Un mio antico compagno d’Università, Piero Violante, forse il più acuto in una generazione di begli ingegni, musicologo, politologo, storico, critico letterario – insomma intellettuale a tutto tondo –, usa spesso come specchio della Sicilia la sua tradizione letteraria, non tanto per spiegare come sono (e come saranno sempre) i siciliani, quanto per intravederne le diverse, spesso contraddittorie, facce e caso mai ragionare di come li hanno fatti, come si sono fatti da sé e come potrebbero diventare. Lo fa con una modernissima consapevolezza dei limiti di questo come di molti altri approcci, con tutte cautele del caso ed evitando le generalizzazioni e i cliché, cui spesso e facilmente indulge chi – siciliano o non – discorre della Sicilia e dei siciliani. Un articolo da leggere e – se si vuole – da approfondire con molti libri. Tra cui quelli di Piero. (S.L.L.)
Palermo. L'asino e la portaerei. Foto di Enzo Sellerio |
Un cliché radicato nella coscienza collettiva nazionale ed europea ritrae i siciliani come vivaci e vitali. Il nostro sguardo, invece, per le strade, sui treni, nei bar s'imbatte per lo più in un senso diffuso di malinconia. Così come in letteratura inciampiamo in personaggi amari, svuotati, dissugati, spezzati. A risplendere sulla Sicilia è il sole nero della malinconia? I siciliani sono tristi, grevi, lenti?
Ha scritto Jean Starobinski: «L'esperienza affettiva della malinconia, così spesso dominata dal sentimento della pesantezza, è inseparabile dalla rappresentazione di uno spazio ostile, che blocca o impedisce ogni tentativo di movimento». Molti potranno testimoniare di questo sentimento ostile verso un limite esterno che blocca il gesto, la parola. I siciliani si sentono ingabbiati, impotenti, accerchiati da insidie: l'esterno, la sfera pubblica è lo spazio ostile che li blocca. Ma la fenomenologia della malinconia ci riserva altre sorprese. Dice Julia Kristeva che «la parola rallentata o dissipata del melanconico lo conduce a vivere in una temporalità decentrata. Non è governata dal vettore "prima/poi", non conduce dal passato al futuro».
Se il tempo della modernità è un tempo vettoriale, una freccia rivolta al futuro, il melanconico si colloca fuori dal moderno? Forse vi sono gli elementi per tentare una lettura dei siciliani in chiave di "psychohistory", ma è una via disagevole: un suo uso superficiale può far cadere in una vieta psicologia dei popoli appena riverniciata, consolidando antichi pregiudizi. Tuttavia, è intrigante chiedersi se e in che misura la dissipazione malinconica faccia da freno alla interazione sociale, alla progettazione comune e perché divenga prevalente nell'autorappresentazione letteraria, rimuovendo una formidabile storia attiva, dinamica, che guarda al futuro, che c'è stata e c'è.
In un delizioso commento alle Lettres persanes di Montesquieu, Sciascia, nel chiedersi perché i siciliani appaiano all' Europa "diversi" - come un tempo i persiani ai parigini - arguisce che i siciliani vivono con oggettiva difficoltà la condizione geografica della separatezza legata all'isola. L'orizzonte oggettivo dell'isolano come quello soggettivo del malinconico sarebbe fonte di timore perché avvertito come uno spazio ostile? Da qui la diffidenza del siciliano? Francesco Corrao, riflettendo su queste valenze psicologiche dell' orizzonte occlusivo, ha tematizzato, ricorrendo al mito di Ciclope, «lo sguardo circolare motivato da preoccupazioni ispettive, investigative, inquisitorie. Lo sguardo sospettoso richiama lo stile paranoico nella relazione con l' altro». Nella diffidenza reciproca Corrao ritrova la difficoltà dei siciliani di condividere progetti comuni, rinviene «una lesione della dimensione del futuro».
È questa lesione ad escluderci dal moderno? Sciascia, nel suo commento a Montesquieu, si sofferma su queste valenze psicologiche e suggerisce un passo di Pirandello su Verga che dice dell' istintiva paura della vita dei siciliani, della diffidenza in cui vivono, del loro animo chiuso e della natura aperta attorno a sé: «È questo mare che li isola e li fa soli e ognuno è e si fa isola da sé». Corrao nell' individuare la lesione della dimensione del futuro come esito dello sguardo sospettoso ci consegna con fulminante astrazione la chiave di lettura antimodernista che dei siciliani e della storia siciliana ci ha dato la grande letteratura dal verismo ad oggi.
