12.10.15

C'era una volta il classico. L'antico oggi (Mario Vegetti)

Il numero 184/185 di “Aut aut” fu dedicato alle Nuove antichità, cioè all’evoluzione degli studi sull’antichità che un tempo si chiamava classica, e curato da Mario Vegetti. Comprendeva studi di Vernant, di Diego Lanzaa, Casagrande e Vecchio, Detienne, Burkert, Le Goff e altri. Il quotidiano “il manifesto” ne pubblicò in anteprima alcuni assaggi (dalla presentazione di Vegetti, dal saggio di Lanza, La paura di Edipo, e da quello di Detienne, Pratiche culinarie e spirito del sacrificio). Riprendo qui il testo di Vegetti: può essere letto come preludio a molti studi svolti in varie sedi nel trentennio abbondante che è seguito a quell'importante numero della rivista filosofica fondata da Enzo Paci. (S.L.L.)
L'Auriga di Delfi
C’era una volta il classico. Archivio delle forme belle, infanzia felice dell’umanità, archeologia implicante una teologia, territorio della nostalgia per l’intellettuale europeo (in quanto tempo della trasparenza e dell’efficacia perdute). Tutto questo aveva in qualche modo resistito ad aggressioni violente: Nietzsche, naturalmente, e i meno noti antropologi anglosassoni del primo Novecento (da Jane Harrison a F.M. Cornford). Aveva resistito grazie ad una duplice congiuntura culturale. Da un lato, la potenza della filologia classica tedesca, da Wllamowitz a Jaeger, capace di presentarsi insieme come un modello di scienza positiva nel dominio incerto delle «Geisteswissenschaften», e come lo scavo rigoroso di valori esemplari per la moderna epoca della crisi. Dall’altro, l’uso filosofico della filologia in campo heideggeriano: la messa in luce di un cominciamento smarrito, lo scavo della parola come scheggia di verità, affioramento dell’essere presto occultato.
A questo privilegiamento del classico non erano naturalmente estranee, nell’Europa fra le due guerre, potenti ideologie nazionaliste ed anche razziste. Più tardi, esso venne gradualmente banalizzandosi nell’ideologia scolastica della superiorità della cultura umanistica: decaduto ma non detronizzato, il classico veniva tenuto al riparo dai movimenti più vivi della cultura (dalla sociologia all’antropologia, dalla linguistica alla psicanalisi), relegandolo di fatto a languire in un ghetto dorato. Così, fino agli anni Cinquanta, nelle università si continuava a leggere la Paideia Jaegeriana; nei licei, i professori di greco e latino continuavano a godere di uno speciale prestigio (di cui era sempre più difficile trovare le ragioni, come testimonia il dibattito italiano sull’insegnamento delle lingue antiche).
Così indebolito, il classico non poteva attraversare indenne l’ondata dello strutturalismo antropologico e marxista che si propagava, soprattutto da Parigi, alla metà degli anni ’60; già prima, aveva sofferto la corrosione dell’indagine neopositlvistica.
Che cosa ha lasciato dietro di sé la sua obsolescenza, nella cultura recente?
Non proprio un vuoto, ma un territorio diventato opaco da luminoso che era, i cui specialisti godevano più di rispetto (per la loro tecnicità filologica e per il prestigioso passato) che di ascolto effettivo; e neppure lo desideravano, presi com’erano tra l’imbarazzo per le vecchi euforie classiste e le novità dei tempi, che parevano escluderli dai circuiti della comunicazione culturale. Sono passati, così, anni diisolamento, di sordità e mutismi reciproci. Il ricorso all’antico (e al medioevo) diventava sempre più — nei testi destinati al dibattito culturale — esornativo e retorico, memoria scolastica o zeppa inevitabile.
Ma si trattava di una impermeabilità solo apparente. Caduto lo schermo del classicismo, gli specialisti si trovavano di fronte ad un oggetto in un certo senso nuovo e anche eccitante, l’antico; e cominciavano a guardarsi attorno per integrare i loro strumenti ben collaudati, ma ripetitivi, con attrezzi più promettenti: c’entrava per qualcosa, probabilmente, l’accelerata circolazione delle idee, delle scelte, delle domande tipica della seconda metà degli anni ’60.
Incominciarono, allora, a cambiare le sintassi: si sperimentarono (in modo non sempre temperante) quelle strutturaliste, marxiste, psicanalitiche; cambiò soprattutto lo sguardo, che tendeva ad avvicinarsi a quello dell’antropologo (allora, oltre Levi-Strauss, si riscoprivano Weber e Polanyi); cambiarono, di conseguenza, i punti di ascolto, in parte gli stessi oggetti d’indagine, i parametri dell’interesse (che sostituivano la scala classicista dei valori); si rinnovò in parallelo il dominio contiguo e poco frequentato del medioevo, da cui venivano nuovi stimoli di ricerca.
L’attenzione verso il territorio dell’antico (anche se non più classico) non si era evidentemente mai del tutto spenta, se queste sperimentazioni hanno via via trovato, nella circolazione culturale e nella produzione editoriale, un credito persino inatteso.
Ma non innaturale, se si pensa all’effetto di choc e di stimolo prodotto dall’interrogazione di un mondo culturale così ricco ed illustre secondo due approcci, talvolta intrecciati: il primo, consistente in una lettura integrata di «mito e pensiero» come elementi di una «cultura» in senso antropologico (strutturalista o genetica che fosse questa antropologia); il secondo, nell’interpretazione di quella stessa cultura come esempio forte del funzionamento dell’ideologia - in società precapitalistiche (di cui intanto si studiavano i modi di produzione e riproduzione). Non erano novità da poco, e meritavano l’interesse (che si estendeva anche, in certi settori, a qualcosa che nuovo non era affatto, cioè alla riproposta dello scavo filologico come capace di portare diretta-mente in luce epifanie di qualche implausibile verità).
Questo interesse poteva, certo, e può limitarsi alla sostituzione della venerazione per il classico con i piaceri di un distinto esotismo, il cui paesaggio non si colloca più nelle foreste amazzoniche o in arcipelaghi del Pacifico, ma tra le rovine di Delfi o dell’acropoli di Atene. Scoprire il diverso là dove si supponeva pacificamente l’identico, leggendo ad esempio il sacrificio greco non come un preludio a quello cristiano ma nel contesto di pratiche alimentari fortemente ritualizzate; o, all’opposto, vedere nel coltello del macellaio-sacrificatore uno dei padri fondatori della nostra tradizione scientifica: altrettante esperienze di lettura non prive di una certa capacità di suggestione.
Ma c’è, forse, qualcosa di più, qualcosa che stimola domande pertinenti allo stesso lavoro teorico. Come si gioca, in queste zone determinate, la partita fra i poteri e i saperi? Come si articolano mito e rito, quali configurazioni e metamorfosi assume l’area del sacro? Come funziona la rete delle normalizzazioni e degli interdetti, come si dislocano saperi alti e bassi, forti e deboli? Quale ruolo svolgono, rispetto agli uni e agli altri, immaginario e metafora? Ancora, a un livello diverso: quali linguaggi si possono usare, e a quali condizioni, per parlare di questi problemi all’interno di campi culturali e sociali del tutto eterogenei rispetto al nostro?
Non è tutto, ma già questo elenco può risultare ambizioso e quasi eccessivo. Tuttavia, serve almeno a segnalare un perimetro di questioni della razionalità, e direzioni dell’inchiesta teorica, al cui interno uno scambio fra esperienze diverse di lavoro culturale può tornare ad essere sensatamente possibile.


“il manifesto”, 24 settembre 1981

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