"pagina99", tornato in edicola a novembre, mi pare "più bello e più forte che pria", 50 e più pagine densissime, con articoli che sovente affrontano temi cruciali, dai più ignorati, come questo di Gabriella Colarusso di qualche settimana fa. Le acquisizioni dei fondi sovrani dell'Arabia Saudita, del Quatar, degli emirati, finanziatori di guerre sante, riguardano talora produzioni strategiche e industrie pubbliche. Quanta cinismo e, insieme, quanta stupida
cecità ci sia nel far cassa in questo modo per pagare le mance
elettorali è problema che affido alla riflessione di chi legge.
(S.L.L.)
Non hanno neanche un ufficio di rappresentanza a Milano o a Roma. Ma solo lo scorso anno hanno investito in Italia più di 2 miliardi di dollari. Vengono da Cina, Qatar, Abu Dhabi, Kuwait. Sono i fondi sovrani, gli Stati investitori che competono sui mercati mondiali.
Sovrani d’Oriente,
corteggiatissimi dai politici e dai governi d’occidente, ai quali
la crisi del 2008 e il bisogno di capitali hanno imposto di aprire le
porte a Pechino e agli emiri. E di chiudere un occhio sui rischi
geopolitici e strategici che portano insieme alle loro casseforti.
I problemi di ordine
geopolitico sono più evidenti che mai dopo l’attentato di Parigi.
E si aggiungono a quelli economici, di protezione del know-how in
settori strategici. Senza contare la trasparenza della proprietà,
virtù nella quale i fondi sovrani non eccellono (anche se in questo,
va detto, sono in buona compagnia). Ma quali sono, e dove investono,
i fondi sovrani che hanno lanciato la loro opa sull’Italia?
Il nostro Paese per un
po’ era rimasto fuori dai loro radar, considerato un mercato meno
attraente della Francia, della Germania e anche della Spagna. Poi,
nel 2014, è arrivato il raddoppio: gli investimenti sovrani in
Italia hanno fatto un grande balzo in avanti, con più di due
miliardi iniettati nel sistema finanziario e industriale. Se si
sommano gli investimenti fatti dal 2012 a oggi, siamo oltre i 7
miliardi di capitali freschi arrivati dai fondi sovrani.
Che il clima fosse
cambiato lo si è capito a fine settembre, quando 34 fondi da 31
Paesi del mondo si sono dati appuntamento al Principe di Savoia, a
Milano, accolti con grande fasto dai vertici della Cassa depositi e
prestiti e dal ministro dell’economia: era la prima volta che
l’International forum Of Sovereign Wealth Funds (Ifswf), il
club dei fondi più potenti del mondo, si riuniva in Italia. Negli
stessi giorni, la Qatar Investment Authority (Qia), il fondo
sovrano dell’Emirato governato dalla monarchia della famiglia
Al-Thani, e dalla shari’a, apriva il suo primo ufficio a New York,
promettendo 35 miliardi di investimenti sul mercato americano nei
prossimi cinque anni. Difficile da immaginare prima del crollo della
Lehman Brothers. Ma da allora i nuovi imperatori dei mercati sono
cresciuti a ritmo forsennato, e oggi i fondi sovrani attivi nel mondo
sono 35, con un patrimonio di circa 5 triliardi di dollari, secondo
le stime del Sovereign Investment Lab (Sil) della Bocconi.
Per numero di operazioni
chiuse e valore degli investimenti fatti negli ultimi tre anni, i più
attivi in Italia sono stati i fondi cinesi e quelli del Golfo: Qatar,
Abu Dhabi, Kuwait e in misura minore l’Oman. Senza dimenticare
Singapore, che nel 2014 ha speso 250 milioni di dollari per comprare
il 50 per cento di Roma Est Shopping Center.
E il cambiamento della
geografia dei capitali porta anche a una nuova diplomazia economica.
Lo Stato non investe più
(gli investimenti pubblici sono calati del 18% dal 2008 al 2013,
secondo i dati della Commissione europea) e i privati, grandi e
piccoli, faticano a rilanciare industria e servizi su un mercato
globale sempre più competitivo. Così i “barbari” sono diventati
partner ambiti. «C’è un nuovo interesse per l’Italia, dovuto al
mutato atteggiamento del sistema Paese, anche se scontiamo un forte
ritardo rispetto agli altri stati europei», fa notare il direttore
del Sil, Bernardo Bortolotti.
