Donne e bambini: i
cattivi da addestrare.
Il numero 23 del Quaderni
1983 della Fondazione Feltrinelli è dedicato alla storia e alla
storiografia del costume educativo. Il contributo di Campese e
Gastaldi tiene naturalmente fede al suo titolo: Immagini e
pratiche educative della città antica, con un dettagliato
resoconto del modi e del contenuti di quell’insegnamento. Ma il
lato più stimolante di questo e degli altri saggi che seguono — si
potrebbe dire il denominatore comune — è costituito dalle
sfaccettature d’approccio al tema: infatti l’accento è messo
soprattutto sul lato imprevisto, quello di solito più in ombra,
anche solo nell’immediata percezione che il titolo lascia
intravvedere dell’argomento.
Educare suggerirebbe un
programma di segno positivo, ma può volere dire anche un allenamento
al suo contrario. «Se la formazione del cittadino è l’obiettivo
privilegiato, gli esclusi vanno anch’essi addestrati, innanzitutto
ad interiorizzare l’esclusione. Sapere obbedire è parte integrante
del ruolo assegnato loro». Fra gli esclusi è innanzitutto la donna.
In Grecia il programma pedagogico tende a fare emergere il cittadino
nella duplice funzione militare e civile. Lo specchio delle varie
tappe evolutive sono le feste religiose, modellate sull'iter
della magistratura; da qui, come è messo in rilievo, il carattere
civico del culto, la mancanza di una casta sacerdotale istituzionale.
Le feste religiose per le donne sono invece ritmate sulle tappe
biologiche della vita. Lo scorrere del tempo comporta una evoluzione
delle feste maschili che seguono il cambiare della sfera politica.
Estremamente statiche sono Invece quelle femminili, ripetizione nella
sfera pubblica del privato.
Il luogo della donna è
sempre e solo il focolare, il raggio visivo, i famigliari che
l’attorniano, ritualizzando i momenti fondamentali della vita,
dalla nascita fino alla morte. I figli, piccoli, l’unico «momento
pedagogico permesso».
Il bambino è però
subito sottratto all’intimità delle nenie e delle carezze dalla
speculazione filosofica, che nella ferma convinzione dell’innata
cattiveria del bambino cerca di stabilirne l’origine e i modi per
cambiare questo dato di fatto.
Il saggio di Mario
Vegetti, Il bambino cattivo: un problema dell’antropologica
storica si lega a quello di Vecchio, L’immagine del puer nella
letteratura esegetica del medioevo, e di Nagel, Puer e
pueritia nella letteratura medica del XIII secolo: il loro
accostamento comporta una conclusione non esplicitata, ma resa
possibile — grani di una medesima collana — dal filo cronologico
che li lega: cioè che l’Antichità, nella riflessione teorica,
aveva presente il bambino come tale, con la sua «animalità», una
ragione non ancora svolta, e il preponderante spazio degli istinti.
Questo comporta una gamma di soluzioni e di programmi diversi ma che
non perdono mai di vista il «piccolo» dell’uomo. Il Medioevo no,
è cieco: il suo bambino è soltanto una metafora e tutti i modi di
espressione infantili, anche le virtù che il Vangelo riconosce —
con sguardo affettuoso, che il Medioevo ignora — ad esempio
l’innocentia, sono trasferite all’adulto, al monaco
soprattutto che si appropria di quei valori, tappe di un programma
ascetico.
Torniamo al saggio di
Vegetti, che si sofferma sulla concezione platonica, aristotelica e
stoica. Per Platone il bambino è cattivo, perché troppo immerso
nella natura, privo di ragione. Però la sua indole è molle e
plasmabile e quindi è possibile l’intervento costrittivo
dell’anima che eserciterà alla fine il suo benefico controllo. Per
Aristotele il bambino occupa il grado zero del processo evolutivo (e
però rassicurante) che dal vivere secondo lo stato naturale porta a
quello sociale. Il bambino, come il cavallo, non si può dire felice
(la felicità è un’attività virtuosa):«a causa dell’età egli
infatti non è ancora in grado di essere attivo in tale maniera; i
bambini sono detti felici solo in vista di speranze future». Può
però essere fatto oggetto di una attesa: se la sua imperfezione lo
fa schierare dalla parte della donna e dello schiavo, si tratta
tuttavia di una fase transitoria.
Più complessa, perché
contradditoria, è la concezione stoica. Stabilito che la passione è
il principio dell’errore e del male, i bambini, potenzialmente
buoni, diventano però cattivi, identificando ben presto il bene con
ciò che dà piacere. È la forza della persuasività delle cose
esterne che induce al vizio. La difficoltà (se ciò è dovuto
all’insegnamento, chi ha corrotto i corruttori?) viene risolta
incolpando le madri e le nutrici con la loro educazione occulta, nel
prolungare ad esempio lo stato prenatale nel piacere del bagno e
dell’essere cullati, nell’ombra e nel brusio cantilenante in cui
è tenuto il bambino. L’educazione però, maschile, può forse fare
seccare questo seme di malvagità cosi presto inoculato.
