Jean Lacouture, per
più di quattro anni lei, che non è gollista, ha vissuto con de
Gaulle: ha ricostruito la sua vita, dalla nascita alla morte, e
adesso l'imponente biografia in tre volumi,
duemilaquattrocentocinquanta pagine, edita dal Seuil, troneggia su
una montagna di libri, più di ottocento, dedicati al generale.
Gollisti e non gollisti considerano, con ragione, la sua opera
magistrale. E' un po' come se un ateo avesse scritto la storia di
Gesù, e questa storia venisse adottata quasi senza riserve da
credenti e non credenti, chiese cristiane comprese. In quei quattro
anni ha finito con l'innamorarsi di de Gaulle?
Mi ha interessato l'uomo
che affronta la politica come un'opera d'arte, che cerca di fare
delle sue imprese una tragedia di Corneille. De Gaulle è al tempo
stesso un protagonista della storia e uno storico. Trasforma le sue
azioni in tragedie, a volte anche in melodrammi, e poi le presenta al
pubblico come facevano i grandi cronisti che nel Medio Evo
accompagnavano i sovrani. Come Philippe Commynes, oppure sire de
Joinville. Fa della sua vita politica un'opera d'arte illustrandola
con pennellate mitologiche destinate a colpire le fantasie e a
imporre un'interpretazione storica favorevole.
Prima del de Gaulle,
lei ha scritto le biografie di Malraux, di Mauriac, di Léon Blum, di
Mendès France, tutti uomini con cui aveva alcune affinità
intellettuali o politiche, che le consentivano ritratti intimistici.
E poi i tre sorprendenti volumi sul Commandeur, che domina ancora,
sovrasta la Francia sedici anni dopo la morte. Il mostro sacro, di
cui lei assapora il talento di grande attore, di cui descrive i gesti
enormi ed enfatici, le mimiche da boulevard du Crime, senza mai
scivolare nell'agiografia, ma anche con evidente passione. Tre
ritratti distinti del generale: quello del grande patriota
cinquantenne, un po' avventuriero, un po' mago se non istrione, che
riesce nel 44 a trasformare la disfatta francese in una vittoria, a
legittimare l'illegalità; poi l'uomo politico sessantenne che fonda
la Quinta Repubblica; infine il sovrano sbeffeggiato dai giovani
parigini, che dopo avere ristabilito la sua autorità se ne va con
dignità alla vigilia degli ottant'anni. Cosa l'ha spinta ad
occuparsi di questo monumento, che aveva osservato con un certo
distacco quand'era ancora in vita?
Vent'anni prima di
cominciare la biografia di de Gaulle avevo scritto un libro
abbastanza antigollista, sarcastico nei confronti del generale
vivente. Mi sono lanciato nella nuova impresa per ragioni che
definirei sportive.
Perché era difficile?
Perché per uno storico
era come per un ciclista il Giro di Francia, o per un tennista il
campionato di Wimbledon. Se ci riesci, mi sono detto, significa che
sei un campione. Le altre biografie che ho scritto riguardano, è
vero, uomini dei quali ero complice. Ed era più facile o più
difficile, non so. De Gaulle è un personaggio diversissimo da me, è
uno dei grandi uomini della storia di Francia, del nostro tempo. Come
Napoleone o Clemenceau, come Churchill o Roosevelt. Ero preoccupato
perché l'assenza di simpatia poteva privare di calore il mio libro.
E
poi cosa è accaduto?
L'ammiravo perché ci ha
evitato la guerra civile alla Liberazione e più tardi durante la
guerra d'Algeria. Ma è stata la sua corrispondenza che mi ha fatto
scoprire un uomo diverso da quel che pensavo. Un personaggio gentile,
sensibile con i parenti, gli amici, con la moglie soprattutto. Una
vera arte di vivere, secentesca, settecentesca. Dall'epistolario
emerge un'attenzione per il prossimo che mi ha sedotto. Ed è così
che ho cominciato ad avere con quel vecchio signore defunto rapporti
affettuosi. Nella biografia affiora spesso il carattere avventuroso
di de Gaulle. La sua è una vita segnata da fallimenti dolorosi. E'
un'esistenza che sollecita spesso la simpatia. Perché egli incontra
costantemente ostacoli, è sempre minacciato, all'interno e
all'esterno della Francia. Anche per questo si è conquistati dal
personaggio che passa da una prova all'altra, come i protagonisti dei
romanzi picareschi. Ora sta per essere aggredito dai briganti, ora
sta per essere avvelenato, ora la sua diligenza sta per essere
attaccata. Ci sono sempre imboscate, rischi. E' un po' come nel film
di Ettore Scola in cui si racconta la fuga di Varenne. E noi siamo
sulla carrozza. Io perlomeno ci sono salito ricostruendo la sua vita.
