Testa in marmo di Silla , Museo della civiltà romana, Roma |
Se c'è un'attività che
somiglia alla professione del medico, è quella dello storico. L'uno
e l'altro ravvisano nella malattia non un fenomeno isolato, ma il
sintomo d'uno stato patologico preesistente o l'indizio di gravi
mutazioni imminenti, nell'organismo dell'individuo così come nel
complesso sociale. All'uno e all'altro il computer fornisce risultati
di indagini e dati quantitativi, ma non quell'intuito psicologico,
quella simpatia umana, quella capacità di sintesi che la macchina
non possiede. Individuare in un personaggio l'espressione di un vasto
disagio sociale e l'iniziatore di un corso politico ed economico
diverso - vale a dire l'esponente d'un trapasso - è ciò che
giustifica la biografia; anche se spesso il genere induce l'autore a
elogiare il protagonista, o, se non altro, a giustificarne l'operato.
È ciò che ha fatto in
una "vita" di Silla, scorrevole e ricalcata sui dati di
Plutarco, lo studioso inglese Arthur Keavenly (Silla,
traduzione di Katia Gordini, Bompiani ). Silla fu effettivamente
significativo d'una fine e d'un principio, e ben se ne accorsero i
contemporanei se i prodigi che precedettero il suo avvento furono
interpretati dagli infallibili profeti etruschi come il segno di
straordinari mutamenti. Dittatore reazionario, cercò di rendere il
potere alla oligarchia dei senatori, i nobili latifondisti, che
detenevano le cariche in regime di monopolio. Ma, benché solidali
come massoni, essi erano insidiati dall'emergere di nuove classi. Non
era più il conflitto elementare tra patrizi e plebei, ma quello tra
il latifondo e una borghesia imprenditoriale, composta di "uomini
nuovi": gli italici, privi di antenati illustri, attivi nelle
banche, nell'industria, negli appalti. Benché sprovvisti d' una
dottrina politica teoricamente formulata, essi volta a volta si
facevano portavoce di scontenti d'ogni genere.
Il secondo elemento che
stava per diventare decisivo nella lotta per il potere era
l'esercito. Il prestigio - l'Auctoritas - dei senatori
declinava di pari passo con la loro fedeltà a quel codice etico che
era stata la religione laica dei repubblicani d'un tempo. I nobili
ormai, portatori di nomi illustri, indegni eredi d'una tradizione
venerabile, del potere volevano i privilegi ma non le responsabilità.
La figura di Silla è illuminata da una luce sinistra. In lui è
stato visto un mostro di crudeltà, un caso patologico, l'aspirante
successore dei Sette Re o il predecessore degli imperatori. Fu
certamente l'inventore della Marcia su Roma. Pose i suoi ideali nel
passato e cercò di resuscitarlo, ma per raggiungere questo fine si
valse dei mezzi che il suo tempo offriva per la prima volta a chi
voleva salire: l'esercito professionale, ligio al suo comandante e
non allo Stato, e l'aureola soprannaturale che gli conferiva un
prestigio carismatico. Non sfuggì ai contemporanei - a Cicerone,
attento testimone di quei decenni convulsi - che in Silla esistevano
in nuce i despoti, potenziali o effettivi, che lo seguirono:
Catilina, Pompeo, Cesare. Se non riconobbe il suo volto in quello di
Augusto, fu perché questi non gliene dette il tempo e lo lasciò
trucidare senza batter ciglio dai sicari di Antonio. "Ambisce al
potere monarchico di Silla", scrisse Cicerone di Cesare al
passaggio del Rubicone; quanto a Pompeo, coniò per lui un verbo al
futuro ("sullaturit", agirà come Silla) che potremmo
tradurre alla buona con "mussolineggerà".
Era un giovane patrizio
spiantato con fama di degenerato, frequentava ambienti equivoci.
Intraprese la carriera politica tardivamente, quando ereditò il
patrimonio necessario da due donne anziane, la matrigna e l' amante.
Come avrebbero potuto resistere al suo fascino? Il suo primo incarico
fu da questore in Africa, al comando di colui che sarebbe diventato
il suo avversario implacabile, Mario. Dopo gli insuccessi dei
generali patrizi che lo avevano preceduto al comando di quella guerra
logorante e inutile, Mario, il console dei "popolari", alla
testa d'un'armata di nullatenenti (erano stati arruolati per la prima
volta quelli che non potevano armarsi a loro spese) stava per
sconfiggere Giugurta, che regnava in Numidia dopo aver trucidato i
cugini, eredi legittimi. L'opinione pubblica lo voleva sconfitto
perché lo riteneva "ammanicato" con i notabili di Roma
("città venale!", pare che dicesse di Roma, "che
sarebbe già venduta se avesse trovato un compratore!"). Ed ecco
Silla - un vero signore, così lo descrive Sallustio - condurre a
buon fine appena arrivato una missione diplomatica delicatissima:
persuadere il suocero di Giugurta, re di Mauritania, a consegnarlo ai
romani. Cosa che avvenne e che Silla non mancò di celebrare, persino
eternando la scena della cattura su una moneta (una piccola lapide
nel Carcere Mamertino ricorda che Giugurta vi fu strangolato, come,
anni dopo, i congiurati di Catilina e il patriota gallico
Vercingetorige).
