Il numero 184/185 di “Aut
aut” fu dedicato alle Nuove antichità, cioè all’evoluzione
degli studi sull’antichità che un tempo si chiamava classica, e
curato da Mario Vegetti. Comprendeva studi di Vernant, di Diego
Lanza, Casagrande e Vecchio, Detienne, Burkert, Le Goff e altri. Il
quotidiano “il manifesto” ne pubblicò in anteprima alcuni
assaggi (dalla presentazione di Vegetti, dal saggio di Lanza, La
paura di Edipo, e da quello di Detienne, Pratiche culinarie e
spirito del sacrificio). Riprendo qui il brano di Lanza che mette
a confronto l'Edipo re di
Sofocle con le Eumenidi,
la tragedia di Eschilo che conclude la trilogia Orestea.
(S.L.L.)
Eumenidi - Il coro delle Erinni in una messa in scena al Teatro greco di Siracusa |
Come hanno mostrato
Stanford e Vernant, il tessuto linguistico dell’Edipo re è
solo apparentemente compatto: esso cela quasi in ogni battuta
minacciose iridescenze; le parole significano diversamente per chi le
pronuncia e per chi le ascolta. La scena sofoclea, libera da ogni
interferenza dell’orchestra, sulla quale il dialogo sembra fluire
continuo in un ordinato scambio di discorsi, dove si parla e si
ascolta, è anche il luogo dove, anziché intendersi, gli
interlocutori si fraintendono.
Edipo teme il responso
ricevuto. Tuttavia non ha paura, come il coro, del dio che vaticina;
all’oracolo egli si rivolge più di una volta nella propria vita.
Mostra di sapere che la volontà divina non si può forzare:
«Costringere gli dei se non vogliono, nessun uomo lo può» (280-1).
Il fluire degli
avvenimenti d’altra parte non è legato alla rivelazione: «Queste
cose si compiranno», dice Tiresia, «anche se io le avessi a coprire
col silenzio» (341). Edipo lo sa, ma nella sua puntigliosa devozione
all’oracolo si cela uno slancio competitivo.
Va ad interrogare
l’oracolo per sapere di chi sia figlio, ma la risposta è altra, e
altrimenti minacciosa. Edipo allora tenta di disambiguare il
vaticinio in un precetto: cancella ogni dubbio e si mantiene lontano
da Corinto. Quando poi tutto è compiuto, quando si è nel futuro già
realizzato, a Edipo si ripresenta la situazione di Delfi: Tiresia ha
parlato, ma le sue parole non sono state comprese. «Io sono folle»,
replica al re l’indovino, «secondo quel che tu credi, ma in senno
fui per i genitori che ti generarono». «Chi», esclama allora
Edipo, «aspetta, chi dei mortali mi ha generato?» (435-7). Nel
mezzo dell’inchiesta Edipo ritorna al quesito originario. Ma ancora
una volta la domanda, l’unica che veramente conti, resta senza
risposta. Il profeta, come il suo dio, non può essere obbligato a
rivelare quel che non vuole, e contro il suo ambiguo significare
nulla può ora la volontà disambiguante di Edipo. Ma se pure Edipo
cerca di competere con l’oracolo, scambiando un vaticinio per un
precetto e tentando disperatamente di uniformatisi, una cosa egli non
fa. Ed è su questo non fare che si costruisce la tragedia, il suo
tempo drammatico, la sua tensione emotiva. Edipo, maestro di
intelligenza umana, orgoglioso del proprio sapere profano che ha
sconfitto la sfinge, non usa mai il vaticino divino come oggetto
della propria conoscenza, non lo assume a indizio della propria
indagine. Se l’oracolo fosse portatore di conoscenza, Edipo sarebbe
in grado di capire meglio la propria condizione, sarebbe soprattutto
capace di collegare un vaticinio all’altro, di confrontare il suo
con quello di Laio, di confrontarli entrambi con le parole profetiche
di Tiresia. Edipo non fa nulla di questo: le parole del dio e del suo
profeta non vengono contestualizzate all’inchiesta; è questa la
serie di gravi smagliature nel tessuto della verisimiglianza
rimproverata a Sofocle da Voltaire. Ma di fronte all’oracolo Edipo
non si pone conoscitivamente: la sua unica preoccupazione è quella
di accettarlo come minaccioso precetto per vanificarlo. Le sue azioni
non sono indirizzate a capire, ma a sfuggire alla paura suscitata
dall’annuncio del dio, che, nonostante tutto, non lo abbandona:
«Questo, proprio questo è il mio perpetuo terrore».
