Barbara Leaming, studiosa
e scrittice di teatro e di cinema, pubblicò nel 1985 un'importante
biografia di Orson Welles. Quello che segue è un articolo
commemorativo, tradotto e pubblicato da “la Repubblica” qualche
settimana dopo la morte del grande attore e regista. (S.L.L.)
Orson Welles si svegliava
quasi tutte le mattine prima delle sei. Iniziava a letto il suo
rituale quotidiano, telefonando ad amici e colleghi sparsi per il
paese o addirittura per il mondo, per discutere di un progetto
cìnematografico. Dopo la colazione e una nuotata, usava incontrarsi
con i suoi collaboratori: tra questi il principe Alessandro Tasca di
Cuto, suo direttore di produzione, che aveva lavorato con lui per la
prima volta nel 1947 in Cagliostro, "Eccome, se è un principe",
diceva Welles del suo collega, "è quattro volte duca, è sei
volte marchese, è conte almeno tre o quattro volte; ha ricevuto due
volte l' Ordine del Toson d' Oro, ciò che gli dà il diritto di
parlare con il re di Spagna senza togliersi il cappello".
Instancabili, Welles e il
principe lavoravano insieme quasi tutti i giorni, rivedendo e
discutendo i preventivi di progetti cinematografici per i quali
speravano di ottenere finanziamenti in patria o all'estero: Re
Lear, in cui Welles intendeva recitare o che avrebbe diretto, The
Dreamers (I sognatori), un adattamento di Welles di due racconti
di Isak Dinesen (Karen Blixen), una sceneggiatura originale
intitolata The big brass ring (Il grande anello di bronzo). La
primavera scorsa Welles ricevette un brutto colpo quando un progetto
che sembrava ormai giunto in porto, una versione cinematografica di
The Cradle Will Rock (La culla dondolerà) di Marc Blitzstein,
che era stata messa in scena da Welles nel 1937, perse i suoi
finanziatori all' ultimo momento.
"Quando parli con la
gente di Hollywood", osservava il principe Tasca con un
caratteristico miscuglio di frustrazione e di sopportazione, "ti
dicono: 'è impossibile lavorare con Orson'. E poi vieni a scoprire
che Orson neanche lo conoscono, che non hanno mai lavorato con lui".
Orson Welles non ha più
girato un film a Hollywood da The Touch of Evil (L' infernale
Quinlan), del 1957. Tutti i famosi film di produzione indipendente
che fece in seguito furono girati in Europa, dove Welles si era
recato con la terza moglie, la contessa di Girfalco, un'ex-attrice
nota con il nome di Paola Mori. Grazie alle sue opere, Welles si è
indubbiamente conquistato un posto nella storia: per il teatro con il
Dr. Faustus (Works in Progress Administration, 1937), il
Giulio Cesare (Mercury Theater, 1938), il Moby Dick
(Londra, 1955); per la radio con La guerra dei mondi; per il
cinema con Citizen Kane (Quarto potere), The Magnificent
Amberson (L' orgoglio degli Amberson), Otello, Chimes
at Midnight (Falstaff), F. for Fake (F come falso). Ciò
nonostante, i finanziatori americani non gradivano Welles dopo le sue
durissime battaglie degli anni Quaranta e Cinquanta per impedire agli
Studios rifacimenti più commerciali dei suoi film. Lo consideravano
un piantagrane; ed è proprio a questa sua fama che i finanziatori
hollywoodiani pensavano ogni qualvolta Orson presentava un progetto.
A poco più di vent'anni,
Welles era già famoso in tutto il mondo. In seguito, tuttavia, i
suoi continui contrasti con le case cinematografiche e il suo periodo
di vagabondaggi in Europa finirono per oscurare i capolavori che pure
continuava a creare. La tragedia di Welles sta nel fatto che, nel suo
paese, egli era forse più noto per la sua partecipazione agli spot
pubblicitari e per i suoi interventi nei programmi televisivi che non
per i film della maturità, che raramente compaiono sugli schermi
americani nonostante l'ammirazione dei critici e degli spettatori
europei. Non avendo impegni di regia, Orson dovette sfruttare le sue
grandi doti di voce e di presenza. Di pomeriggio, quando le sue corde
vocali erano particolarmente sonore, si guadagnava i "soldi per
la spesa dal droghiere", doppiando, lavorando per la pubblicità,
incidendo su nastro testi in inglese per il mercato giapponese. Così
continuò a lavorare, imperterrito, lottando contro le stesse glorie
del suo passato. "Genio è stata la prima parola che ho
sentito quando ancora vagivo nella culla", diceva; "perciò
non mi è mai passato per la testa di non esserlo, se non quando ho
raggiunto la mezza età". Aveva diciotto mesi quando fu
scoperto: non da un agente di teatro o da un produttore
cinematografico o da un talent-scout, ma da uno specialista in
ortopedia, un ebreo russo che, come amico di famiglia, era stato
pregato di visitare il fratello maggiore di Orson, Richard, che si
era ferito alla testa. Secondo la leggenda, durante la visita il
dottor Maurice Bernstein diede un' occhiata al più piccolo dei bimbi
Welles che, facendo capolino dalla culla, lo apostrofò così: "La
voglia di ingurgitare medicine è una delle principali differenze tra
gli uomini e gli animali". Cominciò allora una serie di doni
"pedagogici" da parte del medico, che ormai veniva tutti i
giorni: un violino (anche se Welles era troppo piccolo per
imbracciarlo appropriatamente), una bacchetta da direttore
d'orchestra, il necessario per dipingere e scolpire, un teatrino di
marionette, un cofanetto per il trucco, un equipaggiamento da
illusionista. Per il suo protetto Bernstein coniò un affettuoso
nomignolo, Pookles; e, Pookles, a sua volta, lo chiamava Dadda.