Il flirt, in verità, era
iniziato da tempo, con il governo spesso nei panni di Cupido. Monti e
Letta si erano dati da fare per stringere i rapporti con il Qatar e
Abu Dhabi, Renzi ne ha raccolto l’eredità e ha intensificato gli
scambi. Da quando è a palazzo Chigi, il premier ha incontrato molte
volte, l’ultima a Firenze il 6 ottobre scorso, Mohammed Bin Zayed
Al Nahyan, il principe ereditario di Abu Dhabi che Roma considera un
alleato in contesti di crisi internazionale, dalla Libia al
Medioriente. Ma un «ruolo fondamentale» in questa nuova diplomazia
economica l’ha giocato il Fondo strategico italiano (Fsi) diretto
da Maurizio Tamagnini, con una serie di accordi di co-investimento
con i fondi d’Oriente.
La geografia degli
investimenti
Il grande investitore,
Pechino, è interessato soprattutto alle infrastrutture. A giugno di
quest’anno la China Investment Corporation (Cic), primo fondo
sovrano della Repubblica Popolare, l’unico che risponde
direttamente al consiglio di Stato, è entrato con il 10% in F2i.
L’anno scorso era stata la volta di State Grid, una società
interamente pubblica, in Cdp Reti, che controlla Snam e Terna, ovvero
le reti del gas ed elettriche.
Il Qatar preferisce
comprare palazzi, alberghi, interi quartieri. Almeno in Italia,
perché in Europa invece ha investito un po’ in tutto, dalle
commodities ai servizi finanziari al settore auto, pagando
anche un conto salato per lo scandalo dieselgate: sono i primi
azionisti di Volkswagen. L’unica eccezione al mattone, nel
portafoglio italiano, è la partecipazione del 50%, con Fsi, in IQ
Made In Italy Venture, un fondo per sostenere l’industria della
moda, del lusso, del cibo.
Diversa invece la
strategia dei manager di Abu Dhabi – 67 mila km quadrati per 2
milioni di abitanti, saldamente nelle mani della dinastia Al Nayan –
che hanno puntato su banche (sono i primi azionisti singoli di
Unicredit), aerei (Etihad in Alitalia) e difesa (Piaggio).
C’è poi il Kuwait, che
dopo il suo primo approdo in Italia, nel 2014 – 680 milioni di
dollari investiti con Fsi per sostenere le imprese italiane – a
ottobre ha sborsato altri 197 milioni per il 2,06% di Poste Italiane.
Un caso interessante, la quotazione gestita da Francesco Caio, perché
racconta di come il protagonismo di questi nuovi investitori statali
potrebbe modificare, e in parte lo stia già facendo, la fisionomia
dei rapporti tra Stato e mercato.
Capitalismo di
Stato?
«Un governo che vende,
sperando di incassare dividendi con cui poi si faranno pezzi
importanti di manovra finanziaria, e un governo, straniero, che
compra. Lo Stato ai due lati del mercato», ragiona Bortolotti. «Non
c’è più l’Iri, lo Stato imprenditore, ma dopo 30 anni di
globalizzazione ci troviamo ancora con lo Stato azionista,
investitore».
Un paradosso? «Più che
altro, il frutto stesso della globalizzazione, la contropartita
finanziaria del boom dei Paesi emergenti che hanno accumulato riserve
in valuta pregiata e devono investire per farle fruttare».
Da Ginevra, dove dirige
“GeoEconomica”, un think tank indipendente che studia il
fenomeno dei fondi e il ruolo dei governi nell’economia, Sven
Behrendt accetta la provocazione. «È vero che lo Stato non si
limita più soltanto a fornire al mercato regole entro cui operare,
ma è diventato esso stesso un investitore sempre più attivo», ma
di qui a parlare di capitalismo di Stato, per ora, ce ne passa.
«Intanto perché i Swf rappresentano solo una parte dei fondi che
investono a livello globale» e poi perché «sono diventati sempre
più professionali». Cioè, agiscono come un qualsiasi altro fondo
di investimento: le società con cui operano, spesso gestite da
manager europei o americani, «hanno diversificato i loro portafogli
a favore di investimenti più rischiosi e si sono interfacciate con
il resto del mondo sulla base di interessi commerciali e finanziari».
