«Che altro è, Signore,
il tuo vedere, quando mi guardi con occhi pietosi, che il mio
vederti? Vedendomi, mi concedi di poterti vedere, tu che sei il Dio
nascosto. Nessuno ti può vedere, tu che sei il Dio nascosto. Nessuno
ti può vedere, se non gli concedi di esser visto. Il tuo esser visto
è il tuo vedere che ti vede. Vedo in questa tua immagine quanto tu
ti sei abbassato, Signore, per mostrare il tuo volto a tutti quelli
che ti cercano. Mai chiudi gli occhi; mai li distogli e, anche se mi
distolgo io da te quando mi volgo completamente ad altro, tu non
muti, per questo, né gli occhi, né lo sguardo».
È l'anno 1453;
quell'anno, il 29 maggio, Costantinopoli cadeva sotto i colpi dei
cannoni ungheresi di Maometto II e Niccolò da Cusa scriveva la sua
riflessione sullo sguardo divino nel De visione dei
ispirandosi al Polittico di Gand del pittore fiammingo Rogier
van der Weyden. In questa opera lo sguardo del Cristo sembra seguire
lo spettatore ovunque, fin nei recessi della sua stessa anima. Per il
mistico Cusano, come per Meister Eckhart, Dio è colui che tutto vede
ma che, proprio per questo, deve a sua volta essere visto: la
creazione ri-guarda il Creatore: «L'occhio con il quale io guardo
Dio, è lo stesso occhio con il quale Dio guarda me; il mio occhio e
quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere, e riconoscere
ed amare».
Per Eckhart dunque,
vedere è sempre Vedere l'Uno nell'uno, cioè attivare un gioco di
sguardi perspicui che riflette l'Uno nel molteplice ed il molteplice
nell'Uno. Anche per Cusano è la visione che dispiega l'Essere sino
ai suoi limiti essenziali facendolo tornare all'Unità primigenia con
il Non Creato, l'Universale indifferenziato al di là del tempo e
dello spazio, immerso nell'eternità del vuoto essenziale.
Il muro del
paradiso
E allora, cosa separa
ogni singolo sguardo da questa visione ricongiungente? Perché pur
camminando ogni giorno nell'anima del Mondo noi non ne percepiamo la
bellezza? Quale siepe dell'infinito «dell'ultimo orizzonte il guardo
esclude»? Cusano avanza un'immagine suggestiva: è il «Muro del
Paradiso» che nasconde Dio alla vista degli uomini; eretto dalla
coincidenza dei contrari, i suoi cancelli sono difesi dal più alto
spirito della Ragione, che ne impedisce l'accesso sinché non viene
sopraffatto (De visione Dei 9,11).
Nelle Argonautiche
di Apollonio Rodio, Giasone deve condurre la nave oltre le rocce
Simplegadi che, sbattendo l'una contro l'altra, ostruivano l'accesso
ai Dardanelli: anch'esse metafora materiale delle dualità che
impediscono il fluire della vita che non sia in grado di ricomporle.
Sono dunque le coppie dei
contrari (vita-morte, essere-non essere, bello-brutto,
buono-cattivo...) che, legandoci ai fenomeni di una realtà mutevole,
impediscono di scorgere l'Unità tra tutte le manifestazioni del
Mondo, e quindi spingono l'essere ad azioni distruttive, o di difesa,
a seconda di circostanze che dovremmo invece poter vedere come parti
di un Tutto che ci ri-comprende.
Ma esiste, da sempre, una
figura simbolica, un monomito, che ipostatizza il superamento dei
contrari e ci rimanda così, col suo significato, alla relazione
originaria tra creatore e creazione: l'androgino.
La sua figura nasce dai
miti cosmogonici che si ritrovano in tutte le culture: quando
all'inizio dei tempi il cielo e la terra erano una cosa sola e fu
necessario separarli per creare il mondo. Essi erano maschio e
femmina appunto, intimamente uniti. Ritroviamo questo racconto dalla
Teogonia di Esiodo, all'Edda nordica passando per le
cosmogonie egiziane e babilonesi sino a quelle polinesiane.