Che il bambino finché
può essere definito infante appartenga al dominio femminile, mi
sembra la ragione del divario che la Nagel registra fra la
molteplicità di prescrizioni indirizzate al neonato non ancora
svezzato e il loro brusco cessare nella fase successiva, quando
lasciano il posto ad una serie di prescrizioni etiche, perché i
buoni costumi diventano il più sicuro presidio alla sanità del
corpo. Mi sembra cioè che nella letteratura medica — anche se solo
nel XIII secolo si può parlare di un’attenzione specifica alla
salute del bambino — il medico rimane comunque il medico degli
adulti: assume il punto di vista delle nutrici, la loro sapienza
fatta di pratica esperienza e buon senso, quando deve colmare un
vuoto, dato che il neonato non può essere sottoposto ad alcuna
speculazione. Appena si apre lo spiraglio di una possibile
elaborazione filosofica si registra un brusco cambiamento.
Un esempio può essere il
complesso di regole di comportamento che comprendono anche il
parlare: «la comunicazione orale ha infatti un valore ambiguo, è il
mezzo della preghiera, della confessione, dello studio, ma anche il
mezzo della dannazione dell’anima».
La custodia oris et
linguae è il tema che ritroviamo, dominante, nel saggio di Carla
Casagrande, dedicato appunto alle regole del parlare e del tacere del
monaco. Questa mi sembra anche la ragione del diverso volto
analizzato da Agrimi e Crisciani con cui il medico si presenta al suo
discepolo, doctus et expertus, nella perpetua ricerca di un
equilibrio fra scientia e ars, fra dottrina e pratica.
«Nelle Practicae e nei testi del sec. XII il maestro non è
padre, ma madre e nutrice. Quasi ad alludere ad una forma di
insegnamento e di sapere ancora, o per definizione, inferiore, che
richiama, nell’immagine, quelle cure materne che, attraverso l’età
dell’allattamento e della dentizione «permangono fino all’età
dell’electio e del discernimento razionale».
Un approccio moralistico
nei confronti del bambino è ancora quello che si riscontra nella
letteratura esegetica, nei commenti, nei sermoni, nelle omelie,
basate su paesi scritturali, dato che non vengono mai sfruttati gli
spunti positivi che nei Vangeli soprattutto ci sono in
rapporto ai bambini, spenti dalla caparbia citazione paolina I
Cor-14,20:«o fratelli, non siate fanciulli in fatto di senno; o
meglio, quanto a malizia siate sì bambini, ma quanto a senno siate
uomini maturi».
Per conciliare le due
ottiche opposte (il fanciullo nel Vecchio Testamento rappresenta lo
stato imperfetto, nel Nuovo Testamento è protagonista positivo
proprio per la sua età) si fabbricano le virtù infantili, la
semplicità e l’innocenza, virtù che finiscono allo stadio della
parola, per l’immediata equazione: parola/peccato. Per san Girolamo
il bambino può essere apprezzato, paradossalmente, per la sua
«povertà»: è privo di passioni solo perché non è in grado di
provarle; «l’innocenza dei bambini — dice s. Agostino —
risiede nella fragilità delle membra, non nell’anima».
In ambito monastico però
l’umiltà di Gesù Bambino arricchisce il vocabolario delle virtù
proposte a modello. «L’accentuazione del tema dell’umiltà va di
pari passo con uno spostamento di interesse dall’animo al corpo del
bambino....; è la scoperta del corpo infantile, valorizzata dal
fatto di essere stato anche il corpo di Cristo: nasce, in ambito
soprattutto cistercense il culto di Gesù Bambino, Bambino, l’unico
vero Bambino».
Proprio però
l’eccezionalità di quell’infanzia mi sembra che restringa di
molto il valore della scoperta, che né può servire da modello né
aprire la via al recupero del bambino come oggetto in generale di
interesse e di affetto: allo stesso modo, aggiungo ancora, il culto
della Vergine si nega come paradigma possibile di naturali
accadimenti, e non favorisce per questo il recupero del «femminile»
isola di tutto il suo Sesso. Maria può essere venerata proprio
perché respinge qualsiasi possibilità di confronto con l'umana vita
delle altre donne.
La virtù che viene
maggiormente in luce in ambiente monastico è l’ubbidienza
infantile sì, ma con una palese forzatura dell’episodio di Gesù
fra i dottori, che, viene detto, è lì per imparare e non per
insegnare. Questa chiave di lettura può illuminare sul valore
ambiguo che è attribuito alla parola (tramite fra uomo e Dio, ma
nello stesso tempo occasione dì peccato), che ha portato ad una
articolata codificazione di regole sul parlare e tacere; nel De
istitutione novitiarum di Ugo dì san Vittore addirittura ad una
retorica del parlare e ad una dell’ascolto.
L’opera «si presenta
come un capitolo importante di una possibile storia delle regole del
parlare e del tacere, nel quale si tenta di produrre, a partire dai
valori monastici, un costume della parola che si vuole universale,
valido in assoluto, per l’homo disciplinatus». Il proporsi
un ventaglio amplissimo di interlocutori, partendo da un’ottica
religiosa è la ragione allora dell’impressione che suscita il
trattato di Vincenzo di Beauvais De eruditione filiorum nobiliorum
(studiato da M.Pereira), catalogo di norme severe e «datate».
Il processo educativo tracciato è in realtà per donne consacrate e
non, come viene dichiarato, destinate al matrimonio.
Più che di educazione
anticortese parlerei di una falsificazione di destinatario; quando
Giordano da Pisa ad esempio in una sua predica raccomanda alle donne
di «leggere dei buoni libriccioli» è ad un pubblico che deve
essere in sintonia col destinatore dell’omelia quello a cui si
rivolge. La mediazione libraria incappa nel pericolo dell’usura
delle parole che, dice Agostino, «passano e perdono di valore e non
sembrano nient’altro che parole».
“il manifesto”, 3
luglio 1983
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