Una vivace rievocazione giornalistica delle reazioni nel movimento comunista internazionale, soprattutto francese e italiano, alla notizia dell'accordo tra Hitler e Stalin. (S.L.L.)
Mosca 1939. Molotov firma per l'Urss il patto ventennale di non aggressione con la Germania |
La notizia del Patto
Ribbentrop-Molotov firmato il 23 agosto del 1939 a Mosca si abbatté
come un terribile elettroshock su tutto il corpo del comunismo
mondiale. Le parole di Stalin rivolte al ministro degli Esteri
nazista: “Io so quanto la nazione tedesca ami il suo Fuhrer, io
bevo dunque alla sua salute” sono, per tutti i rivoluzionari
professionali, i militanti di base, i simpatizzanti, un insulto e un
evento difficile da capire, da accettare, da spiegare.
L'avvenimento era stato
però preceduto da segnali allarmanti che potevano anche far
presagire il peggio. Fin dal maggio del 1939 i dirigenti comunisti
europei seguendo la stampa sovietica avevano capito che qualcosa di
grosso stava maturando a Mosca, e che Stalin aveva deciso di non
lasciare l'iniziativa ai tedeschi e agli anglofrancesi. Il 3 maggio
il duro e fidato Molotov aveva sostituito il più duttile Litvinov al
Commissariato degli Esteri. Venti giorni dopo i giornali davano
notizia delle prime trattative commerciali tra russi e tedeschi, ed
il 30 maggio di quelle politiche. Le voci di una possibile intesa tra
Mosca e Berlino s' infittiscono nei mesi di giugno e luglio, ma
sembrano talmente incredibili da non meritare grande spazio nei più
importanti giornali europei e degli Stati Uniti.
Ciò che bolle nella
pentola sovietica è naturalmente oggetto di accalorate discussioni
nei gruppi dirigenti comunisti. L'epicentro della crisi è la
Francia, appena uscita dall'esperienza del Fronte popolare e dove
opera il più forte e organizzato partito comunista legale dell'
Occidente. La Francia, in quell'estate del 1939, vive già in un
clima di preguerra e di mobilitazione.
Quando i giornali di
Parigi pubblicano a caratteri cubitali la notizia del Patto firmato a
Mosca, lo stato maggiore del Pcf è in vacanza. Maurice Thorez nelle
Alpi, Charles Tillon nella Haute-Vienne, Jacques Duclos in un
villaggio dei Pirenei. Qualche avvisaglia, in realtà, il Pcf l'aveva
avuta. Alcuni giorni prima della firma del patto Georges Gosnat un
alto dirigente molto amico dei sovietici era stato convocato d'
urgenza a Mosca per consultazioni. Qui il segretario del Comintern in
persona, Dimitrov, lo aveva informato della gravità della situazione
internazionale. In particolare il Pcf avrebbe fatto bene a stare in
guardia. Maurice Gitton, quando scoppia la bomba, è il solo membro
della direzione ad essere presente in sede. Che fare? Come
rassicurare i 318.000 iscritti comunisti dando loro direttive
credibili? Il 23 agosto “l'Humanité” ha pubblicato forse
ispirata dai rappresentanti del Comintern in Francia uno strano
articolo nel quale si auspica, in nome della pace mondiale, un
generale embrassons nous, comprendendo la Germania di Hitler e
l'Italia di Mussolini.
Il giorno dopo 24 agosto
il Pcf è già ben allineato mentre l'indignazione dei francesi,
senza troppe distinzioni di classe o di credo politico, è al
massimo. Gitton sull'“Humanité” e Louis Aragon su “Ce Soir”,
sostengono la tesi quasi obbligata che il Patto è una vittoria
dell'Urss, di Stalin, del pacifismo. Ma le acrobazie dialettiche
servono a poco. La situazione per il Pcf diventa di ora in ora più
pesante. Il 25 agosto il presidente del Consiglio Daladier ordina la
sospensione di “Ce Soir” e dell'“Humanité” e di tutti gli
organi di stampa che possano danneggiare la difesa nazionale.
Stalin stringe la mano a Ribbentrop, ministro degli Esteri del Terzo Reich |
Quella terribile
fotografia
Il primo settembre è il
giorno cruciale. Hitler invade la Polonia, e Daladier ordina la
mobilitazione generale. Due giorni dopo la Francia è in guerra. Il
governo proibisce comizi e manifestazioni comuniste, mentre la
polizia comincia a sorvegliare strettamente le attività dei
permanents, i quadri professionali del partito. Il 26 settembre in
un'atmosfera di crescente confusione e disorientamento il governo
decreta lo scioglimento del Pcf e l'arresto di molti membri del
Comitato centrale, tra cui Francois Billoux membro dell'ufficio
politico.