La più grande avventura di de Gaulle è quella del 40, quando lancia
l'appello del 18 giugno a una Francia che ha accettato la sconfitta e
segue il maresciallo Pétain, al quale il Parlamento ha delegato i
poteri. Può fare la fine di un traditore, di un disertore; grazie a
Dio diventa invece il salvatore della Francia. Ma poi corre anche il
rischio di essere dimenticato dai francesi. Nel 1956, due anni prima
di ritornare al potere, soltanto un cittadino su cento pensa che gli
possano essere affidate responsabilità politiche importanti. E
invece nel 58 è di nuovo in sella. E ricomincia l' avventura.
Durante il conflitto algerino corre più volte il pericolo di essere
assassinato. Se i generali ribelli d'Algeri avessero vinto, de Gaulle
sarebbe finito davanti all' Alta Corte di Giustizia.
E poi arriva il 68, la
rivolta di maggio. De Gaulle è stato autoritario e democratico, un
miscuglio...
E' un personaggio bizzarro. Bislacco. Doveva vivere
ai tempi della Crociate. Una specie di Riccardo Cuor di Leone o di
Federico Barbarossa. Un uomo dotato di un'intelligenza superiore. Un
barone medievale che ha il senso della modernità. Capisce, negli
anni Trenta, come colonnello, la necessità di prepararsi a una
guerra motorizzata, di carri armati. E nessuno l'ascolta. Più tardi,
ritornato al potere, si adegua all'epoca nucleare. Promuove una nuova
industrializzazione della Francia. Ma era più incline
all'autoritarismo o alla democrazia? Il suo percorso non è
reazionario. Le istituzioni che dà alla Francia, quelle della Quinta
Repubblica, sono efficaci, adeguate ai tempi, democratiche. Ma egli è
ambiguo, sempre ambiguo. Nel mio libro lo chiamo il Connestabile, che
è un titolo del Quattordicesimo, del Quindicesimo secolo. E' un
personaggio che si ispira a un' etica e a un'estetica molto lontane.
Io lo vedo come un uomo dell'Occidente. Non lo trovo molto francese.
Anche se ci sono pagine eccezionali nella nostra storia, noi francesi
siamo dei moderati. Lui invece ama la dismisura. I francesi non hanno
il senso dell'epopea. Nella nostra letteratura non abbiamo né
Shakespeare, né Dante, né Cervantes. E' vero, c'è Corneille, ma il
nostro genio è nel Settecento, è in quel secolo, il secolo di
Voltaire, che esplode il nostro genio critico, ironico. I nostri
poemi sono i saggi. De Gaulle ha scritto dei saggi, ma è un uomo da
epopea. E' un po' Don Chisciotte. Sembra uscito da Cervantes. La sua
ispanicità è evidente. Con un amico spagnolo ci siamo divertiti a
parlare di questo aspetto. Abbiamo fatto un paragone tra Franco e de
Gaulle. A me irrita un po' questo gioco, perché i due uomini non
hanno la stessa statura. De Gaulle è un presidente-generale
democratico, Franco un generale-dittatore. Ma direi che Franco è la
caricatura del borghese francese, e de Gaulle la caricatura di un
hidalgo spagnolo.
E' divertente questo
gioco.
Lo è, ed è quasi
esatto. Non credo sul serio che de Gaulle ci assomigli molto. E'
stato il nostro capo, ci ha reso tanti enormi servigi storici, ci ha
drogati, gonfiati in modo smisurato.... Drogati? La Francia è troppo
umiliata quando la raccoglie a pezzi nel 1944, alla Liberazione. Ha
bisogno di essere rimontata. E' la stessa cosa nel 58, nel pieno del
dramma algerino. De Gaulle deve ridarci coraggio. Quindi quella droga
è salutare. Lui a volte esagera nella dose, questo è vero. Ci dà
qualche pedata nel sedere per spingerci avanti, perché ci teniamo
dritti, impettiti davanti alla società internazionale. Il più delle
volte quei calci nel culo sono necessari; talvolta sono troppo
violenti. I popoli hanno bisogno di sogni, di epopee, di miti, entro
certi limiti. Abusarne è pericoloso, non averne è deprimente.
