Torino Primo Novecento - Piazza Castello dopo una nevicata |
Edmondo De Amicis,
secondo il malevolo Carlo Dossi, vedeva soltanto "la somma pelle
delle cose", una disposizione che è comunque la prima dote del
giornalista. Di questa qualità De Amicis fece largo uso nelle
corrispondenze dai Paesi europei e mediterranei fra il 1871 e il 79:
"descrittore in ozio", lo definì Croce e "pei
descrittori in ozio c'è sempre pronto il libro di viaggio".
Spagna, Londra, Olanda,
Marocco, Costantinopoli e Parigi furono i luoghi che visitò e ai
quali sono dedicati, appunto, sei libri di viaggio dove un
giornalista dalla prosa agile e brillante, leggibile ancora con
diletto, appare alla ricerca del colore più che dei fatti come
avveniva nel giornalismo ottocentesco, propenso alle avventure e un
po' meno alle inchieste.
Torino 1880, di
Edmondo De Amicis, pubblicato ora da Lindau nella collana "La
città" (pagg. 69, lire 9.500) appartiene a quel "descrittore"
che aveva reso il senso della grandezza di Londra e della vita
notturna di Parigi. Il testo è ripreso dal volume collettivo Torino
(Roux e Favale, Torino 1880) ove compare col titolo La città,
con illustrazioni di sobria e un po' grigia accuratezza, tratte dalla
pubblicazione Torino e l' Esposizione Italiana del 1884 col
concorso dei torinesi Roux e Favale e dei Fratelli Treves di Milano.
De Amicis si propone come "un Torinese che voglia far da guida a
un Italiano" dopo aver "cercato molte volte, curiosamente,
con uno sforzo dell' immaginazione", di rendersi conto "dell'
impressione che può provocare la città di Torino in un Italiano che
la veda per la prima volta". "L'Italiano" guidato da
De Amicis è subito condotto a Superga, di fronte allo spettacolo
dell'"immenso cerchio dell'Appennino genovese e delle Alpi",
di "una successione di sterminati tappeti verdi", di "una
campagna sconfinata, che si perde nelle pianure vaporose della
Lombardia". Si rammarica l'autore che "tutta quella
bellezza" non abbia trovato un poeta che la esalti, il Foscolo
del "Te beata..." a beneficio di Firenze.
De Amicis accompagna il
visitatore in lungo e in largo indugiando sulle glorie sabaude, sul
"torrente di ricordi" che deve sollevare "un italiano
che venga a Torino per la prima volta, se appena ha una scintilla d'
amor di patria nel sangue". Ma per fortuna il libriccino è
dedicato in prevalenza ai caratteri della città resi con grande
esattezza e spunti fantasiosi come quando confronta le case francesi,
"gabbioni con pretese di palazzi, parate di decorazioni
posticcie, bottegaie rinfronzolite" e le "file d'umiliate"
torinesi, "schiere di alunne di collegio-convitto, grosse
massaie benestanti, tarchiate, in abito da camera" nel trionfo
del color giallo, "dal calcare cupo all'oro pallido, misto
d'innumerevoli tinte verdognole e grigie, che però si perdono in una
tinta generale giallastra, un po' sbiadita".
De Amicis descrive ogni
aspetto della città, dalla "regolarità compassata",
dall'"uniformità che lascia la mente libera" delle grandi
strade, ai cambiamenti di scena dove la città "si oscura, si
stringe, s' intrica, si fa povera e malinconica". Qui sono le
case "alte e lugubri", teatro di vicende complicate nei
romanzi di Carolina Invernizio, casamenti dove sullo stesso
pianerottolo si incontrano un colonnello imperioso, un agente di
cambio, "ottima persona benché israelita", un impagliatore
di seggiole, una levatrice "dal portamento maschio e dalla voce
brusca", una cortigiana dal "sorriso impudente sulle labbra
dipinte".
L'autore presenta con
ordine le varie parti della città, a cominciare dagli "angoli
ariosi e tranquilli" delle zone lontane dal centro, dalle
abitazioni dove si scende "per la scala sociale a misura che si
sale per le scale della casa", dal primo piano della contessa
all' ultimo con "l'impiegatuccio tirato" che legge il
giornale sotto i tetti, fino alla "moglie dell' operaio che
stende i suoi cenci fuori della soffitta". Si susseguono il
quartiere vecchio dei "covi di rigattieri", degli
albergucci "con insegne grottesche", delle "bottegucce
che han tutto fuor dell' uscio, fra odori di formaggi, di scarpe, d'
olii, d' acciughe" e la "nuova Torino giovanile",
regolare e simmetrica, "che spalanca verso le Alpi la gran bocca
di piazza dello Statuto". Poi la Torino dei sobborghi,
"democratica, un po' rozza, piena di buone speranze" e la
Torino militare, le strade quasi deserte dove son raccolti i
principali istituti di beneficenza, fra "echi lontani di
litanie" e "tintinnii di campanelli di parlatorii",
per arrivare al "ventre di Torino", in pieno mercato. Il
ventre di una città è l' antro enorme e oscuro, aperto alle
ricognizioni degli scrittori dell' Ottocento, sull' esempio di Zola
citato da De Amicis, dal Paolo Valera della bituminosa Milano
sconosciuta uscita proprio nel 1880, alla Serao del Ventre di Napoli,
dell' 84. La prosa di De Amicis è molto sapida alle prese col
mercato delle contadine, coi "crocchi intorno a carrozze di
cavadenti, a venditori specifici, a strimpellatori di violino, a
banditori d' incanti" e con la strada che "è tutta da un
capo all' altro una sola enorme bottega di rigattiere all' aria
aperta". Si pensa alla fiorentina piazza San Lorenzo dove,
secondo Fucini, facevano "eccellenti affari cavadenti, indovini"
e "venditori di scarpe, di libri e di frittelle", compreso
sicuramente il "rivenditore di panni usati" che comprò l'
abbecedario di Pinocchio. Mentre "l' interminabile bazar di
cenci e di tritumi", col suo inventario di "padelle senza
manico, elmi, mappamondi, gambe di tavola" ecc., sembra
anticipare, a tratti, le delizie milanesi di Carabattole a Porta
Ludovica di Carlo Emilio Gadda. Animatissimo il movimento della folla
varia e colorata con una quantità di personaggi di ogni ceto,
saluti, voci, gesti e il libriccino si conclude sulla città "più
bella del mondo", che muta con le stagioni, nei mattini d'
inverno e nelle giornate della primavera, e sulla presentazione delle
grandi feste nazionali in pagine vive e concitate, fra le migliori di
De Amicis.
“la Repubblica” 5
settembre 1991
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