Il Pci arrivava agli inizi degli anni
sessanta in condizioni promettenti. Rappresentava ormai un quarto
degli elettori e conservava quasi due milioni di iscritti, per lo più
attivi; era parte di un movimento internazionale che governava un
terzo del mondo, ma nel quale aveva finalmente acquisito una propria
autonomia; raccoglieva simpatia, o almeno attenzione, nei paesi e nei
movimenti che si stavano liberando dal colonialismo; manteneva
un’influenza rilevante nel sindacato senza più considerarlo una
«cinghia di trasmissione»; era incoraggiato, e a sua volta
incoraggiava, una classe operaia più estesa e che dava nuovi segnali
di combattività; incontrava una generazione politicizzata e
un’intellettualità nella quale finalmente penetrava un marxismo
non più dogmatico e canonico; avviava un dialogo con minoranze
cattoliche gradualmente affrancate dall’anticomunismo «assoluto»
di papa Pacelli; governava con buoni risultati, oltre la corretta
amministrazione corrente, importanti regioni del paese. Soprattutto
era ormai unito e convinto su una strategia univocamente definita,
almeno nei suoi princìpi, dall’VIII congresso: la «via italiana».
Era ancora inchiodato all’opposizione dai vincoli imposti
all’Italia dalle alleanze già contratte, ma il nuovo rapporto di
forza mondiale lo garantiva da un intervento americano armato, se e
quando avesse conquistato un ruolo di governo in modo pacifico e
legale. Tutto questo lo obbligava e gli permetteva di verificare con
i fatti, almeno nel medio periodo, se la «via democratica al
socialismo» era praticabile in Occidente, portava là dove voleva
andare, senza perdersi per strada.
Si apriva quindi per il Pci, per quel
Pci, una partita nuova, nella quale erano in gioco l’identità
faticosamente costruita e la sua futura esistenza. Anzi, a ben
vedere, la posta era ancora più alta. Perché proprio in quel
momento, se non interveniva in Occidente qualche mutamento, se lo
scontro fra i blocchi restava solo una «guerra condotta con armi
nuove», in altre parti del mondo (in Urss o nei paesi non allineati)
potevano presto prevalere, e già si intravedevano, tendenze di
ripiegamento o di divisione. Forse solo in Italia sembravano esistere
alcune condizioni - forze e volontà - per avviare un tale mutamento.
Ma era realmente una partita aperta?
Cinquant’anni dopo, sappiamo come si è conclusa. Il Pci, come
forza organizzata e come pensiero compiuto, è morto. E pressoché
nessuno ne rivendica l’eredità. Non è morto per un improvviso
colpo apoplettico, cioè trascinato nel crollo dell’Unione
Sovietica, dalla quale aveva da tempo preso le distanze. Né per
estenuazione, perché ha mantenuto fino alla scomparsa una forza
elettorale notevole (il 28%), e un peso nella società e nel sistema
politico. E morto per libera scelta, con l’ambizione di un «nuovo
inizio». Quel nuovo inizio non c’è stato, e ormai è chiaro a
tutti che, se anche avesse avuto maggiore successo, sarebbe stato
l’inizio di una cosa del tutto diversa. Questo è un fatto: così
evidente e ormai così duraturo che non si può rimuovere, ma che va
spiegato. Perché una forza che negli anni sessanta raggiungeva la
propria maturità, era ancora in piena ascesa e si impegnava in un
tentativo originale e ambizioso, dopo anni di ulteriori successi
cominciò a declinare, fino a dissolversi?
da Il sarto di Ulm, Il Saggiatore, 2009
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