Alcuni francesi si scandalizzano quando dico queste cose. Ma io sono
un uomo del Sud-Ovest, di Bordeaux, e la Francia ha tante anime. La
mia Francia non è quella di de Gaulle. Sono contento che abbia
giocato per noi, ma era un giocatore esterno che ha giocato per la
nostra squadra.
Lei insiste sul
carattere ispanico di de Gaulle, ma lui era un uomo del Nord in
alcuni risvolti del suo carattere.
Sì, era nato nelle
Fiandre. Era uno spagnolo e un uomo delle Fiandre. Un uomo
dell'impero di Carlo Quinto.
E questa unanimità di
oggi per de Gaulle? Questo consenso acritico sul personaggio?
C'è un po' di nostalgia
per il paradiso perduto, per un'epoca in cui la Francia sognava di
essere più forte, più rispettata... È il ricordo di un sogno che
non impegna a nulla. Un sogno di grandezza. E poi ce n' è uno più
realistico di ricordi: quello degli anni Sessanta, tra il 62, la fine
della guerra d'Algeria, e il 68. Anni di crescita economica e di
pace. I redditi crescono e nessun francese muore più in Indocina o
in Algeria. E poi ci sono le nuove istituzioni che mettono fine
all'instabilità della Quarta Repubblica. Ordine, prosperità, sogno.
Ma se poi si studiano in dettaglio i comportamenti di de Gaulle, il
consenso, l'unanimità si disgrega molto presto. Un grande
occidentale dunque, il suo de Gaulle, un carattere ispanico, un
personaggio che aveva una grande idea della Francia, del suo ruolo in
Europa e nel mondo. Ma un europeista tiepido. Quando de Gaulle
ritorna al potere, nel 58, l'Europa sta per compiere notevoli
progressi. Ma di natura diversa da quelli invocati dai padri
fondatori, che immaginavano gli Stati Uniti d' Europa. Gli Stati
schiacciati dalla guerra, impauriti dal fantasma di Stalin, volevano
unirsi, coalizzarsi. Ma al momento della prosperità, che esplode
nei Sessanta, riaffiorano le vecchie fierezze nazionali. La Comunità
avanza ma su un terreno che può condurre, al massimo, verso il
miraggio di una confederazione. De Gaulle è realista. La sua Europa
delle patrie corrisponde alla nuova situazione. Ma il realismo è
guastato dal francocentrismo, dal nazionalismo. Vuole allineare
l'Europa sulla Francia. E per una volta lo storico de Gaulle non
tiene conto della storia e dei dati geografici: dimentica che per un
olandese, per un belga, ed anche per un tedesco o un italiano, il
peso degli stati maggiori politici e militari americani è meno
sentito, meno irritante dei tentativi in qualche modo egemonici di
una potenza media come la Francia. Una potenza media vicina, carica
di riferimenti storici che si chiamano Richelieu, Luigi XIV,
Napoleone o Poincaré.
Lei è il biografo di
Malraux e di de Gaulle. Come spiega l'amicizia tra due uomini tanto
diversi?
Li ha avvicinati la
passione per la storia. Entrambi avevano il sentimento che la storia
di Francia è un blocco, è un tutto che va da San Bernardo a
Saint-Just. E questa non è un' idea diffusa nel nostro paese.
L'Ancien Régime, l'89, la Comune, Clemenceau esprimono una
continuità, dicono Malraux e de Gaulle. Questa non è la tesi
tradizionale, che tende piuttosto a tagliare la storia di Francia a
fette.
Malraux era stato un
rivoluzionario, de Gaulle non lo è mai stato.
E' vero che Malraux sposa
a un certo punto la causa rivoluzionaria, dal 32 al 40. Ma prima è
stato un avventuriero. Ha scritto la prefazione a un libro di Charles
Maurras. È stato zigzagante. Ed è un ribelle. Un po' come de
Gaulle, che, quando Malraux è rivoluzionario, si oppone a tutte le
scuole militari, a tutte le idee dominanti negli stati maggiori. Ci
sono molte cose in comune nei due personaggi. E poi sono stati
chiaramente antifascisti. Malraux in modo effervescente, de Gaulle
nella sua corrispondenza. E poi entrambi nell' azione. De Gaulle non
ama che i civili indossino la divisa militare, come accade nella
Germania nazista e nell' Italia fascista. E più generalmente non ama
le dittature. Inoltre Malraux è un letterato appassionato
dell'azione, e de Gaulle è un uomo d'azione appassionato di
letteratura. C' è una forte convergenza. Sono complementari. Ma si
deve aggiungere che Malraux non ha alcuna influenza su de Gaulle.
“la Repubblica”, 23
novembre 1986
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