A forza di sentirsi
definire un prodigio, Welles sviluppò, almeno in apparenza, una
certa fiducia in se stesso. Tuttavia, malgrado questa ostentata
sicurezza, il ragazzo viveva con il costante timore di non essere
all' altezza delle aspettative dei genitori (Dick e Beatrice). "Avevo
sempre paura di deluderli", diceva; "ecco perchè lavoravo
sodo. Era questo, che faceva girare il motore". Avrebbe fatto
qualsiasi cosa per riscuotere la loro approvazione. Raccontava che,
quando era ancora molto piccolo, i genitori lo mandavano a far
commissioni all' altro capo della città. Terrorizzato all'idea di
andare da solo, ma desideroso di accontentarli, il bambino si
costringeva a fare ciò che gli chiedevano senza battere ciglio. "Mi
insegnarono a sentirmi sicuro, ciò che non faceva parte del mio
carattere", diceva. Col tempo Welles, spinto con insistenza da
Dadda alla presenza delle celebrità canore in tournèe, si
abituò anche a frequentare con loro i camerini dei teatri. Quando
Dick Welles si trasferì a Chicago con la famiglia, la disinvoltura
in società del piccolo Orson, così faticosamente conquistata, tornò
utile. Grazie a Dadda, Beatrice e il bambino prodigio furono ammessi
nella cerchia selezionata e colta dei frequentatori della casa del
critico musicale Edward Colman Moore, a Highland Park. Negli anni
Venti Chicago era centro di fermenti artistici e intellettuali quasi
quanto New York; e molti dei suoi più autorevoli cittadini
frequentavano il salotto di Moore. Qui, per l'appunto, Orson ebbe
modo di ascoltare e qualche volta di prendere parte a discussioni di
alto livello. Fu allora che, ancora piccolo, cominciò a staccarsi
dai suoi coetanei: aveva cose molto più interessanti da fare che non
i giochi da bambini.
Assunto come comparsa in
Sansone e Dalila all'Opera di Chicago, diventò una star
recitando in Madama Butterfly. Elettrizzato dall'attenzione
che questa sua attività gli procurava, a cinque anni il piccolo
Orson si esibiva anche all' ntrata dei grandi magazzini Marshall
Field, nel ruolo - forse meno artistico - di un coniglietto. Ai
passanti incuriositi strillava: "Devo sbrigarmi, altrimenti non
farò in tempo a vedere la biancheria all' ottavo piano!".
Questo perché, se proprio Orson doveva recitare, il padre preferiva
che lo facesse nella salubre atmosfera di un grande magazzino,
piuttosto che nella Madama Butterfly.
L'atmosfera di casa era
talmente tesa, che Orson, a sei anni, considerava come un dato di
fatto la discordia tra i genitori. Per una intera notte ascoltò il
loro ultimo litigio, dopo di che, di comune accordo, Dick e Beatrice
si separarono definitivamente. A Chicago, dopo la separazione, mentre
Dick Welles girava il mondo, Beatrice sembrò rifiorire, nel suo
salotto l'attrazione principale era costituita dal loquace
figlioletto Orson. La vita con la madre fu una sfida continua, anche
perché secondo Beatrice "i bambini possono essere trattati da
adulti solo se sono divertenti; nel momento in cui un bambino diventa
noioso deve essere rimandato nella nursery". A parte le
lezioni di pianoforte e di violino, l'educazione di Orson fu
largamente informale: disegno e pittura, lettura ad alta voce, con
Beatrice, dei testi di Shakespeare (la madre gli fece usare come
sillabario il Sogno di una notte di mezza estate); apprese un
po' di tedesco dalla Nanny; frequentava regolarmente il teatro e
l'opera; imparò faticosamente la parte del Re Lear e di altri
personaggi preferiti, che realizzavano nel mondo della fantasia
quella che egli definiva la sua "decisione di sfuggire alla
condizione di bambino". Ma le fantasticherie non gli permisero
di sfuggire alla realtà, rappresentata dalla malattia di sua madre.
