Dopo
essere stata utilizzata da Contini come titolo per la sua raccolta di
saggi montaliani (1974), chissà quante volte la formula «una lunga
fedeltà» è stata spesa a proposito e a sproposito nelle lettere
italiane. La tentazione di servirsene per l'attività di Pietro
Gibellini intorno a Belli è poco resistibile: il lungo corso, solo
per stare ai libri, s'inaugura nel 1974 con un'antologia diventata di
riferimento, La
Bibbia del Belli,
mentre un'altra antologia dal titolo marinista, Sonetti
erotici e meditativi,
nel 2012, presentava un Belli con dei neri degni di Goya. In mezzo,
altre antologie commentate e due capitali raccolte di saggi e studi:
nel 1979 Il
coltello e la corona;
dieci anni dopo, con chiara allusione alla risciacquatura manzoniana
in Arno (Manzoni è un'altra stella fissa di Gibellini), I
panni in Tevere.
Dunque davvero una lunga fedeltà, un lungo assedio e anche
un'inchiesta: una vera e propria «Belliade»; e, nel mare dei
Sonetti
del grande poeta, si vede come il capitanato di lungo corso sia
ormai, e non da oggi, un ammiragliato, come mostrano l'attesa per
l'edizione critica e commentata alla quale Gibellini lavora da anni
con Lucio Felici per i «Meridiani» (speriamo arrivi in questo 2013,
a centocinquanta anni dalla scomparsa del poeta) e la raccolta degli
ultimi venti anni di attività consegnata al titolo Belli
senza maschere Saggi e studi sui sonetti romaneschi
(Aragno, pp. 537, € 28,00).
Poeta
che regge infinite letture, Belli è uno dei grandi classici della
nostra letteratura. La sua fortuna, in massima parte novecentesca, si
è via via sottratta all'angustia del poeta dialettale ed è
diventata patrimonio comune. Non si sa se universale, ma comune sì.
E mentre diventava patrimonio comune ha posto, tra gli altri
innumerevoli, due quesiti: a che altezza vada posta la grandezza di
Belli e quali siano i nessi e le relazioni che agiscono dentro la sua
poesia e che la sua poesia genera. Non solo per Gibellini - ma gli si
è grati per l'esplicitezza-, la poesia dei Sonetti
è all'altezza massima, vicino a Dante e a Manzoni. Ora, non è un
caso che i nomi siano gli stessi per i quali si è di volta in volta
affacciata la questione del «realismo», variamente intonata. Per
sgombrare il campo dagli equivoci: nei grandi poeti il realismo può
anche non aver a che fare con alcuna realtà o può aver a che fare
con una realtà massimamente visionaria: il realismo è
un'impostazione di stile, un'opzione linguistica, una particolare
condensazione espressiva, fino all'espressivismo. A questa immagine
di Belli hanno lavorato in maniera anche opposta, ma in fin dei conti
convergente, non soltanto i nomi maggiori della critica belliana, da
Vigolo e Muscetta in poi, ma i numerati scrittori che al poeta si
sono interessati. Gibellini dedica il capitolo di apertura a «Belli
oltre il realismo», e il titolo vale da sigla delle sue intenzioni.
Così come la sezione dedicata ad alcuni studiosi di Belli
ripercorre, di scorcio, quattro tappe dell'interpretazione del poeta,
a cominciare dal primo editore del corpaccione di oltre trentamila
versi, Luigi Morandi. Che, come tutti i primi editori, ebbe varie
responsabilità, che generarono meriti indubbi e qualche colpa,
magari indotta dallo spirito del tempo, come l'idea del famigerato e
pruriginoso «sesto» che «si vende in busta chiusa» - diceva
l'avvertenza - e che, come ogni censura, portò a una spinta nelle
vendite di quel volume dagli altri separato.
Per
il secondo quesito, riguardante nessi e relazioni della poesia di
Belli, la risposta risente di una difficoltà inaggirabile: che il
poeta in vita fu invisibile nella sua sostanza e nella sua grandezza,
e quel che se ne vide fu poco; la parte in mostra riguardava
soprattutto la sua produzione in versi non romanesca, diciamo pure
generalmente fiacca e accademica. Negli anni di febbre che portarono
al monumento dei Sonetti,
Belli scoprì un continente della cui consistenza riferì con furore
unico, e del quale ebbe spavento, fino ad auspicare la distruzione -
il rogo - per il monumento eretto. Invece diventato più duraturo del
bronzo. Nella sezione intitolata ai contatti di Belli con suoi
lettori di eccezione, si segnalano nel volume i capitoli su Manzoni
(che del Belli fu ritroso lettore) con l'indagine su «Luscia,
Giartruda e altri nomi manzoniani» nel teatro dei Sonetti
(l'onomastica manzoniana riscoperta ogni volta come nuova da Cesare
Angelini, Ornella Castellani Pollidori, Gianfranco Contini e che
Belli aveva attinto dallo stesso Messale);
e su «Verga, Belli e il duello rusticano», con la partenza dedicata
ai due maestri del realismo - da nessun -ismo ingabbiabili - nel loro
interesse per la fotografia e con lo sviluppo incentrato su una serie
sospetta di coincidenze lessicali.
Dei
2279 sonetti di Belli si è fatto ogni uso: li si è fatti a pezzi
per temi svariati, tagliuzzandoli fino all'anestesia o fino alla
difformità rispetto al progetto originario del poeta: anche se è
indubbio che una buona dose della fortuna sia dovuta proprio alle
antologie. Ora, l'idea che il monumento della plebe di Roma, come
l'autore stesso definisce le poesie romanesche (così titolate
nell'Edizione Nazionale per le cure di Roberto Vighi), sia un poema
corale è suggestiva e magari non del tutto verificabile: oltretutto
non sappiamo quale ne sarebbe stata la forma definitiva; ma è certo
che uno spirito unitario, una voce che tira i fili di tutte le altre
sia rintracciabile: «Distinti quadretti, e non fra loro congiunti
fuorché dal filo occulto della macchina». Queste Fleurs
du mal
spuntate sulle rovine di Roma e sul formicolare delle vite
trasteverine sono una delle voci più potenti della modernità
poetica europea, come da pochi ma buoni fu subito colto. Però solo
il tempo ha mostrato, lo si è detto, la grandezza della poesia di
Belli in scala europea e in seno alla modernità. Questaspintaverso
il moderno è accentuata dal gusto e dalla formazione di Gibellini
(si veda il capitolo che parte da un famoso giudizio di D'Annunzio su
Belli: «il più grande artefice del sonetto che abbia avuto la
nostra letteratura»), che ne tiene filologicamente ancorati i
connotati a ciò che Belli fu, tratti arcaizzanti compresi; ma è, si
può dire, una spinta necessaria a leggere Belli come si deve,
arrivando fino al suo controverso cattolicesimo, al buio nichilismo,
al riso demoniaco che per prima vittima scelse il poeta stesso, o
l'uomo che stava dietro e dentro il poeta.
alias-talpa il manifesto, 6 gennaio 2013
alias-talpa il manifesto, 6 gennaio 2013
Nessun commento:
Posta un commento