E' uscito per Einaudi La
fame, opera di Martín
Caparrós, scrittore e giornalista argentino che vive prevalentemente
in Spagna. Il libro vede la luce, credo non casualmente, nell'anno
dell'EXPO che ha come slogan “Nutrire il pianeta”. (S.L.L.)
Oltre alla corrente
eroica dei grandi reporter sul campo, la sua scrittura, molto
appassionata ma anche sempre colloquiale, tendente ad abbassare i
toni si ispira ad alcuni modelli letterari, quali?
La corrente eroica non mi
piace per niente, non mi fido dei cosiddetti “eroi”. Credo che la
cosa più importante non sia far vedere quanto ci si è avvicinati al
fuoco, ma piuttosto saper riportare le notizie e, soprattutto,
cercare di capire: ascoltare, verificare, mettere in relazione le
cose, pensare. È questo il mio lavoro. Per quanto riguarda la prosa,
ho sempre scritto opere di finzione e non: il mio compito letterario
consiste, ormai da tempo, nel trovare di volta in volta uno stile da
usare sia nelle cronache giornalistiche sia nei romanzi, e ovviamente
all’interno di questo stile si possono ritrovare decine di
influenze, di piccoli furtarelli. Dopotutto è così che si
costruisce una scrittura, no?
Nella sua formazione
aver fatto il direttore di riviste di cucina, quanto ha influito
sulla scelta di un tema così generalista e cruciale come la fame?
Non ho nessuna
“formazione di direttore di riviste di cucina”. Dei miei
quarant’anni di giornalismo ce n’è stato soltanto uno,
venticinque anni fa, in cui ho lavorato come direttore di una rivista
di cucina. Come potrà immaginare, quindi, niente di trascendentale.
Però ai media piace giocare su queste cose.
Nella prima parte del
suo saggio, lei ripercorre la storia della fame e quanto abbia
determinato le svolte storiche. Quali ritiene che siano i momenti
cruciali?
Se volevo mostrare come
funziona la fame nel mondo nel 2015 dovevo mostrare, ho pensato, come
aveva funzionato nel corso della storia, ed è per questo che il
libro comprende diversi capitoli su questo tema. Ho una formazione di
tipo storico, sono dell’idea che non si possa capire il presente se
non lo si analizza con la stessa distanza con cui analizziamo il
passato: per poterlo fare, però, bisogna partire dalla conoscenza e
l’analisi del passato. Ci sono stati molti momenti cruciali, e
proprio adesso ne stiamo vivendo uno. Grazie ai progressi tecnologici
degli ultimi tre o quattro decenni, così dibattuti e così
interessanti da discutere, per la prima volta l’umanità è in
grado di sfamare tutti i suoi membri senza problemi. Solo che non lo
facciamo, e questo fa sì che la fame attuale sia la più meschina,
la più imperdonabile della storia.
C’è un legame
indissolubile fra fame e religione. Quali sono le sue peculiarità?
Mi premeva dare corpo a
ciò che noi chiamiamo così facilmente “fame”: continuo a
credere che la fame in sé non esiste, ma che piuttosto esistono
persone che la patiscono. Per questo ho parlato con centinaia di
persone che soffrono la fame in molti posti del mondo e mi ha
sorpreso notare come quasi tutte, in un modo o nell’altro,
facessero ricorso alla religione per trovare una spiegazione o un
conforto per la loro situazione: non esistono affamati atei. Poi mi
sono reso conto che la mia sorpresa era un po’ da stupidi: è da
sempre che le religioni fanno sì che i meno fortunati sopportino e
accettino la propria condizione, e ovviamente continuano a farlo.
Lei più di una volta
scrive, come monito ricorrente, che la fame non deve essere
considerata un’emergenza ma un problema cronico. Vuole spiegarci
perché?
Perché è un problema
cronico: la maggior parte della fame contemporanea non è dovuta a
una carestia o a uno stato d’emergenza (una guerra, un periodo di
siccità, un cataclisma) ma piuttosto all’ingiustizia nel
distribuire le risorse che pure abbondano. La terra produce cibo per
dodici miliardi di persone: siamo in poco più di sette, eppure quasi
un miliardo di persone non mangia abbastanza.
