Elvira Notari - Una scena dal film "Rovine" |
Considerate il racconto
che segue pensando alla Napoli di oggi, alle sue strade e ai suoi
vicoli; al sempiterno binomio miseria e nobiltà, coniato in teatro
da Eduardo Scarpetta; allo stupore senza possibilità di orientamento
che la città crea in ogni straniero (stranger, termine
inglese per estraneo), se appena mette il naso fuori dal Vesuvio e
dalle cartoline del turismo. La seconda e definitiva vita di Elvira
Giuseppa Coda comincia nel 1902, anno del suo matrimonio con Nicola
Notari, professione fotografo. Alla prima si era affacciata il 13
febbraio 1875, sotto il segno dell’Acquario, in via Garibaldi 50,
Salerno. Diego il nome del padre, commerciante di Cava dei Tirreni;
Agnese Vignes quello della madre, salernitana. Elvira ha venticinque
anni quando, con la famiglia, si trasferisce a Napoli. Il 25 agosto
1902 pronuncia il sì. A gennaio del 1903 nasce Edoardo, il futuro
Gennariello. Nicola possiede grandi doti e conoscenze tecniche. Il
suo laboratorio è specializzato nella colorazione delle pellicole
dei brevissimi film muti che cominciano a circolare a Napoli, le
«filmine», come si è preso a chiamarli dando loro genere
femminile.
Ricorda Edoardo in
un’intervista rilasciata alla scrittrice e documentarista Annabella
Miscuglio: «In quegli anni i film erano sempre a colori. Si dicevano
imbibiti, cioè il nero dell’emulsione diventava marrone o azzurro
secondo i bagni colorati nei quali veniva messa la pellicola dopo lo
sviluppo. Oppure era colorato il supporto, che poteva essere
arancione, verde o blu. Le scene di notte, girate sempre in pieno
sole perché altrimenti la pellicola non s’impressionava, si
stampavano su un supporto azzurro scuro e l’effetto in proiezione
era quello di una ripresa notturna… L’amore era rosso e la
gelosia era verde o viola. Ma il lavoro che faceva mio padre e che
poi ho fatto anch’io fino agli anni ’30 era più delicato.
Coloravamo con un pennellino, guardando attraverso un contafili, ogni
particolare del fotogramma». Elvira, entrata nell’attività del
laboratorio, dà subito saggio delle sue capacità organizzative.
Ricorda di nuovo Eduardo: «Mia madre aveva semplificato il lavoro
con una piccola asse di legno sulla quale c’erano quattro chiodini
per ogni fotogramma. Fissata la pellicola, lei ricaricava un
mascherino di carta che veniva punzonato con una spugnetta imbevuta
di colore». Risparmio di tempo e denaro.
Nel 1903, Nicola acquista
una cinepresa in legno, autonomia dieci metri di pellicola. Qualche
mese dopo gira una filmina che gli regala fama, La cattura del
pazzo di Bagnoli. È un segno appena abbozzato della differenza
tra il cinema che si farà a Torino e a Napoli, sua unica
concorrente. Roma entrerà nei giochi con l’avvento del fascismo.
Mentre nel capoluogo piemontese nasce il kolossal, i cui prodotti
verranno comprati persino dagli Stati Uniti, Napoli sceglie il genere
popolare. Storie di passioni e gelosie fatali, di crimini e morte, di
drammi e tragedie, prese a prestito dalla vita di ogni giorno. Nel
1906, il sodalizio Notari inaugura il repertorio degli ’Arrivederci
e Grazie’, aprendo una sala nel quartiere di San Giovanni a
Teduccio. Caffè Chantant e locali di varietà erano allora
considerati luoghi di divertimento plebeo, snobbati dalla Napoli
Bene. A fine serata, l’orchestra suonava un brano che il pubblico
accompagnava cantando «Iatevenne, iatevenne, ’o spettaculo è
fernuto». Su quelle note si proiettava una filmina colorata, detta,
appunto, Arrivederci e Grazie: fatti di cronaca, scenette,
immagini oleografiche. Nello stesso periodo, Nicola riceve dalla
Partenope Film dei fratelli Troncone l’incarico di colorare Le
mille e una notte. Un incarico importante, anche sotto il profilo
economico. Per i Notari è arrivato il momento di approdare
ufficialmente al cinema. La Dora Films, dal nome della secondogenita
della coppia, apre i battenti nel 1912. Leggenda vuole, ma molto in
questa storia è circondato dall’aura di un’incertezza figlia
dell’oblio, che Elvira abbia sintetizzato i suoi propositi in una
frase «Simm’e Napule e avimma fa ’o cinema de’ napulitane!».
