“Dalla culla alla tomba”, era il
celebre motto del piano Beveridge nell’Inghilterra del dopoguerra,
secondo il quale il welfare doveva proteggere le persone dalla
nascita alla morte. Quello italiano si è dimenticato di un bel pezzo
del percorso, soprattutto dalle parti delle culle: lo confermano i
dati Istat sulla povertà relativi al 2014.
In quello che dovrebbe essere ricordato
come l’ultimo anno della lunga recessione cominciata sei anni
prima, l’Italia ha contato 4.102.000 persone in povertà assoluta e
7.815.000 in povertà relativa: in entrambi i casi l’incidenza
della povertà è tanto più alta quanto più bassa è l’età delle
persone. Bambini e giovani hanno pagato la crisi più degli altri, se
si guarda all’età. Mentre, se si guarda allo status occupazionale
delle persone, hanno pagato un po’ tutte le categorie, ma
soprattutto una: gli operai. Si sono invece “salvati” i
pensionati. Questi i dati essenziali della fotografia del 2014, nei
quali il presidente del consiglio Renzi vede prove del fatto che
“l’Italia ha oggettivamente svoltato” (riferendosi al fatto
che, rispetto al 2013, la povertà non è aumentata).
Di cosa parliamo
Quando parliamo di povertà, non stiamo
indicando un disagio sociale generico. L’Istat la misura in base a
due soglie: la prima è quella della povertà assoluta, nella quale
ci si trova quando si sta sotto la spesa minima indispensabile per
comprare beni e servizi essenziali a un livello di vita minimamente
accettabile; la seconda è quella della povertà relativa, nella
quale ci si trova quando si spende un tot di meno rispetto alla media
della società in cui si vive.
La soglia della “povertà assoluta”
non è uguale per tutti, ma è calcolata in base all’età propria e
dei familiari, alla zona in cui si vive, alla grandezza della città:
per una persona adulta single in Italia lo scorso anno era di 816
euro se viveva in una grande città del nord, 548 in un piccolo
comune meridionale. La soglia di povertà relativa, invece, è
fissata per una famiglia di due componenti al livello della spesa
media mensile di una persona: in pratica è povero, relativamente
parlando, chi ha una spesa pari a meno della metà di quella media.
Nel 2014, la soglia di povertà relativa per una famiglia di due
componenti era di 1.041 euro al mese.
Il grande balzo in avanti della
povertà è l’eredità più evidente e importante della crisi
Povertà assoluta e relativa si sono
mosse in modo diverso, negli anni della crisi: in particolare, la
seconda ha risentito di una specie di “effetto ottico”, poiché è
accaduto che, abbassandosi la spesa di tutti, è scesa anche la
soglia di povertà e dunque apparentemente il numero dei poveri, in
alcuni anni, si è perfino ridotto. Nel 2014, la povertà relativa è
rimasta stabile rispetto all’anno prima: 2.651.000 famiglie, per
7.815.000 individui (incidenza percentuale rispettivamente pari al
10,3 e al 12,9 per cento). Ma è soprattutto guardando le cifre della
povertà assoluta che si capisce cosa è successo negli anni della
crisi. Dal 2008 al 2014 il numero di persone in povertà assoluta è
quasi raddoppiato: da 2.113.000 a 4.102.000. Le famiglie nella stessa
condizione sono passate da 937.000 a 1.470.000. Nell’ultimo anno i
numeri Istat registrano una lieve riduzione del numero e
dell’incidenza percentuale delle famiglie povere, ma di entità
così lieve da risultare statisticamente insignificante.
La geografia dei poveri
Se il grande balzo in avanti della
povertà – il più forte, Grecia esclusa, tra tutti i paesi
dell’Unione europea – è in Italia l’eredità più evidente e
importante della crisi, la sua scomposizione ci fa capire chi ha
pagato la grande recessione: giovani, bambini e disoccupati. E
operai, tra i quali il rischio povertà è triplicato, dagli anni
prima della crisi a oggi.
