Una riedizione di Ivanhoe, il più famoso tra i libri di
Walter Scott, suggerì a “Repubblica” di dedicare l'intero
paginone centrale all'inventore del “romanzo storico” e al suo
eroe. Riprendo qui l'articolo di Beniamino Placido, ma uno alla volta
“posterò” anche gli altri. (S.L.L.)
Il fatto che sia stato
ripubblicato proprio ora dall'editore Garzanti (traduzione di Giorgio
Spina, introduzione di Enrico Groppali) è una buona ragione per
comprarlo (costa 4.000 lire) e per leggerlo o rileggerlo (consta di
590 pagine), l'Ivanhoe di Walter Scott?
Dipende. Dipende da
quello che vogliamo chiedergli, a questo cavaliere misterioso che
scende in campo al torneo Ashby con la celata abbassata, chiuso nella
sua armatura, recando sull’insegna il nome di battaglia che si è
scelto «El Desdichado». Che vuol dire: l'infelice, lo sfortunato,
il disgraziato.
Forse vogliamo chiedergli
da dove viene a questo misterioso, infelice Cavaliere ; e in questo
caso ci ritroviamo nella compagnia (senz’altro raccomandabile) del
filosofo ungherese Gyorgy Lukàks, un maestro della critica
letteraria contemporanea. Un maestro severo, esigente, anche un po’
sospettoso, che ai personaggi (e ai loro autori) chiede sempre: chi
ti manda? chi rappresenti? a nome di chi parli?
Ricapitolazione
fragorosa
Non sto prendendo in giro
Lukáks. Me ne guarderei bene. Se non altro per timore dei suoi
discepoli che sono, come lui, agguerriti sospettosi e guardinghi. Sto
dicendo che la sua è una concezione politico-parlamentare della
critica letteraria. Giudica gli autori (e i personaggi) in rapporto
al settore dell’Aula dove stanno seduti.
Comunque, chi vuol sapere
in quale settore dello schieramento politico-parlamentare letterario
sta Walter Scott con il suo Ivanhoe, entro quali coordinate
culturali si muova, fra Hegel e Engels, fra borghesia e proletariato,
fra progresso e reazione, non ha che da leggere (o rileggere) le
prime cento pagine del saggio Il romanzo storico, pubblicato
da Einaudi.
In queste pagine a loro
modo famose, il filosofo ungherese interroga esamina ed assolve
Walter Scott. Perché è un buon progressista moderato, una brava
persona. Sta nel mezzo. (Batte ed esalta quella via mediana che è
topica della storia politica inglese. Mantenendosi equidistante dagli
opposti estremismi, fa un passo dopo l'altro contro gli eccessi del
romanticismo, contro gli eccessi del conservatorismo. Non è
Stendhal, non è Balzac, ma il suo onesto lavoro di ricostruzione
della storia. come storia di tutti, anche delle figure minori, l’ha
fatto. Di più, di meglio di Lukàks, non si può dire. Se si chiede
ad Ivanhoe di dove viene.
Diverso il caso (e
diverso di risultato) se chiediamo a questo infelice cavaliere senza
macchia e senza paura non già chi l’ha mandato, chi rappresenta, a
nome di chi parla, ma francamente e bruscamente chi è. Guardandolo
in faccia, pregandolo magari di sollevare per noi la celata.
In questo caso Ivanhoe
(parliamo del romanzo, adesso, non del personaggio) si rivela in
tutta dia sua ricchezza.
Ivanhoe di Walter
Scott è come certi film, Casablanca, American Graffiti,
Guerre stellari, una fragorosa ricapitolazione della storia del
cinema o del «romanzo». Un miracoloso assemblaggio di archetipi, di
topoi, di luoghi comuni, anche. C’è Omero, c’è Shakespeare, c’è
il raccontare medievale, c’è Boccaccio, c’è Ariosto, c’è il
romanzo gotico.
C’è l’assedio e c’è
il ritorno. Qualche lettore ricorderà un bel libro pubblicato da
Bompiani cinque anni fa, di Franco Ferrucci. Vi si sostiene che tetta
la tradizione letteraria europea è innervata da due schemi
concorrenti: o l’assedio (l’Iliade) o il ritorno dell’eroe
(l’Odissea).