La carriera successiva di
Silla, che militò ancora valorosamente con Mario nelle campagne
contro i Cimbri e i Teutoni, fu un'accorta partita di scacchi. Le sue
pedine furono il matrimonio con la nobilissima Metella, la popolarità
tra i soldati e, soprattutto, la sua volontà incrollabile di
dominare. Per raggiungere il consolato, per strappare a Mario il
comando della guerra contro Mitridate, non esitò a muovere due
volte, alla testa dell'esercito, contro Roma: erano lontani i tempi
in cui una madre, come quella di Coriolano, fermava il figlio alle
porte di Roma. Silla giustificò la sua prima occupazione dell'Urbe,
nell'88 a.C., con parole che saranno più o meno le stesse usate poi
da Cesare e da Ottaviano in condizioni analoghe: il sacrilegio era
stato commesso perché il console aveva il dovere di salvare la
patria da una fazione tirannica. La seconda volta non ci furono
parole (82 a.C.), ma soltanto sangue. Il compenso elargito a chi
uccideva uno dei proscritti favoriva le vendette private, le rapine;
vi furono figli che uccisero i padri, fratelli i fratelli; il giovane
Catilina fu visto attraversare Roma reggendo per i capelli la testa
recisa di Marco Gratidiano. Ma Silla aveva battuto Mitridate,
l'esercito gli era fedele; su questa base fondò la dittatura. Impose
provvedimenti avversi ai popolari; limitò al massimo i poteri dei
tribuni della plebe e dei comizi; tolse agli equites, i
borghesi padroni delle leve economiche, l' autorità giudiziaria che
detenevano dal 146 a.C.
Era stato Tiberio Gracco,
con la lex Calpurnia, a introdurre gli equites -
elementi anti-senatoriali - nel tribunale che sedeva in permanenza
per giudicare i reati di estorsione commessi da proconsoli,
magistrati e funzionari nell' esercizio di poteri civili, giudiziari
e militari, anche quando erano scaduti dalla carica. Non si trattava
di inchieste caso per caso, ma d'una indagine continua su chi
occupava un posto di responsabilità. Per imporre le sue volontà
Silla si valse dei due elementi sui quali si fondava la sua autorità:
l'imperium, che gli era stato affidato dal Senato e che aveva
valorosamente esercitato per il bene della Repubblica, e la
protezione particolare degli dèi, di cui menava vanto, facendosi
chiamare "Protetto da Afrodite" o "Felix",
il che vuol dire "Fortunato" - e, nella mentalità degli
antichi, la fortuna è il premio che gli dèi concedono a chi
commette azioni pie e giuste - sarà Giobbe il primo a mostrare
l'esempio d'un uomo religioso e retto colpito dalla sventura.
Il dispotismo del resto
era ineluttabile: un dominio così vasto doveva esser governato con
prontezza e con rigore da un uomo che avesse dato prova di saper
condurre un esercito alla vittoria. Quel condottiero vittorioso
doveva contare sull'obbedienza dei militari, ai quali elargiva come
compenso terreni espropriati a possidenti incolpevoli, e al tempo
stesso doveva offrire a masse eterogenee e insicure, quali erano i
sudditi dell'impero, una ideologia rassicurante, una mistica del
dominio. Il connotato più notevole nella figura di Silla fu appunto
l'aver promosso e accelerato quel processo di divinizzazione del
sovrano che culminerà nelle immagini ieratiche e aureolate degli
imperatori di Bisanzio. Forse, queste tendenze furono rafforzate in
lui dai prolungati soggiorni in Asia: i militari, dal canto loro,
avevano appreso in Oriente i vizi tipici di quei paesi, l'amore del
lusso e del piacere. La frugalità quirite era scomparsa e l'animo
virile del romano fu sfibrato proprio quando gli si chiedeva di
restaurare i valori antichi. Con quel grande conservatore la
fisionomia tipica di Roma si snaturò. E questa non fu che una delle
ironie della storia.
“la Repubblica”, 9
agosto 1985
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