Il busto di Antonio Pigafetta al Museo civico di Vicenza |
Isole abitate da uomini e
donne alti non più di un braccio, e con orecchie delle medesime
dimensioni utilizzate una come giaciglio e l'altra come coperta.
Altre isole, popolate stavolta solo da donne, ingravidate dal vento;
se partoriscono un maschio lo sopprimono: allevano unicamente le
femmine. Alberi enormi su cui vivono gli uccelli garuda, talmente
imponenti e forti da riuscire a trasportare bufali ed elefanti.
Così come Marco Polo,
accanto allo sbalordimento per le cose vere che aveva visto, si era
abbandonato al racconto di ancor più sbalorditive aquile che
cacciano diamanti e di pesci che si fanno pescare solo di Quaresima,
due secoli dopo l'autore di un altro straordinario viaggio, Antonio
Pigafetta, sembra rispettare la medesima tradizione che vuole
l'Oriente terra leggendaria, ricca di prodigi. Come nei bestiari
fantastici medioevali e nei Livres des Merveilles, i mostri,
esseri stravaganti e mirabili, sono solo una prova ulteriore della
prolificità della natura, parte integrante della sua occulta, arcana
trama che definisce l'ordine mitico-simbolico del mondo.
Ma tra Marco Polo e
Antonio Pigafetta sono trascorsi, per l' appunto, due secoli. E all'
arcaica idea del viaggio, legata a una conoscenza che si sostiene nel
mito, se ne va ora aggiungendo e sostituendo un'altra. La realtà del
nuovo mondo può essere utilizzata; a questo intento va quindi
finalizzata anche la sua osservazione. E Pigafetta si trova proprio
nel bel mezzo del passaggio verso questa nuova prospettiva.
Appartenente a una delle più illustri famiglie vicentine, di lui non
si sa granché fino al 1519, anno in cui si trova in Spagna al
seguito del nunzio apostolico Francesco Chiericati. È allora che
matura l'idea di avventurarsi verso quanto di grande e meraviglioso
l'Oceano offriva, per ricavarne insieme ad una personale
soddisfazione, anche qualche rinomanza presso la posterità.
Detto e fatto. Ferdinando
Magellano, che già nel 1505 aveva veleggiato lungo le coste d'
Africa e doppiato il Capo di Buona Speranza, da tempo è convinto
dell' esistenza di un passaggio a Sud dell'America meridionale; utile
per aprire una nuova rotta verso le Molucche (le isole delle spezie),
oltre ad essere, en passant, controprova della sfericità
della terra. E visto che il suo progetto viene respinto dalla corte
portoghese, offre i suoi servigi a Carlo V, il quale si dichiara
subito pronto ad accettare la proposta. La spedizione salpa dal molo
di Siviglia il 10 agosto 1519, e al fianco di Magellano c'è proprio
Pigafetta, nel ruolo di criado, ossia di addetto al
comandante.
Superato lo stretto di
Gibilterra e raggiunte le coste brasiliane, la flotta abbandona
finalmente il mondo conosciuto per avventurarsi nell'Oceano Pacifico:
oltre quel capo vi era il mare aperto. Il capitano pianse di gioia e
lo chiamò capo Deseado, perché tanto a lungo lo avevamo desiderato.
Ora sarà la volta delle Filippine e successivamente delle Molucche;
poi, una volta doppiato il capo di Buona Speranza, l'equipaggio
rientrerà a Siviglia il 6 settembre 1522, dopo aver compiuto la
circumnavigazione del mondo da levante a ponente.
