L'articolo di Colombo, recensione del recente libro-intervista a Berlusconi di Alan Friedman, è anche un sintetico bilancio, secondo me eccellente, dell'esperienza politica del Cavaliere. Da leggere, meditare, discutere. (S.L.L.)
La mamma glielo diceva
sempre: «Sei il più bello della spiaggia». Le ragazze concordavano
e assediavano l’adone: «Più che un gran seduttore sono stato un
grande sedotto». Quando in gioventù ebbe a dissentire dalle scelte
musicali del suo leader, Felice Confalonieri, pianista, Silvio il
contrabbassista si caricò sulla schiena l’ingombrante strumento e
traslocò in altro club: «Naturalmente dopo poche settimane il
locale dove suonavo io era pieno e quello di Fedele vuoto». Inutile
continuare: di sparate simili nel libro di Alan Friedman su Silvio
Berlusconi My Way, (Rizzoli, pp. 400, euro 20.00) ce n’è un
florilegio.
Facile che qualche non
italico lettore sgrani gli occhi di fronte a una caso tanto estremo
di ego smisurato: «Possibile che un tipo simile abbia condizionato
l’Italia in tutto e per tutto lungo due decenni e passa?». Ma per
noi italiani, invece, non c’è stupore alcuno. Silvio nella parte
di se stesso ce lo siamo sorbiti appunto per vent’anni e passa. Su
quella giostra abbiamo fatto infiniti giri. Il libro di Friedman è
un’intervista, oltretutto fatta da un giornalista che al confronto
Bruno Vespa è un mastino: chi di interviste col magnifico ne ha
conosciute a pacchi non può pretendere di trovarci qualche novità.
Berlusconi è sempre
Berlusconi. Un’idea geniale dopo l’altra, e per fortuna che c’era
lui a tradurle in pratica sennò sai dove si andava a finire. La
sinistra non ha mai smesso di sognare i cavalli cosacchi a piazza san
Pietro: senza di lui starebbero lì ad abbeverarsi. I togati, in
cospicua parte, altro non erano che guardie rosse del bolscevismo
tricolore. Le decine di processi che lo hanno visto imputato
gareggiano in bugiarderia. Chiedere al processatissimo di ammettere
una responsabilità, fosse pure piccolina, è come pretendere che
confessi di aver sbagliato anche una sola cosa nella vita. Missione
impossibile.
Per due terzi, il libro
di Alan Friedman è un catalogo degli show con i quali Silvio
Berlusconi ci ha intrattenuti dal 1994 in poi. Ne abbiamo riso
spesso, ma puntualmente quei sorrisi sprezzanti ci si sono congelati
sulle labbra scoprendo che le buffonate del grande imbonitore, le sue
eterne barzellette, le trovate pacchiane, l’impunita agiografia di
se stesso, seducevano e conquistavano milioni di votanti.
Adesso che Silvio
Berlusconi non è più lo spauracchio di un tempo, sarebbe ora di
iniziare a considerare l’uomo, l’imprenditore e il politico nella
loro realtà, lasciando ai tanti Travaglio del Paese il piacere
dubbio dell’anatema. My Way non è la biografia reale che
l’uomo di Arcore ancora attende. Però può essere un’occasione
per iniziare a misurarsi seriamente con il percorso di un uomo che è
stato davvero, da prima ancora di scendere in politica,
«l’autobiografia della nazione».
Silvio Berlusconi è
stato un grande imprenditore: né le sue ridicole esagerazioni né le
evidenti omissioni sulle coperture finanziarie che gli hanno
facilitato il decollo bastano a negare una realtà palese. Negli
scarni commenti alla concione dell’intervistato, Friedman segnala
quanto per l’uomo sia importante piacere, quanto grande la sua arte
di seduttore e venditore. Sacrosanto, ma non basta a risolvere il
segreto del suo successo, dovuto probabilmente tanto ai suoi difetti
quanto alle sue doti.