Peccato che il controllo
di questi veicoli sia spesso in capo a Stati non democratici, in cui
è difficile anche distinguere i fondi sovrani dai fondi del sovrano,
e con politiche estere ambigue nei confronti di organizzazioni
terroristiche. È vero che può essere complicato ricondurre gli
investimenti immobiliari del Qatar a obiettivi di natura geopolitica.
Ma è anche vero che «l’idea per cui una cosa è il mercato, altra
la politica è semplicemente una foglia di fico», dice l’analista
politico e strategico Alessandro Politi. In un mercato mondiale
«spesso dominato da oligopoli, anche le decisioni che seguono
logiche puramente di profitto non sono mai scevre da concretissime
ricadute politiche». Se Abu Dhabi investe nei droni Piaggio o li
compra, qualche domanda si pone, prosegue Politi: «Devo capire cosa
chiedono gli Emirati a me e io a loro. Si possono usare contro l’Iran
dopo la pace con gli Usa? E nello Yemen? Sono domande concrete. Porre
delle condizioni non basta, serve anche farle rispettare». Del
resto, quando la tensione tra Stati cresce gli asset sovrani
diventano il primo strumento di pressione. Ad oggi ci sono almeno tre
membri del forum dei fondi sovrani congelati dalle sanzioni
internazionali: la Lybia Investment Authority, il National
Development Fund dell’Iran e il Russia Direct Investment Fund.
Tecnologia e
trasparenza
Le criticità non sono
solo sul piano dei rapporti geopolitici ma anche del trasferimento
tecnologico. E della trasparenza, nervo scoperto dei nostri nuovi
sovrani. Nel 2008, per conquistare credibilità agli occhi della
comunità finanziaria e dei governi, molti fondi sovrani
sottoscrissero la Carta dei principi di Santiago, che avrebbe dovuto
spingere a una maggiore trasparenza su portafoglio, struttura di
governance, provenienza dei capitali. L’adesione al trattato
è volontaria e non esiste un’autorità indipendente che la valuti.
Alcuni «hanno fatto
grandi passi avanti», spiega Behrendt, «altri sono migliorati ma
restano a un livello ancora non soddisfacente, come Abu Dhabi, il
Kuwait, la Cina». Ma altri ancora «sono del tutto inadempienti»;
tra questi il Qatar, che è in fondo alla classifica stilata da
Geoeconomica: not compliant. Sono i fondi che più hanno
investito in Italia negli ultimi anni, i protagonisti del raddoppio
degli investimenti sovrani nel nostro Paese. Nessuno di loro ha
uffici di corrispondenza a Roma o a Milano. Un’assenza che non
aiuta a diradare la nebbia e contribuisce ad alimentare la diffidenza
dell’opinione pubblica e degli stessi policymakers.
Dall’osservatorio della
Bocconi, Bortolotti ridimensiona l’allarme sulla trasparenza ma ne
segnala altri. Il tema della trasparenza, dice, è «un falso
problema: i fondi hedge americani o i fondi di private
equity non sono certamente più trasparenti di quelli sovrani».
Il rischio potenziale, semmai, «è che dietro alle loro scelte si
possa inserire surrettiziamente un’agenda di natura politica, con
gli investimenti che diventano una specie di quinta colonna per
iniziare una guerra di natura economica ed espropriare l’azienda in
cui si investe di tecnologie o saperi pregiati».
Nella nuova legge sulla
sorveglianza, approvata a maggio dall’Assemblea nazionale e ora al
vaglio del Senato, la Francia ha esteso i poteri dei suoi 007, anche
in tema di intelligence economica. Che si tratti di fondi
sovrani o investitori privati, la Republique prova a difendere il suo
know-how. E l’Italia? Il golden power dà al governo
potere di veto nei cambi degli assetti azionari di società
considerate di interesse strategico. Poi? «Noi siamo molto, troppo
prudenti, in materia di intelligence economica», incalza Politi.
«Dopo le rivelazioni del wikileaks, del datagate, è
arrivato il momento di rivalutare le nostre posizioni. Se vogliamo
essere sicuri che determinati attori non si muovano in modo scorretto
rispetto alle nostre aziende o ai nostri interessi strategici non
possiamo giocare solo in difesa, con una mentalità ancora da guerra
fredda. Non possiamo fare solo controspionaggio. E assegnare i ruoli
da punta, quando li affidiamo, a dei privati». Come mettere una
volpe a guardia del pollaio.
Pagina99we,
21 novembre 2015
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