Di tale paura vive il
personaggio Edipo, e anche il suo farsi tiranno è effetto della
paura. Egli si muove sul sottile crinale tra paura e conoscenza:
rassicurante riconoscibilità di una realtà che è possibile
indagare e descrivere e attesa del compiersi di un futuro che si
tenta vanamente di frustrare. Sotto la compattezza della sua presenza
scenica, la linearità del suo lessico, la sapiente gradualità delle
sue trasformazioni, il personaggio Edipo rivela questa profonda
disomogeneità, questa inconciliabile disparità di livelli. La
pluralità drammatica della tragedia si concentra senza distraenti
spettacolarità nell’ordinato susseguirsi delle battute del
protagonista. Edipo appare insieme prossimo e temibile, suscita ad un
tempo la comunanza della pietà e lo straniamento della paura.
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Consideriamo ora lo
scenario in cui abnorme e quotidiano si incontrano, in cui il
terrificante sì produce e in cui si produce la rassicurazione
riparatrice. La paura personificatasi nelle Erinni ostenta il
mostruoso. La confusione che esse portano facendo irrompere il regno
della morte tra i viventi, confondendo i due domini, è massima nelle
prime scene delle Eumenidi e va poi progressivamente decrescendo. Che
cosa però rassicura il pubblico ateniese che la contiguità
dell’oltretomba ha sempre inquietato? I mugolii dei mostri, le loro
imprecazioni, le minacciose maledizioni s’infrangono contro una
pratica verbale del tutto diversa che viene dalla scena: Oreste,
Apollo, Atena appartengono tutti al dominio del logos e alla
sua persuasività. Vi è poi il giudizio del tribunale areopagitico,
che proscioglie Oreste e manifesta l’impotenza delle sue
persecutrici. Teatralmente questa doveva essere scena di alta
suggestione. Il coro muto degli areopagiti mima dinnanzi al pubblico
di Atene una pratica ben nota: c’è l’insediamento del tribunale,
il suo silenzioso assistere allo scontro delle parti, la votazione,
lo scrutinio dei voti, infine la proclamazione del verdetto. Si
tratta di gesti abituali cui ogni cittadino ateniese ha più volte
assistito, che molti hanno avuto personalmente occasione di eseguire.
Essi appartengono alla consolante abitualità del vivere giornaliero.
Non solo dunque nelle battute di Atena Zeus Agoraios e Peitho hanno
vinto, ma più efficacemente nella persuasiva visualità dello
spettacolo, che si sovrappone e finisce col cancellare la visualità
terrifica dei mostri infernali. É la città, la polis, nel
suo quotidiano funzionamento, nella sua immediata riconoscibilità di
gesti consueti, si può dire rituali, è questo il grande strumento
rassicurante usato dal tragododidaskalos Eschilo. La sua
efficacia è certa. La disomogeneità compositiva della trilogia, la
complicata complementarità tra scena e orchestra, tra discorsi e
canti, tra pacatezza dell’argomentazione e ossessività della
parola magica, tende ora a ricomporsi nel grande quadro rassicurante
della polis. E di lì a poco si ricompone anche teatralmente
nel gran corale di ringraziamento delle convertite Eumenidi e nella
solenne ritualità della processione finale.
“il manifesto”, 24
settembre 1981
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