Rilette le acute, e
talora commoventi, note di Aldo Natoli in un vecchio ritaglio, ne
ricavo l'esigenza di procurarmi il libro di cui si parla, il diario
di Calamandrei, tanto più che di questa storia ho appreso – come
tanti – aspetti che Natoli non era in grado di approfondire
attraverso un libro che si raccomanda vivamente. Si tratta Una
famiglia in guerra (Laterza
2008), che raccoglie
scritti di Franco e Piero Calamandrei tra il 1936
e il1956, al cui centro sono le lettere che il padre giurista
liberale e il figlio partigiano e poi militante comunista si
scambiarono nel tempo della Resistenza armata, ma che ha come vera
protagonista Maria Teresa Regard, la compagna di Franco, la cui
intelligenza e la cui forza è un vero polo d'attrazione.
Nell'analisi di Natoli manca soprattutto l'amore, che viene a quel
che s'intende rimosso dal Diario (ci
sarebbe da interrogarsi sulle ragioni), ma che incide profondamente
nella scelte di vita. Ah, l'amore, l'amore quante cose fa fare
l'amore! (S.L.L.)
Franco Calamandrei da giovane |
Questo di Franco
Calamandrei (La vita indivisibile, Diario 1941-1947,
Editori Riuniti) non è un libro di memorie e di riflessioni sul
passato. E' un diario trovato fra le carte dell'autore dopo la sua
morte (1982) e che fu scritto quarant'anni fa, negli anni di ferro
della guerra e dell'immediato dopoguerra; un dialogo serrato e
tormentoso con se stesso e il vivere quotidiano. E culmina nel
cimento cui è chiamato un giovane intellettuale che aveva 26 anni al
momento del crollo dell'8 settembre 1943, e al quale si impongono
improvvisamente scelte che trascendono la sua vita privata e lo
spingono, nella lotta armata, al limite estremo del confine fra la
vita e la morte.
È il documento autentico
del travaglio di una generazione e fa immediatamente correre il
pensiero alla vicenda di Giaime Pintor, conservata nel suo Doppio
diario, 1936-1943 e nell'ultima lettera al fratello, prima della
morte. Ma il richiamo vale piuttosto a sottolineare la profonda
diversità delle motivazioni, la molteplicità e la contraddittorietà
delle esperienze nell'apparente somiglianza delle scelte decisive.
Franco Calamandrei,
coetaneo di Giaime (era nato solo due anni prima, nel 1917), giungerà
anche lui, all'inizio dell'autunno del 1943, nel dilagare della
guerra e nell'accendersi della guerra civile, a rompere il quadro
protetto e privilegiato della vita privata, a schierarsi nelle prime
file della lotta armata contro i tedeschi che occupano Roma, a
combattere nelle formazioni dei Gap comunisti.
Ma per quale via è
giunto a questa decisione? Qui, certo, non ritroviamo Giaime, la
razionalità della sua scelta, che proviene da un sicuro senso della
storia, il valore morale della sua mobilitazione che non offusca la
sua armonia intima, la sua "felicità", ma proprio da esse
scaturisce. Nel Diario di Calamandrei fra il 1941 e il 1943,
domina, come una cappa opaca, il peso del vivere: "un uomo che
per inerzia non sa opporsi mai alla realtà che gli si propone. Non
se ne può distinguere, e come si affonda in una sabbia mobile
inevitabilmente si adegua a quella realtà, si fa come la realtà lo
invita a essere"; "la disperazione ci insidia in ogni
attimo, in ogni nostra parola e gesto". Vive in solitudine e
precarietà, in una insoddisfatta ricerca di amore, lontano dai
genitori, dai quali lo separa una distanza che, anche se talora lo
desidererà, non riuscirà mai a superare. Il suo rovello principale
sembra il vuoto invalicato fra vita e arte (Proust), la vita come
opera d'arte (Gide), il rapporto inafferrabile fra verità e labilità
dell'esistenza quotidiana, la ricerca di un punto fermo da cui
partire.
Ne è pervaso al punto
che le immagini della tragedia che lo circonda (la Napoli bombardata
del 1942) penetrano raramente nella sua intimità e da questa
ritornano riflesse in una cornice formale che rivela l'assillo di
incidere spazio, tempo, sentimenti, passioni in "situazioni"
perenni: "Il narratore... è un'anima nata e cresciuta in mezzo,
dentro ai fenomeni, imbevuta di loro fino alla saturazione,
posseduta, assordata, ossessionata da loro. Chiusa tra i fenomeni
come in un recinto, in una prigione. La verità per lei, la sua
forma, è al di là dei fenomeni, dietro di loro, ed essa per
conquistarla deve accettare il reale... assottigliarlo fino alla
trama, renderlo leggero e trasparente, e attraverso di esso vedere
rivelarsi la verità, a se medesima. Il simbolo, insomma, punto di
partenza del poeta, è il punto di arrivo del narratore. Essi si
incontrano nel loro lavoro come un cavatore che fora la terra dalla
superficie si incontra con un sepolto che zappa dal sottosuolo per
venire alla luce".
Questa immagine
sorprendente esprime con efficacia l'intensità della ricerca di arte
e di verità in cui Calamandrei era impegnato nella primavera del
1943, in modo che sembrava assorbirlo totalmente. Ma nell'estate (nel
frattempo si era trasferito a Venezia), con la caduta di Mussolini
(25 luglio) e l'armistizio dell'8 settembre, improvvisi, profondi
mutamenti sommuovono gli instabili equilibri del suo conoscere.