Dentro una macchina
presa, questo significa attingere i soggetti dalla ’nera’ e dalla
‘bianca’ della stampa, dai fogliettoni letterari più seguiti sui
giornali, dalle canzoni di maggior successo, per ambientarli nelle
aule dei tribunali, nei commissariati, nelle questure, nei quartieri,
nei bassi. Vicende sovente forti, di cui sono protagonisti fanciulle
inguaiate e abbandonate, uomini assassini per onore, figli lasciati a
se stessi sulla strada, delitti passionali, regolamenti di conti,
malviventi divenuti tali giocoforza. È un teatro della povertà, tra
le cui quinte la Dora Films si muove mettendo in scena il contrasto
dei sentimenti e delle emozioni, la relatività del torto e della
ragione; lasciando che sia lo spettatore a decidere chi sia il buono
o il cattivo, il (la) colpevole e l’innocente. Elvira, con oltre
cento cortometraggi e una sessantina di film, sarà la prima autrice
e donna regista del cinema muto; antesignana, forse involontaria, del
neorealismo, non solo per il carattere dei suoi soggetti, ma anche,
ad esempio, per la scelta di veri scugnizzi come attori di molte sue
opere.
La prima, Guerra
italo-turca tra scugnizzi napoletani, 1912, ambientata nel
quartiere Stella, sede degli studi cinematografici della Dora Films,
vede la troupe assalita dalle madri dei bambini, inferocite perché i
figli si sono calati troppo realisticamente nella parte. La genialità
di Notari si estende alle proiezioni nelle sale. Lo conferma il
figlio Edoardo «Un’altra caratteristica era la musica che
accompagnava il film. Noi fummo i primi a mettere un cantante sotto
lo schermo, che si sincronizzava con le immagini. Nei primi tempi il
proiettore, ancora a manovella, facilitava il compito del cantante,
poiché era possibile rallentare o accelerare leggermente la
proiezione. L’operatore di cabina, in pratica, era come se suonasse
insieme all’orchestra. Non abbiamo mai fatto ricorso all’espediente
di sovrapporre i versi della canzone alle scene, come altri facevano,
per dare l’attacco al cantante. I nostri film erano letteralmente
misurati sul tempo della canzone».
Elvira sa indossare i
panni di manager, organizzatrice, sceneggiatrice, contabile, cuoca
sul set. L’impresa ha impronta familiare, ma guarda lontano.
Edoardo diventa primo attore, con il nome di Gennariello, quando La
Dora inaugura, nel 1919, il filone dei film — sceneggiata. Se altri
si erano messi sulla stessa pista, i Notari, soprattutto Elvira,
comprendono in anticipo che il film — sceneggiata può avere un
florido mercato dall’altra parte dell’Oceano, terra di emigrati
italiani. Il meccanismo funziona grazie a due elementi base, la
ripetitività delle trame e la familiarità dei personaggi, cui si
aggiunge la celebrità del brano musicale. Il primo elemento propone
a turno il detenuto che torna libero, gli scontri tra bande a colpi
di coltello, il furto, l’intrigo sentimentale torbido, la serenata
romantica o straziata di dolore.… Il secondo si basa sui gesti, sui
comportamenti, sull’aspetto fisico, insomma sullo stereotipo
dell’umile figlio del Sud. Edoardo/Gennariello li incarna alla
perfezione: corporatura esile, occhi neri e profondi, capelli folti e
scuri. Il lieto fine è quasi sempre garantito, dopo un fiume di
lacrime in cui nuota l’incertezza degli eventi. Insieme a filmine
di feste popolari e matrimoni, i film-sceneggiata partono per
l’America che Elvira aveva scoperto. E vendono oltre ogni
aspettativa. Nel 1924 verrà fondata la Gennariello Film.
Tutto ciò potrebbe
indurre a sospettare nei Notari un certo cinismo commerciale. Se non
v’è dubbio che per loro il business sia obbiettivo principe,
tuttavia il lavoro di Elvira regista e scrittrice la coinvolge
totalmente. La sua penna sulla carta e il suo occhio dietro la
macchina da presa sanno identificarsi con la realtà quotidiana della
gente, la comprendono. E la gente risponde. Davanti alle sale di
Napoli si formano code interminabili, i giorni di programmazione si
allungano per poter soddisfare un pubblico assetato di storie nelle
quali si riconosce È il caso di ’A legge, 1920. Nel periodo di
massimo fulgore, la censura comincia a stringere le maglie attraverso
le quali passa il nulla osta alla proiezione di un film. Quelli della
Dora sono considerati offensivi nei confronti della città, poiché
ne avallano un’immagine di miseria, delinquenza, sporcizia che non
corrisponde, stando all’ipocrisia dei burocrati governativi, allo
sforzo di emancipazione della città. I Notari vanno avanti per la
loro strada, senza ascoltare i richiami sempre più duri e frequenti
dopo l’avvento del regime fascista, che esercita in vari modi la
censura e si arroga il diritto della lettura preventiva del copione.