Poi la situazione
precipita. Il Pcf è costretto a cambiar nome e i suoi parlamentari a
presentarsi come Gruppo operaio e contadino. A decine di migliaia
militanti, e simpatizzanti ripudiano il comunismo francese.
Un'istruttoria è aperta a carico dei deputati del Pcf colpevoli di
aver ricostituito un' associazione disciolta. Trentaquattro deputati
comunisti sono arrestati. Ventisette si dimettono dal partito. Molte
centinaia di consigli municipali a maggioranza comunista sono
disciolti. Gran parte delle 12.658 cellule sono in via di
decomposizione. Lo stesso segretario del partito Maurice Thorez dopo
una fuga avventurosa, si rifugia in Belgio. E' una penosissima
diaspora. Occorreranno anni - e soprattutto l'attacco di Hitler alla
Russia - per rimarginare quella profonda ferita.
Per i comunisti italiani
che vivono in carcere o da fuorusciti la situazione non è meno
drammatica. La terribile fotografia in cui si vede Stalin stringere
la mano a Ribbentrop, oltretutto, coglie il Pci in un momento di
profonda crisi. I rapporti con i cugini socialisti tendono a
peggiorare ogni giorno di più. La tensione all'interno dell'Unione
popolare l'organizzazione che riunisce fin dal 1937 i partiti
antifascisti aumenta al punto tale da far temere una prossima
dissoluzione. Nel Pci il sospetto generalizzato paralizza da tempo la
vita dell' apparato. Giuseppe Berti a quel tempo capo del partito è
un uomo colto e intelligente ma incline in modo quasi paranoico a
vedere spie e nemici dovunque. Ruggero Grieco e Giuseppe Dozza sono
accusati di gravi errori, e da Mosca il potente Manuilski vice di
Dimitrov lancia agli italiani accuse di passività e d'incapacità
politica. Per completare il quadro il Comitato centrale del Pci è
stato sciolto d' autorità in una data imprecisata del 1938.
Il primo a reagire contro
il Patto e a dare il via alle ostilità è Pietro Nenni. Nenni è
stato per anni il socialista più unitario, il più comprensivo verso
le difficoltà dell'Unione Sovietica. Il suo intervento a favore
della repubblica spagnola è stato generoso e senza riserve. Ma come
accettare quel Patto scellerato e così contro natura? Perfino il
comprensivo Nenni non lo può. Egli si dimette da segretario del
partito e condivide, forse un po' a malincuore, le posizioni
accesamente anticomuniste dei repubblicani e di Giustizia e Libertà.
Sull'“Avanti” Nenni accusa Stalin di non aver detto una sola
parola di giustificazione alla classe operaia internazionale che è
stata così interamente abbandonata a se stessa. Riferendosi ai
dirigenti del Pci lancia un appello: “La causa dell' unità è
nelle vostre mani. Dite le parole che la vostra coscienza non può
non dettarvi. Quello che noi vi chiediamo è di riconoscere che il
Patto di Mosca non s' inserisce nella linea politica che abbiamo
insieme difesa e che volevamo assieme far trionfare...”.
Da Ventotene i
ricordi della Ravera
I dirigenti del Pci
divisi e confusi non vogliono, né possono, seguire il consiglio di
Nenni. Oltretutto non saprebbero neppure come far sentire la loro
voce. Le autorità francesi subito dopo la firma del Patto hanno
stretto i freni sopprimendo prima “Lo Stato operaio” e il 26
agosto “La voce degli italiani”. Felice Platone e Mario
Montagnana fanno però a tempo a scrivervi gli ultimi editoriali nei
quali espongono la tesi ardita che il Patto Molotov-Ribbentrop
rappresenta in realtà una sconfitta dell'anticomunismo e,
addirittura, un contributo per far rinculare il fascismo sulla via
della guerra e della catastrofe.
Fortunatamente c'è a
Parigi in quei giorni un ospite d'eccezione: Palmiro Togliatti.