Scoperta della libertà come un nuovo possibile modo di vivere, tanto
più nuovo in quanto non atteso, non "ideologizzato".
Subito dopo, soldati sbandati in fuga, l'imminente insidia tedesca lo
inducono a fuggire da Venezia verso il Sud fino a Roma, dove incontra
degli amici. Il 12 settembre scriverà: "e tutti siamo d'accordo
che questa estrema occasione di intervenire, di farci una buona volta
partecipi, non ci deve sfuggire. V. e P. sono inquadrati in un nucleo
di simpatizzanti dell'organizzazione comunista. Non hanno durato
fatica a persuadermi che il nostro posto di lotta è di qua, non di
là dalle linee".
Questa breve notazione,
del tutto spoglia di argomenti politico-ideologici, chiosata per di
più da alcuni versi di Lee Masters ("E adesso so che bisogna
alzare le vele / e prendere i venti del destino, / dovunque spingano
la barca"), contiene la chiave dell'impegno di Calamandrei nella
lotta politica e armata. È il salto che dovrebbe scrollargli di
dosso l'inerzia di una vita solo patita? È stato abbagliato
dall'illusione di rompere il cerchio della solitudine? Ha scoperto
nella propria esistenza la risonanza della vita di altri uomini, già
da lui diversi, adesso, per la prima volta, sentiti simili?
Risposte a questi
interrogativi ricorrono nel suo diario di quei mesi, ma non
diventeranno mai certezza. Adesso è coinvolto in un'esperienza
nuova, esaltante e atroce. Adesso può illudersi di non essere più
un intellettuale che osserva e definisce l' esistenza, di non
appartenere più alla "razza di chi rimane a terra". In
rari istanti può perfino dubitare di non essere più fuori, ma
dentro il caldo, sanguinoso, ma esaudito grembo della vita, proprio
perché si trova ormai sulla cresta sottile che separa la vita dalla
morte. Affiorano in lui valori che prima non ha conosciuto: un ideale
di libertà, solidarietà, uguaglianza. Lo chiamerà comunismo, ma
non è forse una riscoperta del fervore, ora che l'aridità sembra
lontana (ancora una reminiscenza gidiana)? È vero che adesso, nelle
pause fra le azioni, nel suo rifugio notturno, legge i classici del
marxismo; ma non è un neofita in cerca della rivelazione, nessuna
nuova verità illuminerà le pagine del suo diario. Forse ha solo
trovato un nesso con la vita che lo circonda e questa, adesso, è la
società. Potrebbe essere, ma non lo sarà, una rivoluzione per chi,
come lui, aveva teorizzato nella scoperta e nella traduzione di nessi
la specificità dell'opera creativa del narratore. Ma lui non
diventerà un narratore; più tardi non scriverà il romanzo che pure
aveva progettato e adesso, dentro la lotta, continuerà ad
interrogarsi senza pudori, spingendo fino al limite estremo la
sincerità con se stesso.
Da una parte, non
eliminerà mai il dubbio che ciò che lo ha spinto alla lotta armata
sia stato l'impulso all'avventura (ancora Gide); dall'altra, nel
muovere con i compagni all'attacco del nemico, si sente talora
trascinare da un'onda che è forse quella, immensa, della storia. Il
suo racconto da protagonista su fatti memorabili della Resistenza a
Roma ha un valore documentario (e letterario) unico: così l'
esaltazione e il terrore nell'attacco contro l'Hotel Flora, sede di
un comando tedesco; la lucidità (dolente, si noti) del comandante
militare nell'intervento armato alle Caserme di Prati, dove una donna
era stata uccisa; il gesto inesorabile, levandosi il cappello,
dell'attacco finale a via Rasella.
Nessun narcisismo in lui
(in questo è lontanissimo dal suo modello gidiano): così troverà
solo scarne parole, pochissime, per annotare la sua fuga dalla
prigione di via Romagna, dove i fascisti della banda Koch lo avevano
rinchiuso. Non avrà mai nè il distacco indispensabile, né
l'autocompiacimento senza dei quali non si diventa eroi di un
romanzo. Ma dedicherà una pagina bellissima ad un eroe reale, il
giovane architetto Giorgio Labò, fucilato in quei giorni a Forte
Bravetta dopo essere stato torturato dai tedeschi a via Tasso.
A guerra finita, Franco
Calamandrei non troverà esaudimento e pace nella coscienza politica,
nell'essere membro di un grande partito, nella legittimazione
dell'ideologia. Proverà a confrontare le proprie motivazioni con
quelle di un operaio che ha combattuto al suo fianco: non ritroverà
mai in se stesso quella semplicità e quella naturalezza. Risorgono
in lui gli assilli dell'intelletto. Per Calamandrei la
"mobilitazione" non sarà, come era stata per Giaime, il
punto di arrivo di una maturata necessità storica; ritorna l'impulso
all'avventura, come evasione dalla vita quotidiana. La vita si
vorrebbe indivisibile, ma è divisa, profondamente e
irrimediabilmente scissa. Questa fessura non si è chiusa, rimarrà
aperta come una ferita segreta. Noi possiamo solo, e con rispetto,
supporlo, pensando al suo stanco colloquio con Bilenchi, trentacinque
anni dopo, una settimana prima della morte. Probabilmente non sapremo
nulla del lungo epilogo di quel dramma; ma, certo, non fu solo
"disperazione borghese".
“la Repubblica”, 20
luglio 1984
Nessun commento:
Posta un commento