione andava fermata.
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