6.7.12

Dandies. D'Annunzio: un surrogato (di Marco Vallora)

Il termine dandysme non è francese. E resterà termine straniero come il concetto che esprime sosteneva Barbey, convinto che l'ésprit non si traspone da una lingua all' altra, proprio come la poesia. Difficile dunque immaginare un dandy all' italiana: molti grazie ad un generico allentamento della terminologia pensano a D' Annunzio. Ma è una forzatura.
Certo, il dandy è anche un attore inimitabile della propria esistenza e dà grande spazio alla propria teatralità. Ma è una teatralità sottile, interiore, sommessa, non plateale. E' un diamante che si preoccupa troppo di brillare; fatica da strass, diceva con spregio Baudelaire di un finto-dandy. Al massimo il nostro, D' Annunzio, Orbo Veggente poteva illudersi di farsi dandy spedendo stirare le proprie camicie a Londra, oppure imbastendo le didascalie del film Cabiria per poter acquistare carne da far divorare ai propri alani. D' Annunzio ostentava, insomma: è questo è già un insulto, per la scuola di Brummel.
D'Annunzio è l'uomo dell' epoca della riproducibilità tecnica, basta vedere come sapeva pubblicitariamente sfruttare il miracolo della fotografia. Un vero dandy preferisce non lasciar traccia di sé, salvo che nelle caricature. Anche nel modo dannunziano di amare le donne, c'era sempre qualcosa di corposo, di fisiologico, di sanguignamente abruzzese, che avrebbe fatto inorridire qualsiasi Beau. Così per il Vittoriale, quella spiaggia esibita di paccottiglia incagliata: l'Imaginifico è uomo del Kitsch, dell'universo mercantile, mentre come sottolinea Attilio Brilli il dandy è colui che redime le cose dall' infamante statuto di merce. E invece D' Annunzio si trovava benissimo tra le masse osannanti di Fiume, fra le sue donne appiccicose, tra i chiassosi orpelli della sua mitologia artigianalmente fatta in casa.

"La Repubblica", 17 giugno 1989

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