6.12.15

Franco Calamandrei. Gli anni della speranza disperata (Aldo Natoli)

Rilette le acute, e talora commoventi, note di Aldo Natoli in un vecchio ritaglio, ne ricavo l'esigenza di procurarmi il libro di cui si parla, il diario di Calamandrei, tanto più che di questa storia ho appreso – come tanti – aspetti che Natoli non era in grado di approfondire attraverso un libro che si raccomanda vivamente. Si tratta Una famiglia in guerra (Laterza 2008), che raccoglie scritti di Franco e Piero Calamandrei tra il 1936 e il1956, al cui centro sono le lettere che il padre giurista liberale e il figlio partigiano e poi militante comunista si scambiarono nel tempo della Resistenza armata, ma che ha come vera protagonista Maria Teresa Regard, la compagna di Franco, la cui intelligenza e la cui forza è un vero polo d'attrazione. Nell'analisi di Natoli manca soprattutto l'amore, che viene a quel che s'intende rimosso dal Diario (ci sarebbe da interrogarsi sulle ragioni), ma che incide profondamente nella scelte di vita. Ah, l'amore, l'amore quante cose fa fare l'amore! (S.L.L.)
Franco Calamandrei da giovane
Questo di Franco Calamandrei (La vita indivisibile, Diario 1941-1947, Editori Riuniti) non è un libro di memorie e di riflessioni sul passato. E' un diario trovato fra le carte dell'autore dopo la sua morte (1982) e che fu scritto quarant'anni fa, negli anni di ferro della guerra e dell'immediato dopoguerra; un dialogo serrato e tormentoso con se stesso e il vivere quotidiano. E culmina nel cimento cui è chiamato un giovane intellettuale che aveva 26 anni al momento del crollo dell'8 settembre 1943, e al quale si impongono improvvisamente scelte che trascendono la sua vita privata e lo spingono, nella lotta armata, al limite estremo del confine fra la vita e la morte.
È il documento autentico del travaglio di una generazione e fa immediatamente correre il pensiero alla vicenda di Giaime Pintor, conservata nel suo Doppio diario, 1936-1943 e nell'ultima lettera al fratello, prima della morte. Ma il richiamo vale piuttosto a sottolineare la profonda diversità delle motivazioni, la molteplicità e la contraddittorietà delle esperienze nell'apparente somiglianza delle scelte decisive.
Franco Calamandrei, coetaneo di Giaime (era nato solo due anni prima, nel 1917), giungerà anche lui, all'inizio dell'autunno del 1943, nel dilagare della guerra e nell'accendersi della guerra civile, a rompere il quadro protetto e privilegiato della vita privata, a schierarsi nelle prime file della lotta armata contro i tedeschi che occupano Roma, a combattere nelle formazioni dei Gap comunisti.
Ma per quale via è giunto a questa decisione? Qui, certo, non ritroviamo Giaime, la razionalità della sua scelta, che proviene da un sicuro senso della storia, il valore morale della sua mobilitazione che non offusca la sua armonia intima, la sua "felicità", ma proprio da esse scaturisce. Nel Diario di Calamandrei fra il 1941 e il 1943, domina, come una cappa opaca, il peso del vivere: "un uomo che per inerzia non sa opporsi mai alla realtà che gli si propone. Non se ne può distinguere, e come si affonda in una sabbia mobile inevitabilmente si adegua a quella realtà, si fa come la realtà lo invita a essere"; "la disperazione ci insidia in ogni attimo, in ogni nostra parola e gesto". Vive in solitudine e precarietà, in una insoddisfatta ricerca di amore, lontano dai genitori, dai quali lo separa una distanza che, anche se talora lo desidererà, non riuscirà mai a superare. Il suo rovello principale sembra il vuoto invalicato fra vita e arte (Proust), la vita come opera d'arte (Gide), il rapporto inafferrabile fra verità e labilità dell'esistenza quotidiana, la ricerca di un punto fermo da cui partire.
Ne è pervaso al punto che le immagini della tragedia che lo circonda (la Napoli bombardata del 1942) penetrano raramente nella sua intimità e da questa ritornano riflesse in una cornice formale che rivela l'assillo di incidere spazio, tempo, sentimenti, passioni in "situazioni" perenni: "Il narratore... è un'anima nata e cresciuta in mezzo, dentro ai fenomeni, imbevuta di loro fino alla saturazione, posseduta, assordata, ossessionata da loro. Chiusa tra i fenomeni come in un recinto, in una prigione. La verità per lei, la sua forma, è al di là dei fenomeni, dietro di loro, ed essa per conquistarla deve accettare il reale... assottigliarlo fino alla trama, renderlo leggero e trasparente, e attraverso di esso vedere rivelarsi la verità, a se medesima. Il simbolo, insomma, punto di partenza del poeta, è il punto di arrivo del narratore. Essi si incontrano nel loro lavoro come un cavatore che fora la terra dalla superficie si incontra con un sepolto che zappa dal sottosuolo per venire alla luce".