Da questo punto di vista, l’ultimo
anno della recessione (e anche il primo nel quale c’è stata una
manovra di finanza pubblica espansiva, con gli sgravi fiscali alle
famiglie) non ha cambiato il quadro. Per le famiglie, la presenza dei
minori aumenta il rischio di povertà considerevolmente. Guardando
agli individui, l’incidenza della povertà assoluta nella fascia
d’età sotto i 34 anni è dell’8,3 per cento, contro il 4,7 per
cento degli over 65.
Ma in quale modo la grande crisi ha
colpito i poveri? La mancanza di lavoro, ovviamente, è il primo
fattore: tra le persone in cerca di occupazione l’incidenza della
povertà assoluta è salita dal 7-8 per cento degli anni prima della
crisi al 15,7 per cento. Ma è aumentata anche la povertà tra gli
stessi occupati, dal 2 al 5 per cento: segno che, come ha scritto
Chiara Saraceno nel suo ultimo libro, “il lavoro non basta”,
con paghe spesso così precarie e basse da non garantire la
sussistenza.
In particolare, l’incidenza della
povertà tra gli operai, che era sotto il 2 per cento prima della
crisi, è adesso al 9,6 per cento – superiore alla media nazionale
che comprende tutti. È salita la povertà anche tra gli autonomi e
tra gli imprenditori e liberi professionisti: nella nuova geografia
non si salva nessuno, se non i ritirati dal lavoro, i pensionati. Non
perché – salvo alcuni di loro, a piani medi e alti – siano
categoria privilegiata, ma perché godono dell’unico pezzo di
welfare (per ora) universale e garantito, ossia la previdenza
pubblica.
Questi fenomeni sono diffusi un po’
su tutto il territorio, dove però si conferma la storica prevalenza
della povertà nel sud (in regioni come Lombardia, Trentino ed Emilia
Romagna c’è un tasso di povertà molto inferiore) e una tendenza
che solo di recente l’Istat ha messo sotto la lente, dando maggiore
attenzione alle dinamiche territoriali: nel sud la povertà è più
rurale, cioè colpisce nei piccoli centri isolati, mentre nel nord è
più metropolitana.
L’ultimo miglio
Negli ultimi tempi si è abbastanza
diffusa l’abitudine di commentare ogni dato economico come un derby
tra Renzi e il resto del mondo. Rito che ha interessato soprattutto i
dati sull’occupazione, nel monitoraggio frenetico degli effetti del
jobs act e nel proliferare di fonti di produzione dati.
Operazione discutibile, ma quasi impossibile sui numeri della
povertà: che, come si è visto (e come si legge anche nel Rapporto
annuale dell’Inps di recente presentato da Boeri), vengono da
un’eredità pesante della crisi e della struttura del welfare
state italiano, unico tra quelli europei che non prevede uno
strumento universale di tutela contro la povertà. È possibile che i
nuovi dati e la nuova attenzione apriranno il dibattito sui prossimi
temi caldi del fronte politico e sindacale: il reddito minimo (contro
la povertà, o universale?) e il salario minimo (argomento cruciale
visto l’aumento dei working poor, ma temuto dai sindacati
come uno strumento per scardinare la contrattazione collettiva).
Sarebbe bene anche che questi dati
fossero letti alla luce di quelle misure di politica economica che lo
scorso anno sono state effettivamente prese: di fatto, con gli
“ottanta euro” si è avuta una delle manovre più espansive degli
ultimi anni. Che però non ha fatto neanche il solletico al tasso di
povertà, andando a distribuirsi sulle fasce medio-basse, ma comunque
“meno povere”, della società. Anzi, la relazione di Bankitalia
di fine maggio ha notato che in buona parte quell’aiuto è andato
alle famiglie più ricche. Va detto che lo stesso governo non ha mai
“venduto” gli ottanta euro come una misura contro la povertà, ma
per il rilancio dei consumi.
Sta di fatto che nessuno strumento
specifico è stato messo in campo contro la povertà, né di natura
monetaria né in servizi reali. E per il futuro, le parole del
premier fanno supporre che si farà affidamento sulla ripresa, e
sullo sgocciolamento di benessere che questa potrà portare ai piani
più bassi.
“Internazionale”, 15 luglio 2015
Nessun commento:
Posta un commento