Il siciliano che emerge dalla letteratura è un soggetto sospettoso, malinconico, debole, intermittente che non ha il senso della durata e che, come osservò Goethe dopo una visita al principe di Biscari a Catania, vive per improvvise accensioni. Da Verga a De Roberto a Pirandello a Tomasi di Lampedusa, Fiore, Bufalino, D' Arrigo, Consolo, Perriera la vissuta fragilità dell'io si sposa con la preveggente indicazione della fragilità del progresso e dello sviluppo e alla diffidenza per la modernità. Così l'insularismo, la sicilitudine, diviene la metafora di una intellettualità che oscilla dal premoderno al postmoderno e che si rifiuta alla modernità. E nella retorica politica si traduce in un alibi per l' immobilismo.
È questa la tesi di un saggio che scrissi nel ' 92 - ora ripubblicato - e che Tano Gullo con acutezza e generosità ha recensito su questo giornale ("la Repubblica",19 ottobre 2011) richiamandone un nodo centrale. E cioè che il disagio del progresso della letteratura siciliana è però un disagio comune a molte letterature "periferiche" particolarmente attente alla perdita dei valori comuni nei processi di accelerata secolarizzazione, e in difesa dei quali approntano una strenua e "nostalgica", ma non per questo solo arretrata, strategia difensiva.
Ebbene del paradossale valore "progressivo" dell'arretratezza ci si rese sempre più conto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Nei primi anni di quel decennio, Günter Grass avvertì che il futuro non sarebbe stato più un terreno garantito di ulteriore sviluppo; che la natura non era più perenne, uguale a se stessa nel circolare e sempre uguale svolgersi della stagioni; che alla letteratura sarebbe toccato sempre di più il compito di congedarsi dalle cose rovinate. Se la privazione del futuro come terreno garantito e la percezione inconsueta della condanna a morte della natura, imponeva agli uomini di ridimensionare la logica dello sviluppo e del progresso che difatti si iniziò a pretendere "sostenibile"; la stessa percezione, rivolta al passato, smontava il cliché dell'antimodernismo come vuota esercitazione retorica dei laudatores del buon tempo andato e permetteva di leggervi segni premonitori, annunzi di una disfatta del tempo vettoriale.
All'interno di questo mutamento prospettico evidenziato da Grass, l'antimodernismo dei letterati siciliani da Verga a Tomasi di Lampedusa, da retroguardia di una letteratura impegnata a far andare avanti la storia, rischiava en bloc di divenire profezia. La fragilità soggettiva, la melanconia, diventava improvvisamente specchio della fragilità oggettiva di un modello di sviluppo nel quale non ci si voleva riconoscere.
È la crisi del modello sociale oggi avvertita che ci consente di leggere retrospettivamente la letteratura fine Ottocento come profezia, e che ci indica altresì nella letteratura più recente, almeno sino a D'Arrigo, Consolo, Perriera, uno straordinario protocollo del mondo rovinato. Ma le cose rovinate dalle quali la letteratura contemporanea, la sua melanconia, prende congedo, non sono per essa inerti, sono memoria di una dimensione umana non appieno realizzata e che il tempo ha reciso. Quelle cose conservano un futuro disatteso. La melanconia "dialettica" punta al futuro guardando indietro e restituisce alla Sicilia quel senso metaforico che aveva per Goethe e per gli scrittori europei en tour sull'orlo dei tempi moderni. Scintillava in quella metafora un mirabile gioco di specchi con la classicità perduta e l'intellettualità europea metteva alla prova i propri nervi sul teatro di colonne dirute della nostalgia per l'Altro. Ma anche le metafore si assottigliano se più limitate appaiono le vocazioni di chi le pensa. Così la metafora Sicilia nella retorica politica si è appiattita nella sicilitudine, in una fuga autoconsolatoria in un passato perfetto, che rampanti attori sociali e politici rivestono, all'occasione, di un universalismo di cartapesta, riconsegnando la melanconia al torpore immobile.
“La Repubblica” Edizione siciliana, 3 novembre 2011
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