Nell'interpretazione
della Genesi data dal Midrash Rabba (8,1) l'androgino è
l'essere originariamente creato: «Dio creò l'umanità a sua
immagine, ad immagine di Dio egli la creò; maschio e femmina egli la
creò». Alla domanda su quale fosse questa immagine divina, la
scuola rabbinica risponde chiaramente: era una immagine androgina.
Quella «e» che congiunge maschio e femmina, esprime infatti una
vera e propria compresenza tra la parte maschile e quella femminile,
che solo in seguito verranno separati dando vita alla dualità
primigenia che la relazione erotica cercherà sempre di ricomporre.
Al seguito di questa
scissione seguirono tutte le altre che cagionarono la cacciata dal
Paradiso e la conseguente erezione di quel «muro dei contrari» che
ci esclude dalla vista del Volto: il nostro stesso volto originario.
Eros il primo dio
Le divinità egiziane,
prima di quelle greche ed ebraiche, furono ermafrodite: lo è Hapi,
il dio del Nilo, l'altra è Mut, la Grande Madre dotata insieme di
organi sessuali maschili e femminili, rappresentazione della natura
naturans. Queste due divinità rinviano al primordiale dio solare
Atum che, mediante masturbazione, o semplicemente sputando, crea la
prima coppia della cosiddetta Grande Enneade, Nut e Geb, cielo e
terra. Il mito narra che se ne stavano sempre uniti e impedivano alla
vita di germogliare, così Atum ordinò di dividerli.
Secoli dopo, Platone, nel
Convivio (178), fa sostenere a Fedro che Eros: «È
annoverato tra i più antichi dei, e questo è un onore. Di questa
antichità abbiamo una prova: Eros non ha né padre né madre, e
nessuno, né in poesia né in prosa, glielo ha mai attribuito». E
dunque anche lui è androgino e, come il Dio della Bibbia, crea una
razza di creature a lui pari che poi, per volere di Zeus,
padre-padrone degli dei e degli uomini, saranno ridotti ai due generi
così come li conosciamo.
Nello stesso dialogo,
infatti, il filosofo fa narrare ad Aristofane questo mito: «Nei
tempi andati la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto
differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come
adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva
entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a
noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere
che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che
della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto
al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. [...] Finivano con
l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era
immenso. Così attaccarono gli dei e quel che narra Omero di Efialte
e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la
scalata al cielo. Allora Zeus e gli altri dei si domandarono quale
partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano
certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come
avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato
perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli
uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza.
Dopo aver laboriosamente
riflettuto, Zeus ebbe un'idea. Io credo — disse — che abbiamo un
mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo
che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli.
Adesso — disse — io taglierò ciascuno di essi in due, così
ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro
vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Detto questo, si
mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per
conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva
tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del
collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre
sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più
tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. [...]
Quando dunque gli uomini
primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti
desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano
l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere.
[...] E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da
pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi
della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla
parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro,
ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi
nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli
uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la
donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un
uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e
la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse
incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà
nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro
occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza.
E così evidentemente sin
da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore
gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica
natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la
natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere
umano completo originario. [...] Io però parlo in generale degli
uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere
felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri
l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo».
Questo concetto lo
troviamo anche nel Cantico dei Cantici, evidenziato dal
cabalista Giuseppe Abramo, nell'introduzione del suo pregevole
studio. Dopo aver ricordato che nel Talmud è detto che «Tutto
ciò che Dio ha creato in questo mondo, l'ha creato maschio e
femmina», osserva: «Questo correlarsi di parti, questa affermazione
che la polarità essenziale di tutta l'esistenza è quella
maschile-femminile, nella Cabala è contenuta nelle parole,
peraltro prese a prestito dal Talmud, Due che è quattro. Ci
troviamo di fronte ad un sistema nel quale l'Uno diventa due, che in
realtà è quattro, che si unisce diventando due, il cui scopo è di
rivelare l'Uno».
