«Preferirei di gran
lunga essere campione del mondo dei pesi massimi — cosa impossibile
— che re d’Inghilterra, o presidente degli Stati uniti o kaiser
di Germania». Era il 1911 quando Jack London scriveva queste righe e
non si trattava di una battuta o di una suggestione estemporanea.
Quella di London per la boxe fu una passione vera. Fin da quando,
giovanissimo, si mise a tirare pugni allenandosi quotidianamente.
Scrittore, London non
perse occasione per parlare di boxe appena poteva: in un’affinità
di articoli di cronaca e reportage, ma anche nelle sue opere
maggiori, da Martin Eden a «The Valley of the Moon».
Tradotti da Mario Moffi
sono arrivati adesso in libreria anche due brevi racconti
rigorosamente «pugilistici» : Il bruto delle caverne e Una
bistecca. La Sugar Co. Edizioni li ha raccolti
entrambi in un piccolo volume che ha intitolato Storie di boxe.
La data di nascita dei
due racconti (rispettivamente 1911 e 1909) segnala che quando London
scrisse erano anni decisivi per il pugilato: la boxe cambiava pelle e
da attività illegale e clandestina diventava sport dal seguito di
massa e business niente male. Dalla strada passava definitivamente al
ring. Che vuol dire: dai pugni nudi ai guantoni; dalle vecchie London
Prize Ring Rules al regolamento del marchese di Queensburg e cioè
dalla durata illimitata dei combattimenti a un numero fisso di
riprese e alle categorie rigidamente divise in base al peso.
L’ultimo storico
incontro a pugni nudi si era combattuto infatti l’8 agosto 1889 a
Richmond, Mississippi. John Lawrence Sullivan contro Jackie Kilrain.
E fu Sullivan a vincere, al 75° round, dopo ben 2 ore, 16 minuti e
23” di combattimento, il primo che gli storici considerano valido
per il titolo mondiale. Poi, il 7 settembre 1892 aveva segnato
l’inizio di una nuova era: per la prima volta nella storia della
boxe erano comparsi i guantoni. All'Olympic Club di New Orleans,
James John Corbett, detto «Gentleman Jim» (lo stesso che fu
interpretato nel 1942 da Errol Flynn e diretto da Raoul Walsh)
sconfisse il grande Sullivan in 21 riprese. Da allora in poi gli eroi
del pugilato americano (e non) non avrebbero più colpito a mani nude
e le regole del marchese di Queensburg sarebbero rimaste in vigore
fino ad oggi: jound di 3 minuti ciascuno, intervalli di 60 secondi,
ring quadrato di 20 piedi per lato e guantoni di pelle imbottiti
obbligatori. Più tardi, nel 1902, un dentista inglese, Jack Marks,
avrebbe introdotto anche il paradenti, usato per la prima volta da
Ted Kid Lewis. E da lì a poco, negli anni Venti, sarebbero arrivati
gli anni d’oro della boxe a stelle e strisce, quelli di Jack
Dempsey e di Gene Tunney.
Non si trattò di
semplici innovazioni tecniche o procedurali, ma della filosofia del
combattimento. Non a caso verso gli anni Trenta si accenderà in
America una grossa polemica tra i sostenitori e gli avversari dei
guantoni, tra etica del confronto a nocche scoperte e gusto «piccolo
borghesi» del colpo imbottito. E tra gli irriducibili nemici del
guantone si schiererà James Cagney, sostenendo che il pugno guantato
è ipocritamente più «soft», meno violento solo in apparenza, ma
in realtà ben più pericoloso, in grado di dispensare lesioni ed
emorragie celebrali con la «pulizia» di un killer professionista.
Quando London scrive di boxe questa polemica è ancora lontana, ma il
mondo del ring è già cambiato.
E se in Una bistecca
la boxe è la metafora che contrappone la Gioventù «serica di
pelle, insofferente a qualunque cautela e precauzione», al declino
dell’età adulta, nel secondo racconto (Il bruto delle caverne,
il cui intreccio London aveva comprato dal giovane Sinclair Lewis)
già si respira l’aria del cinema gangster-pugilistico che avrà
fortuna negli anni ’30, ’40 e ’50: corruzione sociale e morale,
incontri e scommesse truccate, il ring ridotto a fabbrica di dollari
sporchi e i pugili a carne da macello.
Baby Pat Glendon, il
«bruto delle caverne», è un giovane gigante naif, un tipo che
sembra uscito da una fiaba o da una leggenda popolare: sangue
irlandese, cresciuto sui monti a caccia di cervi, selvatichezza e
innocenza allo stato puro, senso innato delle distanze e dei tempi,
caldo e freddo al tempo stesso. «Un filo elettrico scoperto messo
dentro una ghiacciaia» (pag. 26). I suoi colpi e il tempismo sono
micidiali: qualunque sia l’avversario un incontro con Baby dura
solo pochi secondi. Al punto che per salvaguardare spettacolo e
scommesse il manager deve convincerlo a trattare forza e colpi. Ma
quando Baby scoprirà di essere l’inconsapevole protagonista di
match truccati denuncerà tutto al pubblico e combatterà l’ultimo
incontro senza risparmiare la potenza: «E’ uno sport niente male
la boxe, ma ormai lo stanno conducendo in base al principio del
profitto, e questo la rovina» (pag 90).
Dopo aver visto che la
città americana ormai è diventata identica a quella europea, piena
di miseria, rabbia, odio e abbrutimento morale, Baby abbandona per
sempre il ring e torna sui monti tra i cervi. E’ il tema londoniano
del superindividuo in lotta, depositario del mito della frontiera, di
una natura ancora incontaminata e selvaggia.
L'America è la più
grande smentita del sogno americano, della mistica della libertà,
dell’uguaglianza e delle opportunità per tutti. Come la boxe.
London lo ripeterà nel
1913 in The Valley of the Moon: «Sai cosa siamo noi, di
vecchio ceppo bianco? (...) siamo gli ultimi dei Mohicani... Era un
paese niente male questo (...) Ci han fregati. Non c’è riuscito di
segnare le carte, di passarle dal fondo, di infilare di nascosto il
mazzo falso, come hanno fatto gli altri. Siamo i bianchi falliti.
Siamo i bianchi che han perduto».
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1985.
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