Poco dopo il suo nono compleanno, Beatrice fu ricoverata al Memorial
Hospital di Chicago dove morì due giorni più tardi, all'età di
quarantatre anni, per atrofia gialla acuta del fegato, secondo la
diagnosi. Nell'udire la notizia, il figlio provò una sensazione di
"perdita angosciosa". Quando compì undici anni, il padre
mandò Orson in quel luogo di "lettura, matematica, scrittura e
martellamenti biblici" che si chiamava Todd School, a Woodstock,
Illinois, da dove in precedenza era stato espulso il fratello
Richard. "Vedo che abbiamo un altro Welles", brontolò
l'anziano preside Noble Hill, soprannominato il Re, il giorno in cui
Orson si presentò a Clover Hall. "Speriamo che non somigli a
suo fratello". Il figlio di Noble Hill, il carismatico Roger,
insegnava educazione fisica. Orson descrisse con calore la sua
"andatura da marinaio", che gli aveva valso il soprannome
affettuoso di "Skipper". Attratto dall' entusiasmo di
Skipper, il ragazzo "si innamorò di Roger Hill". Il Re era
un appassionato di teatro, per cui la recitazione occupava un posto
preminente tra le attività della scuola.
Ma i testi non erano
quelli che Orson prediligeva. Così persuase Skipper a cambiare il
repertorio, sostituendo Skakespeare e i classici ai nutrimenti più
leggeri cui il pubblico della Todd era abituato. Orson vestì i panni
di Cassio, di Marc' Antonio, di Riccardo III, del Dr. Jekyll e di Mr.
Hyde; recitò sia la parte di Androclo, sia quella del leone;
impersonò perfino Gesù Cristo. Fu alla Todd che Orson fece la sua
scelta di vita: sarebbe diventato un artista, un attore e soprattutto
un regista. Il 7 maggio di quest'anno cadeva il settantatesimo
compleanno di Orson Welles. Per quella data, Welles sperava di
terminare il suo primo film finanziato da americani dopo L'infernale
Quinlan. Per otto mesi aveva lavorato ad un film che avrebbe
dovuto ricostruire la vicenda della sua fantasiosa messa in scena di
The Cradle Will Rock, nel 1937. Nel cast figuravano Amy
Irving, nella parte della prima moglie di Welles, Virginia Nicolson;
David Steinberg nel ruolo dell'autore dell'opera, Marc Blitzstein; e
Rupert Everett, un giovane attore inglese che impersonava Welles a
ventidue anni. Ma all'improvviso il finanziatore si tirò indietro,
perché nessuna casa di distribuzione intendeva impegnarsi prima che
il film fosse terminato.
Dopo il fallimento nel
progetto, Welles sembrò distrutto: "Questa proprio non la
capisco. Ormai mi rendo conto che non avrei dovuto continuare a fare
questo mestiere. Se voglio salvaguardare la mia integrità, non posso
girare un film che sia ancora più commerciale di questo. Oltretutto
non costa molto, e ho fatto in modo di attenermi a tutte le regole".
Poi passò a parlare di Hollywood. "Si vive in una fossa di
serpenti", disse. "Per quarant' anni ho nascosto a me
stesso - a me stesso, non al mondo - che odio Hollywood. E se non
arrivo ad ammettere che la disprezzo, è solo perché, alla fine, è
l' unico posto dove posso andare". Ma non si disperò a lungo.
Alcune settimane più tardi era di nuovo al lavoro, insieme al
principe, per Lear e The Dreamers: erano in contatto con tre
potenziali finanziatori europei. "Tengo il conto soltanto delle
ore felici, come fa la meridiana", disse Welles; "altrimenti
sarei diventato matto. E per citare un brano della mia sceneggiatura
per The Dreamers: "Non aspettarti giustizia, nel mondo. Non fa
parte dei progetti di Dio. Tutti pensano che, se non la ottengono,
sono vittime di chissà quale discriminazione. Non è vero. Nessuno
ha giustizia: ha solo fortuna o sfortuna"". Fortuna o
giustizia, Welles era in trappola. "La verità è che mi sono
perdutamente innamorato del fare cinema, e lo sono ancor oggi",
affermò. "Avrei passato la vita su un set. Ora non mi è più
dato di farlo: e ne soffro. Sono stato totalmente invaso dalla
passione per il "mezzo". Non per i film: vederli non mi
piace. Amo soltanto farli".
la Repubblica 3 novembre
1985
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