Anche nello Zohar, il
Libro dello splendore, il testo cabalistico più misterioso, si
dice che «ogni anima e ogni spirito, prima di penetrare in questo
mondo, sono composti da un maschio ed una femmina uniti in un solo
essere».
Ermafrodito e
Dioniso
Ovidio, nelle sue
Metamorfosi (Libro IV), narra il mito della nascita di un
altro personaggio che discenderebbe direttamente da questa concezione
platonica del genere umano; di un essere cioè appartenente ad
entrambi i generi, scaturito dalla relazione tra una Ninfa ed il
bellissimo figlio di Ermes ed Afrodite. La storia ci dice che questo
fanciullo, oramai sedicenne, era solito, come Narciso, avventurarsi
nei boschi popolati dalle Ninfe. E fu una di queste, Salmace, che
vedendolo nudo mentre si bagnava nella sua fonte, si infiammò
d'amore e lo volle con sé per sempre. Così fuse il suo corpo a
quello del ragazzo trasformandolo in un essere che aveva le
caratteristiche di entrambi: Ermafrodito.
Anche Tiresia, l'indovino
che aveva risposto incautamente alla domanda di Zeus e Giunone su
chi, tra il maschio e la femmina, godesse di più nell'atto sessuale,
svelando il segreto della predominanza femminile — così venendo
punito dalla dea con la cecità e ricompensato da Zeus con la
preveggenza — era stato in grado di dire il vero poiché nella sua
vita aveva vissuto sia come uomo sia come donna.
Ma esiste certamente
un'altra divinità che incarna questa ambivalenza positiva,simbolo
delle due forze che si ricongiungono per dare alla Vita la
possibilità di fare il suo corso attraverso il tempo: Dioniso.
Figlio di Semele, donna mortale, e di Zeus per la mitologia greca, il
dio che viene dalla Tracia altro non è, in effetto, che Shiva
stesso, il Principio androgino di distruzione e ricostruzione del
Mondo. Dioniso è una divinità decisamente trans-gender,
passa cioè da maschio a femmina, ma compie anche il cammino
contrario: dal femminile al maschile; usando una metafora chimica
riferita agli isomeri possiamo dire che è anche cis-gender.
Tutta la sua vita è
circondata dalle donne, tanto che viene accusato di essere effeminato
quanto da esse è influenzato. Dioniso è, in realtà, l'anello di
congiunzione tra la figura della Grande Dea mediterranea, la Potnia
minoica dalla quale tutto emanava, e il sopravanzante patriarcato
greco simboleggiato dalla regalità di Zeus sulle divinità femminile
del panteon classico. La sua androginia non è dunque tanto un dato
permanente come fatto anatomico, quanto un modo d'essere sociale e
psicologico che rende perfettamente ante litteram la
differenza tra sesso e genere.
Egli è quindi
transgender nel senso più attuale del termine, possiede cioè
al tempo stesso le caratteristiche culturali e cultuali di entrambi i
sessi. Più di ogni altro storico delle religioni Bachofen ha
insistito nel configurare Dioniso come il «dio delle donne»,
persuasore e seduttore dell'animo femminile. Il principio di vitalità
appassionata simboleggiato dal dio della «Zoè indistruttibile»,
come lo definisce Kerenyi è, per Bachofen, essenzialmente femminile,
come ci ricorda il compianto Furio Jesi nel suo Letteratura e
Mito.
Da vero simbolo
transgender Dioniso stesso dissolve le forme: nulla di fisso
deve esistere tra il maschile ed il femminile; il suo nome, infatti,
tra i tanti del dio «della vita indistruttibile», è anche quello
di Lysios, colui che scioglie: e lysis significa, appunto,
scioglimento, dissoluzione, liberazione, transito ed anche quel
districarsi dell'intreccio che caratterizza la fine della Tragedia,
in origine il ciclo della nascita morte e rinascita del dio, come ci
ricorda Nietzsche.