Per quanto riguarda i film della Dora impone didascalie in italiano
al posto di quelle in dialetto; Carcere, 1923, tratto dalla
canzone di Libero Bovio, viene ridotto da 1286 a 919 metri e il
titolo diventa Sotto san Francesco; stessa sorte subisce
Fantasia ‘e surdate, del 1927.
Nonostante questo, le
sale registrano il pieno ogni volta che viene proiettato un film
della Dora o della Gennariello. Nel 1928, la Commissione Censura
invia ai Notari una circolare che di fatto impone la chiusura
dell’attività «Considerato che siffatti film a base di
posteggiatori, pezzenti, scugnizzi, di vicoli sporchi, di stracci e
di gente dedita al dolce far niente, sono una calunnia per una
popolazione che pur lavora e cerca di elevarsi nel tono di vita
sociale e materiale che il regime imprime al paese; considerato per
altro che siffatti film sono eseguiti con criteri privi di
qualsivoglia senso artistico, indegni della bellezza che la natura ha
prodigato alla terra di Napoli, è stato deciso di negarle in via di
massima, l’approvazione dei film che persistono su circostanze che
offendono la dignità di Napoli e l’intera regione».
Il 1930 è l’anno della
parola fine. Qualcuno ha affermato che la scelta di Elvira e Nicola
fu influenzata in parte dall’avvento del cinema sonoro. Falso,
basti pensare alla ‘sonorizzazione’ del muto attraverso la
musica. Il sonoro, semmai, avrebbe contribuito ad aumentare la
suggestione dei film prodotti. Il nome di Elvira comparirà nel 1942,
tra gli sfollati di Napoli durante la Seconda Guerra Mondiale. È
tornata da tempo nella casa paterna, a Cava dei Tirreni, dove la
raggiungono Nicola ed Edoardo. Elvira muore il 17 luglio del 1946.
Marito e figlio, dopo un periodo a Napoli, vanno a Roma. Qui, nel
1955, il cuore di Nicola si ferma, e qui Eduardo resta fino al 1963,
scegliendo poi Bologna per il suo lavoro di distributore
cinematografico. Saluterà il grande schermo e la vita il 27 gennaio
del 1983. Soltanto tre degli oltre 160 titoli firmati dalla regista
sono arrivati a noi: ’A Santanotte (1922), ‘E
piccerella (1922), Fantasia ’e surdate (1927), esempi
eccellenti del film-sceneggiata. La trama di 'A Santanotte ha
al centro Nanninella, ostinata nel frequentare l’amante Tore,
contro il parere e le minacce del padre; in ‘E piccerella,
un omonimo Tore ruba alla madre malata i gioielli, e con il denaro
ricavato compra regali di lusso per l’avida amante Margaretella;
denaro al posto dei gioielli è il bottino del furto di Gennariello,
sempre ai danni della madre, sana ma anziana assai. The end
comune la vendetta finale. Tremenda, ovviamente.
A questo punto, Licio, si
impone una domanda: perché un documentario su Elvira Notari? «Sono
rimasto affascinato da un cinema che sapeva soddisfare la pancia
della gente e se ne infischiava di risultare ostico al palato degli
intellettuali. Matilde Serao si schierò contro i film di Elvira, non
le importava che fosse l’unica donna in un mestiere e in un mondo
appannaggio degli uomini. Elvira, poi, è stata una donna del Sud
capace di affrancarsi da un ruolo sociale a dir poco secondario.
Terzo sprone il desiderio di riscattare una storia e una persona
dimenticate, o a dir poco sottovalutate». Principe De Curtis in arte
Totò, perdoni l’incomodo, ma c’è ancora bisogno di lei per
parafrasare una sua celebre battuta davanti alla macchina da presa di
Mario Mattioli in Signori si nasce, 1960 «Registi si nasce, e
io lo nacqui… modestamente». Parafrasi che ben si addice ad
Elvira.
Alias il manifesto, 27
giugno 2015
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