Georgi Dimitrov |
Ogni momento storico si
distingue per le testimonianze che i suoi protagonisti hanno lasciato
dietro di sé. Quanti nel futuro ripenseranno l’esperienza storica
che ha condotto al crollo dell’Urss non potranno prescindere dalle
pur opache memorie di Gorbacev, e da quelle più interessanti di suoi
collaboratori, come Cernaev, Jakovlev, Sachnazarov, Bakatin,
Sevarnadze, e persino da quelle di golpisti come Krjuckov e Janaev.
In questo caso, si è rivelata esatta l’osservazione di Hobsbawm:
“Nulla rende acuta la mente dello storico come la sconfitta”. Per
il periodo staliniano vale il principio opposto. Oltre ad essere
inaffidabili nell’interpretazione delle singole vicende, le memorie
di stalinisti come Molotov e Kaganovic, ma anche dei destalinizzatori
Chruscév e Mikojan, sono afflitte dall’hubris di chi
interpreta successi di breve periodo in chiave teleologica,
scorgendovi l’espressione di tendenze storiche di lungo periodo.
In questo panorama il
Diario tenuto da Georgi Dimitrov dal marzo 1933, momento del
suo arresto in Germania, dove era rappresentante del Comintern, sino
alla sua morte, avvenuta in Bulgaria nel febbraio 1949, è un
documento unico sia per la natura dello scritto, contestuale agli
avvenimenti narrati, sia per la personalità dell’autore, che ha
sempre goduto della fama di staliniano “diverso”. L’edizione
italiana (a cura di Silvio Pons con ttraduzione di Fausto Ibba,
Einaudi, 2002) raccoglie il periodo centrale della parabola politica
di Dimitrov: gli “anni di Mosca”, dove egli ricoprì dal 1935
l’incarico di segretario generale del Comintern, e, dal 1943, di
responsabile della sezione di informazione internazionale del VKP(b).
Cosa indusse Dimitrov a
correre - unico fra i dirigenti comunisti - i rischi insiti nella
decisione di tenere una cronaca della sua vita personale e
dell’attività pubblica? Il Diario non era destinato alla
pubblicazione. L’andamento rapsodico, l’assenza di rivelazioni o
di messaggi esopici di opposizione al regime staliniano, lasciano
pochi dubbi in merito, e questo forse spiega la “scarsa attenzione”
che - lamenta Pons - ha fatto seguito alla prima edizione del Diario,
a Sofia, nel 1997. La risposta al nostro interrogativo va dunque
trovata nel più ovvio dei motivi. A un certo momento della sua vita
Dimitrov decise di affidare alla parola scritta la definizione della
sua nuova condizione personale e politica. L’accusa di aver
organizzato l’incendio del Reichstag, la fermezza con la quale
aveva sostenuto nel corso del processo il contraddittorio con
Goering, l’assoluzione, avevano dato fama mondiale a un
relativamente oscuro dirigente comunista. Nonostante le accoglienze
da eroe, l’ambientamento a Mosca non fu facile. La confessione di
infelicità che Dimitrov fece a pochi giorni dall’arrivo non si
ripeté più, ma dalle pagine del Diario emerge una vita
personale tormentata da lutti, malattie e ansie per la sorte dei suoi
cari, e soprattutto segnata dalla solitudine.
Ad amareggiare Dimitrov
contribuì anche il mancato inserimento nella cerchia dei dirigenti
più vicini a Stalin. Nel corso del periodo moscovita, Dimitrov fu
ammesso solo tredici volte a colloquio nel gabinetto del vozd.
I contatti di carattere non ufficiale furono più numerosi, ma si
limitarono alla partecipazione a cene in occasione di anniversari o
di compleanni, che non implicavano particolare intimità. Il
disappunto con il quale, nel settembre 1938, Dimitrov annotò il
silenzio sull’anniversario del processo di Lipsia, ha il sapore di
una resa. Il suo eroico comportamento gli aveva garantito la
cittadinanza sovietica e la direzione del Comintern, oltre non poteva
andare.
Nemmeno i rapporti con i
suoi più stretti collaboratori furono facili. Le pagine del Diario
mostrano che egli condivideva il giudizio espresso da Stalin durante
il loro primo incontro, il 7 aprile 1934: i quadri del Comintern non
erano all’altezza della situazione. La solidarietà che a momenti
mostrò nei loro confronti non lo spinse mai sino a sfidare la “linea
generale”. Emblematica l’annotazione del 23 novembre 1938:
“Moskvin è stato chiamato al Nkvd. Non è tornato!”. Tentò
probabilmente di intercedere, ma Ezov rispose in modo sconfortante.