«Tutto è Dioniso»
afferma Schelling nella Filosofia della rivelazione,
riecheggiando, di proposito, quel «Tutto è Shiva», principio
dell'Induismo. Ma la figura del dio che ha molti nomi, e che suscita
in sé attraverso questi nomi molti dei, è qui soprattutto Zagreus:
il Dioniso orfico, che muore e rinasce, portando con sé, nella
morte, il mondo passato e promettendo di essere, nella sua rinascita,
la possibilità del mondo venturo. Dioniso, infatti, è esso stesso
passaggio e trasfigurazione, pluralità e unità del divino.
Dioniso è dunque un dio
di passaggio, in tutti i sensi, di tutti i sensi; un dio sinestetico
— come le droghe psichedeliche — nel quale il delicato ed
instabile equilibrio tra razionale ed irrazionale, tra vita e morte,
tra natura e cultura, tra Eros e Thanatos, tra io e mondo, maschile e
femminile, ordine e caos, sarebbe stato superato e umiliato dalle
nuove religiosità monoteiste, gerarchiche e patriarcali, più
adattea staccare completamente l'uomo dalla comune appartenenza
all'anima mundi e condurlo così verso quell'antropocentrismo ottuso
e totalizzante che viviamo oggi: quando lo spreco sembra l'unica
necessità, e il misticismo un retaggio ancora in odore di eresia.
Questo punto mediano, ma
non mediato, questa particolarissima forma di conjunctio
oppositorum, possiamo definirla col termine «dionisiaco».
Dionisiaco è dunque un
polisema che comprende sia il «chi» della divinità alla quale si
riferisce, come descritta da Nietzsche ad esempio in opposizione
all'«apollineo», sia il «cosa» sensazionale che può ancora oggi
vivere una semplice persona ebbra di vino. Ognuno di noi cerca e vive
momenti dionisiaci, la cui determinante essenziale altro non è che
la percezione immediata ed istantanea di tutti gli opposti che la
vita contiene: un precipitarsi nella totalità dell'essere senza
frapposizioni di sorta; ed è il suo bimorfismo sessuale e sessuato a
permetterlo.
Lungo la linea del tempo,
l'Arte che ha più di ogni altra, in Occidente ma non solo, cercato
di riprodurre fattivamente questa condizione, è certamente
l'Alchimia che, con la sua ricerca dell'androgino ermetico, si
propone di condurre l'esperienza dell'operatore all'ineffabile
coagulo della materia e dello spirito. Il Rebis filosofico è questo:
il tentativo operativo di ricreare nell'athanor la forma originaria
dell'Unità perduta. E così, dato che la materia operata trasforma
l'operatore, alla fine dell'Opera sarà egli stesso ad essere
ricondotto a questa condizione, a ritrovare il Volto perduto del deus
absconditus.
“What Cosmic jest or
Anarch blunder, The human integral clove asunder, And shied the
fractions through life's gate?”. “Quale scherzo cosmico o
errore dell'Anarca / ha spaccato l'essere umano integro / e ha
lanciato i frammenti attraverso la porta della vita?” si chiede
Melville nella sua ricostruzione dell'Adam Qadmon, l'uomo cosmico
creato a immagine e somiglianza del Grande Androgino, il Macroprosopo
di cui ci parlano i testi cabalistici.
Shiva ed il
Bodhisattva
Come fa notare Joseph
Campbell nel suo Le maschere di dio, la differenza radicale tra
Oriente ed Occidente riguarda proprio la relazione dell'umanità con
il Creatore: mentre in Occidente questo è separato dalla sua
creazione, in Oriente esso mantiene una presenza sia immanente -
emanazione continua — che trascendente - la sua essenza è
imperscrutabile — essendosi, al tempo stesso, sia indiato in tutte
le molteplici forme della realtà, i «diecimila esseri», sia oltre
il Mondo.
In Oriente due sono le
figure centrali androgine per eccellenza: Shiva ed il Bodhisattva
Portatore del Loto, colui che «Guarda verso il basso con pietà»,
così chiamato per il sentimento che porta verso tutte le creature
ancora prigioniere della ruota del Samsara: il ciclo delle
reincarnazioni dovute alla Triplice Illusione che le lega
all'esistenza. Egli, infatti, mentre stava per varcare l'ultima
soglia ed entrare nel Nirvana, la dimensione del vuoto totale,
dell'esistenza-non-esistenza perfetta ed inalterabile, sottratta alla
temporalità dei fenomeni, al velo di Maya che con la sua coltre crea
una parvenza di realtà, decise di restare nel mondo contingente per
aiutare tutte le creature a raggiungere la buddità.
