In Risorgimento
disonorato Lorenzo Del Boca
racconta, tra molto altro, i moti liberali del 1831, quelli che
portarono a morte Ciro Menotti. I libri di scuola raccontano il
tradimento del duca di Modena il quale, – dopo aver lasciato
credere d'essere disposto ad accogliere le richieste di Costituzione
– individuato grazie a un delatore il luogo della congiura, lo fece
circondare dai suoi armati. Il capo, Ciro Menotti, tentò di fuggire
dal tetto ma, ferito da una fucilata, fu arrestato e condotto in
carcere insieme agli altri.
Il
moto non si fermò. I patrioti modenesi rimasti liberi scesero in
strada, conquistarono il controllo della città ed elessero un
avvocato (Biagio Nardi) come dittatore, mentre il duca Francesco IV
si trasferiva a Mantova per guidare da lì la repressione. Intanto
comitati insurrezionali si formavano in varie città vicine, quasi
tutte sottoposte al governo pontificio, come Parma, Bologna e Ancona.
La parte di racconto che qui riprendo comincia da questo punto.
(S.L.L.)
Una stampa commemorativa dei moti del 1831 dall'Archivio di Stato di Rieti |
I resoconti dell’epoca
sostennero che le file dei patrioti andavano ingrossandosi da
«migliaia di volontari disposti a giocarsi la vita per conquistare
la libertà» con un entusiasmo prodigioso. I cronisti patrioti
assicurarono che, sull’altro fronte, furono colti di sorpresa e
restarono immobilizzati dallo sgomento. Il cardinale di Belluno Mauro
Cappellari, appena nominato Papa con il nome di Gregorio XVI, «si
sentì commuovere a paura più che a indignazione».
Nel vuoto di potere che
si era creato, tanti pensavano di comandare e pochi lo facevano
davvero. In particolare si sviluppò un contenzioso fra il
responsabile politico, marchese Giovanni Vicini e quello militare,
generale Sercognani. I soldati volevano marciare su Roma,
approfittando dello sbandamento dei vecchi governanti, ma il progetto
venne ostacolato da Bologna. Avevano paura che un’azione diretta
contro il Pontefice avrebbe provocato un intervento straniero.
Perciò, un contingente
si mise in marcia verso Roma ma come se si fosse trattato di
un’iniziativa individuale, più che un’operazione concordata fra
gli insorti. I volontari dichiararono di essere la “vanguardia”
di un esercito popolare che si sarebbe costruito strada facendo.
L’altro comandante militare, Pier Damiano Armandi, consigliò il
collega di attestarsi a Narni. Sercognani, invece, tirò dritto,
conseguendo anche qualche successo avendo disarmato i contingenti
papalini di Spoleto e di Terni. Però a quel punto, con pochi uomini,
la maggior parte dei quali senza scarpe e con un armamentario
approssimativo, si fermò davanti alle mura fortificate di Rieti e
quello stop fu sufficiente per cucirgli addosso il marchio del
traditore. «Furono poche archibusate a farlo desistere - si
domandarono i rivoluzionari - o lo splendore dell’oro del vescovo
Gabriello Ferretti?».
Antonio Vesi, autore di
una “narrazione storica” degli avvenimenti del 1831, sostenne che
la conquista di Roma era alla portata di mano e che quell’azione
avrebbe decretato la vittoria dei liberali.
Sembrerebbe una versione
accecata dall’ottimismo perché le stesse cronache dovettero
ammettere che, pochi giorni dopo, gli austriaci arrivarono per
riportare l’ordine e non trovarono nessuno. Il 21 marzo, le truppe
di Vienna occuparono Bologna «senza tirar colpo» e riconsegnarono
la città al cardinale Opizzoni. Qualche “ardenza” soltanto a
Rimini... Callimaco Zambianchi era lì e, con un manipolo di
volontari, tenne duro, giusto per non darla vinta ai nemici senza
combattere. Ma era «impossibile sostenere il cozzo austriaco» e si
ritirarono. Il comandante Carlo Zucchi, pubblicando le sue memorie,
ricordò che «la pugna fu gagliarda e prolungata per un’ora».
Più tardi il generale
Armaroli firmò la capitolazione mentre Terenzio Mamiani si rifiutò,
conquistandosi di diritto un posto nel libro d'oro degli eroi.
Risorgimento
disonorato, Utet, 2011
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