Quasi un anno fa misi da
parte questo articolo del costituzionalista Villone originato da una
dichiarazione del capo del governo, che negava di voler essere l'uomo
solo al comando. Riletto, mi sembra tuttora attuale. (S.L.L.)
Eva e Juan Peron con i loro cagnolini |
Alla fine, chi comanda in
Italia? Uno, tutti, o nessuno?
La domanda ci tormenta da
quando Renzi ha con veemenza negato che ci sia un uomo solo al
comando. Ma può accadere che l'uomo solo al comando ci sia, e
tuttavia non comandi alcunché.
Il capitolo Ue si è
chiuso senza grandi risultati per l'Italia, e le schermaglie verbali
che continuano - l'ultima con Juncker - sono puro teatro. I
trionfalismi governativi sono stati rapidamente spenti non da gufi e
parrucconi, ma dalle valutazioni Istat e Bankitalia. Le misure messe
in campo non daranno risultati importanti per la crescita, e
soprattutto non ci saranno miglioramenti in tempi brevi. Chi tiene la
barra vuole cambiare rotta, ma il timone non risponde.
E allora chi comanda, a
chi? A nulla servono gli interventi volti a concentrare sulle stanze
di Palazzo Chigi strumenti di controllo apparente, come si fa quando
si vuole riportare la dirigenza pubblica — con la riforma della
Pubblica amministrazione — sotto l'ombrello della presidenza del
consiglio.
Certo può servire a
rafforzare il premier e la cerchia a lui più vicina, indebolendo
ancora un consiglio dei ministri popolato di esangui coristi. Ma è
un potere spicciolo per l'uomo al comando che non comanda.
Inoltre, Renzi non sembra
considerare che non basta il mero diniego, per quanto forti siano gli
accenti, a rigettare l'accusa di eccessiva personalizzazione. Né
basta il consenso di sedi di partito che non hanno più alle spalle
un'organizzazione radicata negli iscritti e nel territorio, sono
drogate da selezioni populistiche del ceto politico come le primarie
aperte, vedono la minoranza interna ridursi alla passiva accettazione
della lealtà alla ditta. Né basta il plauso di platee di
imprenditori attenti solo - come è persino giusto che sia - al
profitto delle proprie aziende e ai vantaggi che possono trarre dalla
benevolenza governativa. Né ancora basta richiamare un partito della
nazione, con ciò implicitamente spingendo il dissenso nella
categoria del tradimento piuttosto che del confronto necessario con
opinioni, idee, progetti di cui bisogna tener conto. Né infine basta
l'accusa che altri lavorino per spaccare il mondo del lavoro, e
magari il paese, e rifiutare, con questa e altre fantasiose
motivazioni, di sedersi a un tavolo in vista per la ricerca delle
mediazioni possibili.
Come si può affermare
che miri alla rottura chi vuole uguali - e maggiori - diritti per
tutti? O ritenere che lavori invece per l'unità chi legge
l'eguaglianza - pilastro della Costituzione — come livellamento
verso il basso, minore dignità e qualità di vita, più debole
difesa dei propri diritti? È questo lo scenario verso il quale le
scelte di governo ci stanno portando.
Il premier è palesemente
infastidito che intorno al suo progetto non crescano entusiastici e
unanimi consensi, e che anzi si prepari una stagione di forti
contrasti. Ma era scritto. Si possono chiedere a un paese sacrifici
anche gravi, che però i tweet o facebook non bastano a far
metabolizzare.
Ci vorrebbero partiti
radicati, capaci di portare motivazioni e capacità di convincimento
dal ponte di comando ai luoghi di lavoro, nelle case, nelle famiglie.
Ma quei partiti sono stati smantellati, con il plauso miope di molti.
Ci vorrebbero organizzazioni capillari come i sindacati, con i quali
ci si vanta invece di rifiutare ogni dialogo. Ci vorrebbero
istituzioni capaci di dare voce a tutte le posizioni, anche le più
lontane, perché l'azione di governo ne tenga per quanto possibile
conto. Invece, si fa l'esatto contrario,
cancellando spazi di rappresentanza, tagliando presenze politiche
vitali con soglie di sbarramento e premi di maggioranza, riducendo
all'obbedienza i riottosi e dando all'esecutivo il controllo dei
lavori parlamentari.
Quel che accade è quanto
un certo costituzionalismo della crisi riteneva e ritiene necessario
per fronteggiare l'emergenza economica e il riaggiustamento delle
ragioni di scambio tra nord e sud del mondo. Non funziona, in specie
quando l'inversione di rotta nella crisi non è vicina come si
sperava. Come si pensa di spiegare, di convincere, di governare e
contenere il malessere sociale? Sono false le gioie di una politica
senza corpi intermedi, partiti, sindacati. Non serve dare la scalata
a un partito con il leveraged buyout delle primarie aperte. È mera
rappresentazione teatrale che basti l'investitura di un turno
elettorale per garantire a qualsiasi esecutivo una effettiva e
duratura capacità di governo. Né ovviamente suppliscono cariche di
polizia e manganelli. Che serve manganellare le speranze perdute?
Renzi non può cavarsela
con le invettive o le comparsate televisive. Dovrebbe leggere la
Costituzione, a partire dall'art. 2 per cui la Repubblica richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica
economica e sociale. Se poi studiare la Costituzione fosse troppo,
potrebbe leggere il discorso di Papa Francesco ai Movimenti popolari
del 28 ottobre. Solidarietà - dice il Papa - «è anche lottare
contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la
mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti
sociali e lavorativi ... intesa nel suo senso più profondo, è un
modo di fare la storia ... ».
È proprio questo
elemento di solidarietà che manca nel messaggio del premier e nella
azione di governo. Certo, non sarebbe politicamente corretto che i
Papi avessero tessere di partito. Del resto, a veder bene, se Papa
Francesco la chiedesse al Pd probabilmente gliela rifiuterebbero. È
un comunista.
il manifesto, 12.11.2014
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