Nirvana deriva da nir
che significa «via da», e da vana, letteralmente «soffiato»,
cioè un soffiare via la fiamma del Triplice Fuoco, il che equivale
ad estinguerne il potere su di noi. La parola, dunque, significa, in
sanscrito, il «Dissolversi del triplice fuoco del Desiderio,
dell'Ostilità e dell'Illusione». Le stesse tentazioni cui si era,
alla fine di una lunga battaglia mistica, sottratto il Budda nella
sua contesa contro Kama-Mara, cioè Desiderio-Ostilità: «Quando
l'involucro della falsa consapevolezza è stato distrutto, ogni
essere è libero da ogni paura, al di là di ogni mutamento» dice il
Prajna-paramita Sutra.
In Cina ed in Giappone
questo Bodhisattva - termine che designa «colui che è
illuminazione» — viene raffigurato sia in vesti femminile sia in
vesti maschili. Avaloki-tesvara è il maschio, Kwan Yin è la
femmina, la Madonna dell'estremo oriente, come viene definita.
Ella-Egli ha compreso che il tempo e l'eternità sono aspetti di
un'unica esperienza, due momenti dello stesso non-duplice ineffabile;
cioè l'essenza del Gioiello del Loto: Om mani padme hum.
Joseph Campbell, nel suo
L'Eroe dai mille volti, ci conferma che le divinità
bisessuali non sono rare nel mondo del mito, poiché esse conducono
la mente oltre l'esperienza oggettiva in un regno simbolico dove il
dualismo non esiste. Questo è il significato dell'immagine del dio
bisessuato; egli-ella simboleggiano l'identità tra eternità e
tempo; il risvegliato in vita, infatti, il jivan mukta, comprende che
il Nirvana non è altrove o quando se non nel qui ed ora del Mondo,
del quale alla fine egli vive l'infinità bellezza: il Volto di dio.
L'iconografia tibetana simboleggia l'unione tra eternità e tempo
attraverso la figura dello Yab-Yum unione sessuale della figura
maschile e femminile, tanto esecrata dai critici cristiani.
Nel Taoismo il Tao, la
via, è essa stessa bisessuata. Anche qui sarà la sua divisione in
maschile e femminile a produrre l'ingannevole opposizione tra noi ed
il Mondo. E dunque bisogna ricomporre questa dualità in una
dualitudine, una polarità non oppositiva, attraverso un continuo
assecondamento dei ritmi naturali.
Questo concetto è ben
conosciuto anche dall'Induismo, nel quale «colui che vive col cuore
concentrato nello yoga, che tiene in considerazione tutte le cose, si
vede in tutti gli esseri, e tutti gli esseri vede in se stesso,
comunque viva vive in Dio» come dice la Bhagavad Gita (6, 29,
31).
E chi è lo yogi cosmico
se non Shiva, il Dioniso indiano? Nella sua forma detta
Ardhanàrìsvara il «Signore Mezzo Donna», egli viene raffigurato
unito nello stesso corpo con la sua sposa Sakti, colei che porta ad
effetto il suo potere divino di meditazione profonda. Le
raffigurazioni che lo mostrano sotto i piedi della sua metà
femminile Kali, invece, la sposa terrifica del momento distruttivo e
rigenerativo, ci dicono che le coppie di contrari formano una unità
e che ciò che appare come una immagine crudele — la dea sopra il
corpo del dio mentre brandisce una spada ed una testa mozza — altro
non è che il suo sogno nascosto: sotto la dea nera sono, infatti,
rappresentati due aspetti del dio, uno visibile, addormentato,
l'altro invisibile, al di là degli eventi e dei mutamenti, oltre
persino la meraviglia del dio ermafrodito.
Alias il manifesto, 25
luglio 2015
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