Togliatti è stato tra gli ultimi a lasciare la Spagna per
raggiungere via Parigi, dopo un viaggio avventuroso nel maggio del
1939 la capitale sovietica. Inaspettatamente Togliatti uno dei più
importanti dirigenti del Comintern viene rispedito solo tre mesi dopo
alla fine di luglio a Parigi. Paolo Spriano nella lunga ed esauriente
introduzione al IV volume delle Opere di Togliatti (Editori
Riuniti) affaccia l'ipotesi del tutto credibile che egli sia stato
mandato a Parigi per seguire da vicino la situazione francese in un
momento delicato quale è quello del luglio 1939. Confrontando le
varie testimonianze rese da importanti protagonisti dell'epoca si può
arrivare alla conclusione che Stalin e Dimitrov abbiano inviato per
conto del Comintern, ma soprattutto della diplomazia sovietica il più
brillante e intelligente leader del comunismo a Parigi per
controllare da vicino le nuove e difficili situazioni che l'intero
fronte comunista occidentale avrebbe dovuto affrontare.
Togliatti ha sempre
cercato di accreditare la tesi che la sua presenza a Parigi si era
resa necessaria per riparare agli errori del gruppo dirigente: “Le
cose non andavano molto bene. I migliori compagni erano stati a
combattere in Spagna, e si era sentita la loro assenza. Era stato
fatto qualche errore politico...”. Ma le cose sono molto più
complicate di quanto Togliatti vorrebbe far credere. In una
testimonianza resa a Giorgio Bocca, Berti allora segretario del Pci
dà infatti una versione che combacia sostanzialmente con quella di
Spriano. “Verosimilmente, dice infatti Berti, Togliatti aveva dei
compiti orientativi e informativi presso i partiti italiano e
francese, ma attendeva altre istruzioni di cui non conosceva la
natura”. “Ricordo, spiega Berti, che andai a trovarlo; stava
seduto su un divano, giocherellava con una pallottolina di carta. Se
sei qui per il partito gli dissi dimmelo, ti lascio immediatamente la
direzione. Lui sorrideva, si passava la pallottolina da una mano
all'altra: “Nessuno mi ha mai detto di riprendere la direzione del
partito, sto qui e aspetto. Ma devi almeno rientrare nella
direzione!”. “Mi parve in uno stato d'animo incerto, preoccupato.
Nei giorni che seguirono, quando si seppe del patto russo-tedesco,
arrivai a pensare che fosse stato allontanato da Mosca per motivi
diplomatici.
Togliatti, in effetti,
non dimostra un grande attivismo. Che cosa abbia fatto e come si sia
regolato in quei giorni non è chiaro. Togliatti, si limita a dire
Spriano, fa propria la tesi del segretario del Pcf Maurice Thorez:
“Si deve distinguere tra un giudizio sul Patto, che è positivo, e
la necessità di battersi contro il nazismo se Hitler scatena la
guerra”. Ma Togliatti non farà a tempo a sviluppare una più
organica e convincente linea di difesa. Le retate di polizia contro i
fuorusciti comunisti s'intensificano. La notte del 31 agosto è
arrestato Luigi Longo. Il giorno dopo è la volta di Togliatti che
fornito di falsi documenti e di un nome inventato viene trasferito
prima nel carcere di Fresnes e poi alla Santé. Ma è soprattutto in
Italia nelle carceri e nelle isole di confino dove sono rinchiusi i
comunisti che la notizia del Patto provoca il maggior sconcerto e le
più grandi lacerazioni. Al contrario dei compagni fuorusciti sono
privi di notizie e possono leggere solo i giornali sportivi e le
riviste fasciste. Nei cameroni di Civitavecchia, di Sulmona, di San
Gimignano, di Castelfranco Emilia, è un continuo discutere ma, alla
fine, a prevalere è come sempre l'idea che l'Urss e il compagno
Stalin non possono sbagliare. A Ventotene è presente il Gotha del
comunismo italiano. Oltre a Terracini, Scoccimarro, Secchia, Longo,
La Ravera, ci sono in quell'isola più di 1700 quadri di partito e
una minoranza di non comunisti: otto anarchici, Sandro Pertini, e una
mezza dozzina del movimento Giustizia e Libertà. Che cosa avvenne in
quelle tormentatissime giornate di fine agosto del 1939 lo ha
raccontato anni fa Camilla Ravera all'autore di questa rievocazione.
Le clandestine
“Lettere a a Spartaco”
Quel 23 agosto, ricorda
la Ravera, come ogni pomeriggio mi recavo con altri compagni
all'appello che si faceva due volte al giorno in piazza, nel piccolo
centro abitato dell' isola. Dopo l'appello, spesso il proprietario
dell'unico emporio dell'isola, d'accordo con la direzione della
colonia, metteva la radio sul balcone di casa, specialmente se
c'erano notizie favorevoli al fascismo.
