E' stato Nietzsche a
scrivere che soltanto un nemico può condurti per mano all' interno
della fortezza di te stesso. A Franco Fortini la citazione piaceva,
anche perché di avversari ne aveva tanti. Di genere diverso:
amatissimi nemici, o amici-nemici, ed anche semplicemente nemici. Era
impensabile un legame con lui immune da furori e umori ardenti. "Sarò
pure aggressivo, rabbioso, violento", ammetteva, "ma c'è
qualcosa che mi sfugge. Sono un sopravvissuto che non s'è mai
pentito: perciò mi criticano". Fedele alle inimicizie.
"Le sue rabbie erano
un genere letterario, la passione un modo di esprimersi",
corregge Giulio Bollati. Si conobbero ai tempi del “Politecnico”,
lavorarono insieme alla Einaudi. Poi la rottura, suggellata da un
celebre epigramma fortiniano che lo ritraeva ciambellano alla corte
del divo Giulio: "Mi offese a morte: io, il capo della
dissidenza contro Einaudi, ridotto ad accendisigari del Principe. Gli
risposi con un altro epigramma: Fatti i dovuti sconti/ sembra
Vincenzo Monti...".
Gli epigrammi.
Fulminanti, abrasivi. Come quello contro Geno Pampaloni, nemico
scelto per oltre quarant' anni: "La buona stampa/ consiglia
ai buoni/ anima e zampa/ liscia ai padroni/ Il Geno Pampa/ loni e ne
campa". Li univa la devozione per Giacomo Noventa, li
separava l'esser l'uno a sinistra e l'altro olivettiano. L'aspra
discordia indusse il comune maestro Noventa a dedicare loro il suo
saggio sul Grande Amore in ' Uomini e no' : "A Franco
Fortini e a Geno Pampaloni/ perché ognuno accetti da questo
piccolissimo libro/ la metà che l' altro rifiuta...". Tentò
una strada pacificatrice anche Piergiorgio Bellocchio, l' artefice
dei “Quaderni Piacentini”. L'esito fu fallimentare, per un secco
rifiuto di Fortini: "Che senso ha una riconciliazione oggi, dopo
decenni di colpi inferti o subiti?". Oggi Pampaloni tenta di
scherzarci su. "Con Franco sono stato molto amico dal mio arrivo
a Firenze, nel 1937, fino a quando, un giorno sull'autostrada, voleva
convincermi a non rivelare ad Adriano Olivetti che ci eravamo
incontrati. Mi sembrò troppo e lo mandai a quel paese". In
ricordo dell'antico avversario s'accende di poesia e così prosegue:
"Se dovessi usare una parola per definire Fortini, sceglierei
corruccio. Era un uomo corrucciato, in primo luogo contro se
stesso. Ecco, da una poesia del 1950 di cui conservo l'originale,
qualche verso che si può leggere come un testamento: Piccola
notte, è l' ora di lasciare/ la lampada, e dormire. Quali voci per
le vie/ a quest' ora?/ E' l' ottobre/ dei carbonai, la nebbia. /
Questo piccolo mondo ora non duole, / ed è buio e lontano/ coi suoi
deboli treni. / E' l' ora di lasciare/ la lampada a guardare / senza
rimpianto il sonno. Caro Franco, che il sonno ti sia lieve".
Un altro nemico gli rende
l'onore delle armi. E' Alfredo Giuliani, che recentemente ha
celebrato "il pluritrentennale delle picchiate in testa"
che si divertì a dargli sul “Verri”. "Fortini è triviale,
rabbioso, impreciso e supponente", ha scritto anche recentemente
su “Repubblica”. "Giuliani mi insulta? Che Dio lo benedica,
gli auguro cento di questi articoli", gli replicò Fortini.
"Esprimevamo due poetiche distanti", racconta oggi
Giuliani. "La sua era una poetica della diffidenza, un po'
provinciale, inconcludente, intrisa di moralismo e ideologia. Come se
il poeta avesse lo scopo autobiografico di piangere sull'infelicità
storica". Il dissidio è profondo, il tempo non lo mitiga. "Mi
è sempre apparso intellettualmente e poeticamente improduttivo. Non
tolleravo i suoi speciosi arzigogoli, quel dire e non dire. E'
esemplare un suo intervento sul “Menabò Due”, una stroncatura di
Pasolini talmente dialettica che poteva esser letta come un elogio.
Davvero irritante".
"Non ha mai cessato
di nutrirmi, anche quando mi irritava", interviene in difesa
Piergiorgio Bellocchio. "Credo che sia stato il mio principale
lettore-giudice, voglio dire quella figura ideale, ma anche ben
reale, a cui chi scrive pensa". Anche Giulio Bollati punta sugli
aspetti di fascino. "E' vero: era un moralista. Ma era nel
contempo anche altre cose. Ed è questa confederazione di profili
diversi a intrigarmi di più. Era il letterato finissimo formatosi
nella Firenze delle Giubbe rosse. Era anche l'intellettuale con forti
interessi civili e politici. La cifra distintiva era però una sorta
di vocazione profetica. Mi tornano in mente questi suoi versi: Verrà,
verrà la lettera, che su carta intestata ti renderà giustizia. E
dirà che era vero tutto quello che sai. Un Profeta rimasto sempre ai
margini".
Tra gli amici, ce n' è
uno che soffre di più. Anche lui ebbe l' onore di un epigramma.
"Quirite l' afa nelle sieste stempera/ equo coerente inquieto
cauto Cases". Cesare Cases e Franco Fortini. Si conobbero a
Zurigo il 6 gennaio del 1944. Fortini, vestito da befana, recitò per
i bambini della scuola libera antifascista una lunga sequenza di
versi martelliani scritti da Cases. "Mi divertivo a comporre
queste poesie nello stile del Corrierino dei Piccoli. E Franco per
una vita mi rimprovererà bonariamente di essere rimasto lì, al
Corrierino. La verità è che mi mancherà molto. Proprio per ciò
che lui aveva e io non ho. Il temperamento creativo, la capacità di
intendere la poesia moderna. Quando lavoravamo insieme al Faust,
mi ripeteva con affetto: ' Ci sono delle Muse che alla tua nascita
non erano presenti...' . Io volevo la verità, scriveva. Ecco,
era ciò che apprezzavo in lui, e che conferiva autenticità anche
alle sue prese di posizione più azzardate".
"Proteggete la
nostra verità". E' l' ultimo verso di Composita solvantur
quello che più piace a Giulio Einaudi. "Era una voce vera,
sferzante, anche violenta. L'accoglievo come una boccata d'ossigeno.
Gli anni del suo furore rimangono memorabili. Contro gli
avanguardismi da vertigine, contro la narrativa di tutto riposo. Era
un uomo contro. Mi mancherà".
“la Repubblica”, 29
novembre 1994
Nessun commento:
Posta un commento