Questa immagine sorprendente esprime con efficacia l'intensità della ricerca di arte e di verità in cui Calamandrei era impegnato nella primavera del 1943, in modo che sembrava assorbirlo totalmente. Ma nell'estate (nel frattempo si era trasferito a Venezia), con la caduta di Mussolini (25 luglio) e l'armistizio dell'8 settembre, improvvisi, profondi mutamenti sommuovono gli instabili equilibri del suo conoscere. Scoperta della libertà come un nuovo possibile modo di vivere, tanto più nuovo in quanto non atteso, non "ideologizzato". Subito dopo, soldati sbandati in fuga, l'imminente insidia tedesca lo inducono a fuggire da Venezia verso il Sud fino a Roma, dove incontra degli amici. Il 12 settembre scriverà: "e tutti siamo d'accordo che questa estrema occasione di intervenire, di farci una buona volta partecipi, non ci deve sfuggire. V. e P. sono inquadrati in un nucleo di simpatizzanti dell'organizzazione comunista. Non hanno durato fatica a persuadermi che il nostro posto di lotta è di qua, non di là dalle linee".
Questa breve notazione, del tutto spoglia di argomenti politico-ideologici, chiosata per di più da alcuni versi di Lee Masters ("E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, / dovunque spingano la barca"), contiene la chiave dell'impegno di Calamandrei nella lotta politica e armata. È il salto che dovrebbe scrollargli di dosso l'inerzia di una vita solo patita? È stato abbagliato dall'illusione di rompere il cerchio della solitudine? Ha scoperto nella propria esistenza la risonanza della vita di altri uomini, già da lui diversi, adesso, per la prima volta, sentiti simili?
Risposte a questi interrogativi ricorrono nel suo diario di quei mesi, ma non diventeranno mai certezza. Adesso è coinvolto in un'esperienza nuova, esaltante e atroce. Adesso può illudersi di non essere più un intellettuale che osserva e definisce l' esistenza, di non appartenere più alla "razza di chi rimane a terra". In rari istanti può perfino dubitare di non essere più fuori, ma dentro il caldo, sanguinoso, ma esaudito grembo della vita, proprio perché si trova ormai sulla cresta sottile che separa la vita dalla morte. Affiorano in lui valori che prima non ha conosciuto: un ideale di libertà, solidarietà, uguaglianza. Lo chiamerà comunismo, ma non è forse una riscoperta del fervore, ora che l'aridità sembra lontana (ancora una reminiscenza gidiana)? È vero che adesso, nelle pause fra le azioni, nel suo rifugio notturno, legge i classici del marxismo; ma non è un neofita in cerca della rivelazione, nessuna nuova verità illuminerà le pagine del suo diario. Forse ha solo trovato un nesso con la vita che lo circonda e questa, adesso, è la società. Potrebbe essere, ma non lo sarà, una rivoluzione per chi, come lui, aveva teorizzato nella scoperta e nella traduzione di nessi la specificità dell'opera creativa del narratore. Ma lui non diventerà un narratore; più tardi non scriverà il romanzo che pure aveva progettato e adesso, dentro la lotta, continuerà ad interrogarsi senza pudori, spingendo fino al limite estremo la sincerità con se stesso.
Da una parte, non eliminerà mai il dubbio che ciò che lo ha spinto alla lotta armata sia stato l'impulso all'avventura (ancora Gide); dall'altra, nel muovere con i compagni all'attacco del nemico, si sente talora trascinare da un'onda che è forse quella, immensa, della storia. Il suo racconto da protagonista su fatti memorabili della Resistenza a Roma ha un valore documentario (e letterario) unico: così l' esaltazione e il terrore nell'attacco contro l'Hotel Flora, sede di un comando tedesco; la lucidità (dolente, si noti) del comandante militare nell'intervento armato alle Caserme di Prati, dove una donna era stata uccisa; il gesto inesorabile, levandosi il cappello, dell'attacco finale a via Rasella.
Nessun narcisismo in lui (in questo è lontanissimo dal suo modello gidiano): così troverà solo scarne parole, pochissime, per annotare la sua fuga dalla prigione di via Romagna, dove i fascisti della banda Koch lo avevano rinchiuso. Non avrà mai nè il distacco indispensabile, né l'autocompiacimento senza dei quali non si diventa eroi di un romanzo. Ma dedicherà una pagina bellissima ad un eroe reale, il giovane architetto Giorgio Labò, fucilato in quei giorni a Forte Bravetta dopo essere stato torturato dai tedeschi a via Tasso.
A guerra finita, Franco Calamandrei non troverà esaudimento e pace nella coscienza politica, nell'essere membro di un grande partito, nella legittimazione dell'ideologia. Proverà a confrontare le proprie motivazioni con quelle di un operaio che ha combattuto al suo fianco: non ritroverà mai in se stesso quella semplicità e quella naturalezza. Risorgono in lui gli assilli dell'intelletto. Per Calamandrei la "mobilitazione" non sarà, come era stata per Giaime, il punto di arrivo di una maturata necessità storica; ritorna l'impulso all'avventura, come evasione dalla vita quotidiana. La vita si vorrebbe indivisibile, ma è divisa, profondamente e irrimediabilmente scissa. Questa fessura non si è chiusa, rimarrà aperta come una ferita segreta. Noi possiamo solo, e con rispetto, supporlo, pensando al suo stanco colloquio con Bilenchi, trentacinque anni dopo, una settimana prima della morte. Probabilmente non sapremo nulla del lungo epilogo di quel dramma; ma, certo, non fu solo "disperazione borghese".


“la Repubblica”, 20 luglio 1984  

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