In verità a rientrare
sono pochi, pochissimi. Dei duecentosettanta uomini partiti tre anni
prima, i sopravvissuti sono solo diciotto. Tra questi il nostro
Pigafetta, che è scampato a ogni genere di pericolo. Allo scontro
con gli indigeni dell'isola di Mactan in cui sono morti lo stesso
Magellano e sette membri dell'equipaggio; ai ripetuti naufragi, alle
terribili malattie e alla fame che hanno decimato i marinai. Quanto
alla desiderata fama verso i posteri, gli sarà assicurata dalla
relazione che su tutto questo va stendendo: Il primo viaggio
intorno al mondo (Edizioni Associate), pubblicato ora per la
prima volta in italiano moderno (nella traduzione di Michela
Amendolea, arricchita da utili note) e con una densa introduzione di
Nicola Bottiglieri.
Pigafetta dunque come
figura di passaggio dal vecchio al nuovo mondo: se c'è infatti una
cosa che balza subito all'occhio nella lettura di questo diario di
viaggio è proprio la sua natura ibrida, in cui si mescolano debiti
evidenti alla cultura medievale, osservazioni minuziose cui chiamano
i doveri della committenza, stupore incontrollato di fronte al nuovo
che si presenta. Come nelle relazioni coeve, anche qui ci si dibatte
infatti, scrive Bottiglieri, tra l'urgenza di verità della nuova
esperienza che violenta tutte le conoscenze precedenti e la fiducia
nelle risorse della retorica per raccontare ciò che si vede. Nascono
così testi narrativi che possiedono insieme la forza di un vivace
realismo e i ricorsi più imprevisti ad un linguaggio iperbolico,
simbolico, analogico o solo disperatamente fantasioso. Anche se nel
caso di Pigafetta, va aggiunto, egli fa sempre precedere le sue
annotazioni più immaginose da un diligente mi si dice che...,
tali cose mi furono raccontate da....
E poi, comunque, questo è
solo un aspetto del suo testo. Perché il diario deve rispondere
anche ad altre esigenze. Deve fornire informazioni precise sulle
rotte compiute, la conformazione delle coste, le abitudini delle
popolazioni contattate e le merci di cui dispongono. Ecco allora
l'autore assumere le vesti del naturalista che descrive
scrupolosamente le piante che gli si parano dinanzi (lo zenzero, il
garofano, il pepe), o quelle del linguista che compila veri e propri
vocabolarietti relativi alle svariate lingue che via via ha potuto
ascoltare. Dare nome a cose nuove può però, a volte, sortire
effetti altrettanto fantasiosi quanto il render conto delle leggende
del luogo. Un esempio che vale per tutti è la descrizione del
guanaco, animale simile al lama: “Questo animale ha la testa e le
orecchie grandi come quelle di una mula, il collo e il corpo da
cammello, le gambe di un cervo, la coda di cavallo, e come quello
nitrisce”.
Sono, del resto, le
stesse tremende vicende patite a dare un ulteriore tocco
allucinatorio al racconto: “Per tre mesi e venti giorni non
toccammo cibo fresco. Mangiavamo a manciate il biscotto, che non
poteva dirsi tale essendo polvere pullulante di vermi (...)
Mangiavamo molto spesso anche la segatura delle assi. I topi si
vendevano a mezzo ducato l'uno, ed erano rarissimi”. Realtà?
Irrealtà? Visione? Leggenda? Tutto nel racconto del primo uomo che
ha visto il mondo intero si mescola, nel desiderio febbrile di
fissare sulla carta quanto il suo occhio va vedendo. Quanto poi al
problema della veridicità delle sue parole, la cosa è presto
risolta. Semplicemente, non è possibile tradire la fiducia di una
persona come quella cui la relazione è dedicata, il Gran Maestro di
Rodi Filippo Villiers de l'Isle Adam: “Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, vi sono molti curiosi ai quali non basta
conoscere e ascoltare le cose grandi e meravigliose che Iddio mi ha
concesso di vedere e soffrire durante la mia lunga e pericolosa
navigazione che qui ho descritto, ma vogliono anche sapere con quali
mezzi, in che modo e per quali vie mi sono cimentato nell' impresa; i
dovuti chiarimenti all'inizio, comunque, mi assicureranno la loro
fede fino alla fine della narrazione”.
“la Repubblica”,18
agosto 1989
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