Il numero 184/185 di “Aut
aut” fu dedicato alle Nuove antichità, cioè all’evoluzione
degli studi sull’antichità che un tempo si chiamava classica, e
curato da Mario Vegetti. Comprendeva studi di Vernant, di Diego
Lanzaa, Casagrande e Vecchio, Detienne, Burkert, Le Goff e altri. Il
quotidiano “il manifesto” ne pubblicò in anteprima alcuni
assaggi (dalla presentazione di Vegetti, dal saggio di Lanza, La
paura di Edipo, e da quello di Detienne, Pratiche culinarie e
spirito del sacrificio). Riprendo qui il brano di Detienne
dedicato alle relazioni, assai strette nell'antichità, tra il
sacrificale e il politico. (S.L.L.)
Bisognava essere molto
disattenti ai dettagli del racconto di Dionisio divorato dai Titani
per leggervi un rituale del mangiare crudo, quando la narrazione
insiste sull’unione dell’arrostire e del bollire, così singolare
in questo caso, poiché propone di arrostire il bollito, che fornisce
la materia e l’enunciato di un «problema» della collezione
aristotelica. Sono proprio queste indicazioni sul modo di cucinare
che fanno riferimento nel mito ai gesti familiari e rituali del
sacrificio cruento.
Lo spiedo e il calderone
costituiscono, con il coltello, gli strumenti solidali di un modo di
mangiare, che, nei racconti sull’Egitto, Erodoto mette al centro
della differenza, dell’alterità in cui i Greci possono pensare sé
stessi nei riguardi degli Egiziani. Mostrando ripugnanza a servirsi
del coltello di un Greco, dei suoi spiedi o del suo calderone, perché
essi sacrificano o si nutrono secondo altre regole, gli abitanti
dell’Egitto, di cui Erodoto racconta, rinviano a coloro che
ascoltavano le Storie un’immagine di loro stessi all’interno
della quale il sacrificio greco, considerato per gli strumenti che vi
sono impiegati, si trova delimitato dalla sua funzione alimentare. È
questo un primo tratto che giustifica il posto centrale del
sacrificio cruento nel pensiero sociale e religioso dei Greci:
l’alimentazione carnea coincide completamente con la pratica
sacrificale; ogni carne consumata è una vittima animale sgozzata
ritualmente, e il macellaio che fa colare il sangue delle bestie
porta lo stesso nome funzionale del sacrificatore posto accanto
all’altare insanguinato.
Ma il sacrificio trae la
sua importanza da un’altra funzione che rafforza la prima: la
necessaria relazione con l’esercizio del rapporto sociale, a tutti
i livelli del «politico», all’interno del sistema che i Greci
chiamano «città». Nessun potere politico può esercitarsi senza
pratica sacrificale. L’entrata in guerra, lo scontro col nemico, la
conclusione di un trattato, i lavori di una commissione temporanea,
l’apertura dell’assemblea, l’entrata in carica di magistrati
sono altrettante attività che cominciano con un sacrificio seguito
da un pasto. Tutti i cittadini che esercitano una magistratura
offrono regolarmente sacrifici; e, fino a epoca tarda, una città
come Atene mantiene in carica un Arconte-Re che ha, fra i suoi
compiti principali, quello dell’amministrazione di tutti i
sacrifici istituiti dagli antenati, dell’insieme cioè dei gesti
rituali che garantiscono il funzionamento armonioso della società.
Due esempi consentono di
dare la misura della solidarietà fra il politico e il sacrificale.
Il primo viene dallo spazio carcerario che i cittadini attraversano
temporaneamente quando aspettano la decisione di un tribunale o
l’esecuzione di una pena. Tutti i prigionieri condividono il fuoco
e la tavola: sacrificio e pasto confermano l’effimera comunità del
gruppo incarcerato. Unico escluso dalla celebrazione di questi
sacrifici alimentari è l’individuo tipicamente asociale, respinto
dai compagni di detenzione, che si rifiutano di accendere il fuoco
con lui e di fargli posto nella loro città in miniatura.
Invece il secondo esempio
si orienta verso l’estensione dello spazio politico: per fondare
una colonia, basta portare con sé dalla madrepatria uno spiedo e una
pentola che contiene del fuoco. Il sacrificio, reso così possibile,
non è solamente l’atto di fondazione di una nuova comunità
politica generata dal fuoco della prima, ma occupa il posto
privilegiato nelle relazioni filiali che una colonia intrattiene con
la sua terra d’origine. Tucidide ci racconta che se i Corinzi
odiavano la gente di Corcira, colonia di Corinto, è perché nelle
cerimonie religiose, alla distribuzione delle carni delle vittime, i
cittadini di Corcira non si curavano di cominciare da un Corinzio, a
cui avrebbe dovuto spettare la parte d’onore. Del resto, quando due
città stringono un patto di alleanza, la divisione del potere si fa
secondo il tracciato della loro rispettiva partecipazione ai
sacrifici. Così, per due città di diversa importanza, come Myania e
Hypnia nella Locride occidentale, i loro contributi in giudici, in
ambasciatori all’estero, in soldati, in magistrati della comunità
sono fissati proporzionalmente ai sacrifìci, cioè in funzione del
numero delle vittime fornite da ciascuno dei partner nelle cerimonie
che li riuniscono per le attività di culto comuni. Al contrario, chi
non ha il diritto di fare sacrifici, né a titolo individuale, né in
nome di una città, sì vede spogliato dei diritti corrispondenti,
sia che si tratti di prendere parte a concorsi prestigiosi, come
quelli di Olimpia, che di partecipare ad assemblee che riuniscono
attorno a un santuario diverse città. È una delle caratteristiche
dello straniero quella dì essere tenuto lontano dagli altari e di
non poter fare sacrifici senza la mediazione ufficiale di un
cittadino che risponde di lui davanti agli dèi e alla comunità
locale.
“il manifesto”, 24
settembre 1981
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