Il 25 Dimitrov si rivolse a Stalin per chiedere la nomina del
sostituto di Moskvin: far funzionare gli apparati era il primo dovere
del segretario del Comintern. Simile, anche se con esiti non tragici,
fu la vicenda di Togliatti. Pochi giorni dopo l’invasione tedesca,
Dimitrov non esitò a raccogliere i sospetti che circolavano da tempo
sulla condotta di Togliatti in Spagna, decidendo di “non renderlo
partecipe di questioni segrete”. In questo clima di diffidenza non
v’erano del resto spazi per lealtà e amicizia.
Nel Diario
Dimitrov non tentò di tracciare un’immagine idealizzata di sé,
ostentando sentimenti di partecipazione ai problemi del comune
cittadino sovietico. In undici anni, si concesse solo una visita a un
kolchoz, nel 1940, in Georgia: ovviamente, lo trovò
splendido. Mai una volta si avventurò da solo nelle strade di Mosca,
per vedere come vivevano i suoi concittadini. Nel maggio 1940, e poi
nell’agosto 1942, registrò, senza commento e senza ulteriori
iniziative, notizie di massacri di ebrei. Nella convinzione che i
problemi personali non dovessero interferire con l’attività
pubblica, nel rifiuto di porsi problemi per i quali non v’erano
soluzioni politiche, Dimitrov mostra di aver assimilato i valori
fondanti del regime, e il Diario può essere letto come la
ricostruzione, unica nel suo genere, della Bildung di un
dirigente staliniano. Di questo processo, la registrazione dei
momenti di partecipazione alle liturgie del gruppo dirigente è
l’aspetto che assorbe più spazio.
Con zelo Dimitrov annotò
le analisi che Stalin faceva della situazione interna e
internazionale in occasione degli incontri con i dirigenti sovietici.
Difficile pensare che i suoi commenti entusiasti siano sempre
sinceri. Possibile che Dimitrov non avvertisse la grossolanità della
descrizione che Stalin fece nel 1934 delle masse europee, afflitte da
una “psicologia da gregge”, e “inclini a marciare con la
propria borghesia”? O che condividesse tutte le fobie di Stalin sul
trockismo dei “nemici del popolo”? O che non cogliesse l’aspetto
grottesco del pianto di Vorosilov, uno degli staliniani della prima
ora, umiliato pubblicamente per le sue responsabilità negli
insuccessi della guerra con la Finlandia?
Si può qui condividere
il giudizio che dà Pons nell’introduzione: Dimitrov aveva
introiettato il culto del capo come “autorità di natura politica”.
In omaggio a questo principio, dopo aver registrato sul Diario,
il 21 giugno 1941, le “voci sull’imminente aggressione”, il
giorno dopo, convocato al Cremlino, lodò, mentre le truppe tedesche
avanzavano approfittando della sorpresa, la “sorprendente calma,
fermezza, sicurezza in Stalin e in tutti gli altri”. Non si può
d’altra parte non pensare che, per lo stesso motivo, il “rapporto
segreto” di Chruscév tentò di smontare il culto di Stalin con la
falsa versione di un prolungato smarrimento di Stalin dopo l’attacco
tedesco.
Quale che fosse
l’opinione di Dimitrov su singole vicende, dal Diario emerge
con chiarezza che restò sempre convinto che la formazione di fronti
nazionali antifascisti fosse, in Europa occidentale, un passaggio
necessario verso il socialismo. La firma del patto Ribbentrop-Molotov
assestò un duro colpo a questa linea; il coinvolgimento dell’Urss
nella guerra lo rilanciò, rendendo paradossalmente definitiva
l’emarginazione di Dimitrov dai centri del potere. La dettagliata
cronaca del Diario conferma che l’alta priorità accordata
alla collaborazione con le altre potenze antifasciste indusse Stalin,
dopo un lungo periodo di disinteresse per il Comintern, a occuparsi
in prima persona dell’attività dei partiti comunisti, lasciando a
Dimitrov il compito ingrato di richiamare all’ordine i partiti
comunisti troppo settari. Dimitrov continuò comunque a nutrire la
convinzione che anche nel dopoguerra sarebbe stato possibile
collaborare con gli Usa, e con le altre potenze della coalizione
antifascista, e allo stesso tempo puntare alla diffusione del
socialismo in Europa. A quanto è oggi noto, lo stesso Stalin e buona
parte del gruppo dirigente sovietico condividevano questa illusione.
La replica giunse, in questo caso, dalla realtà. Tornato in
Bulgaria, Dimitrov si mostrò cattivo discepolo di sé stesso. Agì
con brutalità e settarismo, contribuendo anche lui alla rapida
trasformazione delle “democrazie popolari” in regimi di tipo
staliniano.
È certo un peccato che
l’edizione italiana del Diario di Dimitrov non comprenda gli
anni del dopoguerra; ma non si poteva chiedere troppo a una impresa
da lodare per la cura scrupolosa e per l’ottima traduzione. Il
lettore può solo immaginare che questa fu la pagina più amara della
vita di Dimitrov, che vide realizzarsi e poi disfarsi in breve tempo
le speranze di decenni.
“L'Indice”, dicembre
2002
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