Berlusconi è sempre
stato un tipo capace di sognare in grandissimo e dotato di un senso
di sé tanto ampio da credere nella possibilità di realizzare quegli
obiettivi. Ma è anche sempre stato un classico italiano medio, uno
che doveva solo guardarsi allo specchio e scandagliare il proprio
animo per capire a cosa ambivano i concittadini e quali banchi del
mercato erano ancora privi dell’offerta richiesta.
Da Milano 2 a Forza
Italia, passando per l’impresa Mediaset, Berlusconi vende al Paese
quel che lui stesso comprerebbe, ma, una volta individuato
l’obiettivo, è instancabile nel perseguirlo. Difficile immaginare
una simile miscela di mediocrità ed eccezionalità, in questo caso
non conflittuali ma in stato di perfetto equilibrio e proficua
sinergia.
E tuttavia la lunga
celebrazione di se stesso che il mattatore consegna al giornalista
yankee rivela anche perché il grande imprenditore non poteva essere
altro che un pessimo politico.
La sua intuizione, senza
dubbio tempestiva, è stata capire che la politica è anche una
merce, e come una merce può essere pubblicizzata e venduta. Ma oltre
questo l’ex contrabbassista non è mai riuscito ad andare. Non ha
mai neppure subodorato che ridurre la politica a pura merce equivale
a farne una merce scadente.
Silvio Berlusconi ha
piazzato il suo prodotto meglio di chiunque altro nella storia
repubblicana. Dato per politicamente morto è risorto più e più
volte. Ha sovvertito pronostici e rovesciato previsioni che
sembravano certezza. Ma con quelle vittorie, proprio perché al fondo
è sempre rimasto un campione dell’impoliticità, ha poi combinato
pochissimo.
Anche nel male, sia
chiaro: in un paio d’anni Matteo Renzi ha fatto più danno del
mentore in due decenni.
Culturalmente, il
berlusconismo ha comportato una devastazione superiore a quella
provocata dallo stesso fascismo, proprio perché ha imposto e diffuso
un’idea della politica trasformata in pacchetto da vendere senza
preoccuparsi affatto del contenuto. Nell’agire concreto, però, il
suo principale limite è stato invece un’inerzia pressoché totale,
diametralmente opposta all’immagine iperdinamica che il leader
spacciava di se stesso.
Della politica,
Berlusconi ha sempre saputo vedere solo il teatrino e in fondo l’ha
sempre subìta senza mai amarla.
L’eccezione, a cui è
dedicata la seconda parte del libro, è la politica estera. Quella sì
che all’allora Cavaliere andava a genio. Certo la intendeva a modo
suo: come un dialogo tra sovrani come Gheddafi, o Putin, o lo stesso
George Bush. Tutti amiconi con i quali re Silvio poteva sfoderare la
sua personale visione della diplomazia, fatta di inviti in villa,
barzellette e rapporti personali.
E tuttavia anche i più
sfegatati dovrebbero riconoscere che su quel fronte l’impolitico di
Arcore aveva ragione più spesso che non i suoi rivali: dalla
sciagurata impresa di Libia al servilismo nei confronti dei severi
tutori del rigore europeo. E persino sulla folle impresa irachena,
sembra indiscutibile che, pur nella piena fedeltà al miliardario
texano che alloggiava alla Casa bianca, Berlusconi si sia prodigato
invano per evitare la più disastrosa tra le guerre recenti.
L’ultima parte del
libro abbandona bruscamente l’intervista per mutarsi in inchiesta
sulla caduta del potentissimo, dovuta a una manovra ordita in parte
al Quirinale, in parte a Bruxelles, in parte a Parigi e Berlino.
Se ne è discusso in
abbondanza mesi fa, dunque se ne parlerà poco ora che il volume è
davvero nelle librerie. Quella vicenda rappresenta quasi un libro nel
libro, Friedman smette di fingersi un registratore e fa il
giornalista. La conclusione è inoppugnabile: la caduta di Berlusconi
è stata un modello di moderno colpo di Stato, di quelli in cui la
finanza sostituisce i carri armati. Ha abbattuto, chissà se per
sempre, «il Cavaliere nero». Lo ha sostituito con qualcosa di anche
peggiore, tra gli applausi ebbri di chi scambiava il patibolo per un
podio.
“il manifesto”, 27
ottobre 2015
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