Ebbene, Ivanhoe ritorna
dalla Terra Santa in incognito vestito da pezzente, come Ulisse, e
come Ulisse si fa riconoscere innanzitutto dal suo porcaio (Gurth). E
dalla Terra Santa ritorna, in incognito anche lui, Riccardo Cuor di
Leone, per rimettere le cose al loro posto.
Quanto all’assedio, c’è
quello di Torquilstone, proprio al centro del Ibro, e dovrebbe
bastare.
La nostalgia delle
narrazioni — e delle situazioni — medievali (stiamo risalendo
ordinatamente la storia della letteratura) è ampiamente soddisfatta
dal grande torneo cavalleresco di Ashby, dove mostra tutta la sua
bravura un giovane arciere. Si fa chiamare Locksley, ma non so se
l’avete già capito, è Robin Hood, in incognito anche lui per
ragioni politiche.
C’è tantissimo
Shakespeare, cosparso un po’ dappertutto. Ma riconoscibile da tutti
quanto meno nella figura di Wamba, il buffone,che è ripreso dal
«fool» di Re Lear.
La cavalleria e il
denaro
Né Scott intende
deludere quei signori del suo tempo che apprezzavano (magari di
nascosto, perché scrivere e leggere romanzi non era molto dignitoso,
e Scott stesso quando poteva usava pseudonimi) un nuovo genere
letterario da gran moda: il romanzo gotico. Il capitolo trentesimo
del libro, con il delirio del perfido Front-de-Boeuf e l’apparizione
della strega Ulrica è un esercizio di 'bravura nel più puro stile
gotico.
Che più? Ci sono tutte
le astuzie di un narratore. I torti che danno appuntamento alte
riparazioni, le offese che danno appuntamento alle immancabili
vendette, i contrasti iniziali fra Sassoni e Normanni che danno
appuntamento alla finale riconciliazione.
Questo l’assemblaggio.
Ma allora, se è così facile posiamo provarci anche noi. Prendiamo
un po’ di archetipi, un po’ di topoi... Sì, ma come faremo a
tenerli insieme?
E’ qui di segreto di
Scott, o quanto meno di Ivanhoe. Nel cemento. Che non c’è.
Come un grande architetto, egli è riuscito ad innalzare una
struttura di questa mole, di questa portata, che si tiene in piedi
per un gioco di spinte e controspinte, di tensioni dinamiche.
La tensione fondamentale
è questa. Da una parte c’è la cavalleria. Com’è bella a
vedersi, ma com’è sordida meschina vendicativa e sanguinaria nella
sostanza! D’altra parte c’è il mondo prosaico, e «borghese»
dell’acquisizione del danaro. C’è l’ebreo Isacco. E’ lui il
personaggio «moderno». Gli altri usano la lancia e la spada, lui
usa già le lettere di credito. Lui usa e fa usare il denaro che
serve poi a finanziare le crociate, a pagare d tornei, a comprare le
armature. A tenere in piedi, insomma, quella pittoresca baracca. Mia
com’è triste, squallida, poco eroica questa sua modernità!
E Walter Scott con chi
sta? E’ diviso. Protegge l’ebreo Isacco e sua figlia Rebecca: ma
alla fine perché la pace torni tra Sassoni e Normanni, deve pregarli
cortesemente da togliersi dai piedi, di andarsene via. E detesta dal
profondo del cuore quella «Cavalleria» piena di pretese e di
pregiudizi. Ma l’ammira. E l’ammirò, detestandola, tutta la
vita.
Per tutta la vita Walter
Scott cercò di costruirsi una spede di castello ad Abbotsfford. Ci
rimise prima un mucchio di soldi, e poi per scrivere forsennatamente
allo scopo di fare altri soldi, ci rimise la salute. Ecco, per
scrivere un bel romanzo non basta stare dalla parte giusta, parlare
per conto della classe giusta, come un oratore in Parlamento. Forse
bisogna stare a mezzo fra due parti contrapposte. Essere, come
Ivanhoe, come Scott, un po’ infelice, un po’ lacerato, un po’
«desdichado».
“la Repubblica” 19
agosto 1980
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