“E così, continua la
Ravera, quella sera, nello stile secco e senza commenti del giornale
radio, sapemmo del patto Molotov-Ribbentrop. Lo sconcerto,
l'incredulità, lo sbalordimento s'impadronì di tutti i confinati.
“Ma come è possibile!,
non sarà vero, bisbigliarono tutti a caldo. Poi, il giorno dopo, la
notizia fu confermata dai giornali. Ma fin da quel pomeriggio si
accesero tra noi le discussioni. I non comunisti all'unanimità
condannarono l'accordo con la Germania, accusando l'Urss di tradire
le speranze di tutti i popoli che lottavano contro il nazifascismo.
Questa era la posizione di Pertini, di Ernesto Rossi, di Riccardo
Bauer, di Vincenzo Calace.
“Fra noi comunisti,
spiega la Ravera, ci fu un acceso dibattito interno. L'unico a dare
una risposta immediata, alla quale fu poi sostanzialmente fedele, fu
Terracini. “Questo fatto non trova nessuna giustificazione”,
diceva. Prima di tutto perché era convinto che la Russia, malgrado
il Patto, sarebbe stata aggredita dalla Germania, come Hitler diceva
e aveva anche scritto nel suo Mein Kampf. In secondo luogo
perché un accordo fra la potenza nazista e il più grande paese
socialista avrebbe sicuramente indebolito la lotta di tutti i paesi
europei. Ma la posizione di Terracini, precisa Camilla Ravera, era in
netta minoranza perché Longo, Scoccimarro, anche Secchia, che di
solito era bastian contrario, decisero subito che questo patto non
avrebbe dovuto creare una rottura tra il gruppo dirigente e la base
del collettivo comunista così lo chiamavamo dei confinati di
Ventotene. La posizione ufficiale, da me appoggiata in pieno, fu
questa: noi siamo tagliati fuori da troppi anni dalla vita politica e
dalle masse, e non abbiamo perciò gli elementi per giudicare. Non
conoscendo né i motivi, né le clausole dell'accordo, va accettato
per l'autorità da cui proviene, cioè da un paese che rappresenta la
nostra lotta. Questa posizione che accomuna la disciplina di partito
alla sconfinata fiducia nel compagno Stalin è ben sintetizzata da
Giulio Cerreti, un importante dirigente, nelle sue memorie.
“Mi guarderei bene,
dice Cerreti, dal gettare la croce su tutti quei compagni che in
buonafede, nel 1939, di fronte al patto russo-tedesco persero la
bussola... Per quelli come me che credevano ad occhi chiusi al mito
di Stalin e dell'Urss, era relativamente facile superare quel momento
drammatico. Ma per gli altri? Per gli scettici? In un momento simile
solo la fede cieca nella causa socialista e nel primo Stato operaio
del mondo poteva aiutarci...”.
Ma a questo punto per
concludere la rievocazione delle ripercussioni del Patto
Molotov-Ribbentrop sul mondo comunista dobbiamo tornare a Parigi.
Abbiamo lasciato Togliatti nel carcere della Santé. Dimitrov in
prima persona e l'intero apparato del Comintern si sono mobilitati
per la sua liberazione, assoldando avvocati di grido e,
probabilmente, trattando sottobanco con la polizia e i servizi
segreti di Parigi. Uscito dal carcere, e prima di partire per Mosca,
Togliatti trascorre un mese nascosto nella casa di Umberto Massola.
Ed è qui che il capo dei comunisti italiani prepara quelle Lettere
di Spartaco che costituiscono il punto più alto dello stalinismo
del Pci, e forse sono la vera ragione della missione di Togliatti a
Parigi. In quelle lettere il Patto viene giustificato e preso a
pretesto per una serie di attacchi forsennati ai socialfascisti:
“Fanno oggi quello che fecero nel corso della guerra imperialistica
del 1914-1918. Sono al servizio della borghesia imperialista
reazionaria e guerrafondaia, sono all'avanguardia nelle campagne di
menzogne, di calunnie, e di provocazioni...”. Il 3 settembre del
1939 Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Comincia
la drole de guerre che di lì a pochi mesi si trasformerà
nella più spaventosa tragedia di questo secolo. Cinquant'anni sono
trascorsi da quel fatal brindisi tra Stalin e Ribbentrop. Ma le
scorie del Patto come certe piogge radioattive continuano a
manifestare i loro effetti negativi.
la Repubblica 18 agosto
1989
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