Colette |
Sotto i portici del
Palais-Royal, Truman Capote andava su e giù, controllando
nervosamente l'orologio. Aveva ventitre anni, ma, come diceva Jean
Cocteau, che gli aveva procurato quell'incontro con la leggendaria
Colette, "sembra un angelo di dieci anni, ma è senza età e ha
un'anima maliziosa".
Quando finalmente era
scoccata l'ora, era entrato nell'appartamento della scrittrice e ne
era rimasto folgorato. Tutto era esattamente come se l'era
immaginato: i folti capelli crespi di Colette, gli occhi da "gatto
delle periferie", il viso mobilissimo, le guance arrossate dal
trucco e le labbra sottili rese scarlatte da un rossetto da
prostituta.
Intimidito, il giovanotto
non osava alzare gli occhi su quella divinità allungata su una
cascata di cuscini con un gatto grigio ai suoi piedi. Ma aveva fatto
in tempo a vedere le tende di velluto che schermavano la luce di quel
giugno del 1947 e a sentire il profumo, "un misto di rosa,
arancio, tiglio e muschio, che fluttuava tra le pareti tappezzate di
seta”.
Gli occhi del visitatore
si soffermarono su "una visione magica", un'immensa
collezione di antichi fermacarte di cristallo.
Quei "sulfures",
gli spiegò la padrona di casa, erano il risultato di un collezione
iniziata quarantanni prima. Imprigionati nelle sfere di cristallo
lucertole, salamandre, fiori e farfalle erano schierati su due
tavoli. I più rari di quelli che la scrittrice chiamava
affettuosamente i suoi "fiocchi di neve" erano stati
fabbricati tra il 1840 e il 1860".
Quel che Capote non
poteva sapere era che in quegli anni Colette stava raccogliendo altri
"fiocchi di neve" salvandoli dall'oblio nel cristallo della
memoria. Era il pulviscolo di ricordi che si presentavano alla
scrittrice immobilizzata dall'artrite, una messe tardiva e generosa
raccolta in La stella del vespro, egregiamente curato e
plasticamente tradotto da Angelo Molica Franco.
Colette covava quelle
scintille del passato in una serena solitudine, interrotta dalle
visite premurose del suo terzo ed ultimo marito, Maurice, di sedici
anni più giovane di lei. Chi pensava che, inchiodata sul letto, si
stesse annoiando si sbagliava di grosso. “Siamo plasmati dalla
malattia, dobbiamo accettarlo, ma è ancora meglio plasmare la
malattia a nostro uso e a nostro vantaggio”. Quel giaciglio era
diventato un tappeto volante con cui esplorava il passato.
Non poteva fare a meno di
sorridere ricordando la sua breve stagione teatrale. Interrogava le
vecchie foto, in particolare quella in cui un attore dall'aria feroce
stava per pugnalare il suo "bel seno" nudo che aveva tanto
fatto scandalo. Non rimpiangeva troppo la sua agitata giovinezza.
"Una delle grandi banalità dell’esistenza, l’amore, si
ritira dalla mia vita. Quando ne siamo usciti, ci accorgiamo che
tutto il resto è allegro, variegato e ricco. Ma non se ne esce
quando né come si vuole".
Non le dava fastidio
essere interrotta da chi veniva a trovarla. Accoglieva con la stessa
curiosità le celebrità cerimoniose e il piccolo vicino di tre anni
che, non riuscendo a suonare il campanello, si annunciava prendendo a
calci la porta. Non temeva più la solitudine."C'è un gran
silenzio intorno a me. Quando sono sola, la casa si riposa. Si stira
e fa scrocchiare le vecchie giunture... Invita il vento da fuori,
perché si prenda cura dei miei fogli che partono a volo d'uccello
dall'altro capo della stanza."
Colette spiava dalla
finestra lo scorrere delle stagioni nel giardino del Palais-Royal. La
mattina presto osservava l'inserviente pulire le gabbie degli uccelli
e rifornirli di becchime per poi sostare in un breve
raccoglimento."Quando certi istanti di una giornata si fanno
troppo belli, l'essere umano interrompe il lavoro o il gioco, venera
ciò che intorno tace o canta."
A tratti si riaffacciava
il ricordo dell'angoscioso periodo in cui Maurice, essendo ebreo,
doveva spostarsi da un rifugio all'altro per sfuggire i nazisti. Ma
poi la memoria la salvava, distraendola col ricordo del ricchissimo
Daniel che, per non farsi notare, aveva fatto montare sul telaio di
una Rolls-Royce nuova una logora carrozzeria.
Prima di congedarlo,
l'anziana scrittrice offrì al giovane Truman un magnifico fermacarte
sfaccettato con una rosa bianca. "Voglio che lei lo tenga per
ricordo". Quando l'ospite perplesso le obiettò che non poteva
accettare qualcosa cui lei teneva tanto, gli rispose: "Ragazzo
mio, non ha senso offrire una cosa se non si è legati ad essa".
Il Sole 24ore Domenica,
29 marzo 2015
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