Nel suo testo ci sono
moltissime testimonianze di chi vive veramente la fame; sembra che
lei abbia tentato in tutti i modi di far capire al lettore
occidentale che non ne sa davvero nulla di quella condizione. Perché
questa insistenza? Perché questo diffuso senso di vergogna?
“Diffuso”? Non è per
niente “diffuso”: al contrario, sostengo e ripeto con estrema
chiarezza che la fame (il fatto che miliardi di persone patiscano la
fame) è la grande vergogna della nostra civiltà. E non è che io
voglia “farlo capire” a qualcuno. Certo, voglio cercare di
comprenderne le strutture, i meccanismi, ma il fatto in sé è molto
facile da capire, e chi non lo capisce è perché non vuole, perché
ha deciso di non farlo. Ognuno ha i suoi motivi.
Quali sono i paesi più
aggrediti dalla fame?
Quasi un terzo degli
affamati del mondo, all’incirca 250 milioni di persone, vive in
India. E questo nonostante l’India sia ormai una grande potenza
emergente, nonché la maggiore democrazia del pianeta. Ciò dimostra
che né la democrazia né lo sviluppo capitalista sono sufficienti
per sconfiggere la fame, perché l’unica cosa che potrebbe vincerla
è una distribuzione giusta, equa del cibo. Dopo l’India, la
maggior parte degli affamati vive in Africa, dove il numero non fa
che aumentare. Anche lì però ci sono molte differenze: parliamo di
Africa come se si trattasse di un’unica entità, altro caso tipico
di pigrizia mentale occidentale. Come se un congolese dicesse Europa
per dire italiano, norvegese o moldavo, fa lo stesso.
Lei smonta alcune
icone del nostro tempo, Madre Teresa e Vandana Shiva; ce ne vuole
parlare?
In generale, a noi
piacciono i buoni per eccellenza, personaggi la cui bontà sia fuori
questione e che ci permettano di creder loro senza fermarci ad
analizzare ciò che dicono: è comodo, è facile, è rassicurante.
Nello specifico, il caso di Madre Teresa è sorprendente. È una
persona che dice, per esempio, che la sofferenza dei poveri è un
dono di Dio: “C’è qualcosa di molto bello nel vedere come i
poveri accettano la propria sorte, la sopportano come la passione di
Gesù Cristo ‒ ha detto molte volte ‒ il mondo migliora con la
loro sofferenza”. E intanto riceveva denaro e difendeva dittatori
come l’albanese Enver Hoxha o Papa Doc, il tiranno di Haiti. Grandi
produttori di sofferenza, dunque collaboratori di quel dio, no?
Lei scrive che la fame
è di genere ovvero è soprattutto una questione femminile, in che
senso?
Sono due cose diverse. Da
una parte sostengo che le donne combattono in prima linea contro la
fame: sono loro che cercano di sfamare i propri figli anche nelle
condizioni peggiori, che si prendono cura di loro quando si ammalano
e li accompagnano in ospedale sempre che ce ne sia uno nei dintorni.
Dall’altra, invece, ci sono molte culture dove persiste l’idea
che i maschi abbiano più diritto delle donne a sfamarsi: quando il
cibo scarseggia, gli uomini della casa mangiano e le donne no.
Succede ancora in Cina, in India e in molti altri paesi; è questo
che definisco “fame di genere”.
Nell’ultima parte
del libro lei smonta tutti i luoghi comuni, quelli che entrano nei
discorsi politici, sulle motivazioni del crescere esponenziale della
fame: quali sono invece le reali cause?
Spesso si dice che la
fame è causata dalla povertà, ma la vera causa della fame è la
ricchezza: il fatto che pochi abbiano il monopolio delle risorse di
cui così tanti hanno bisogno. Questo avviene nei modi più svariati
(modi che cerco di esporre e analizzare, in tutta la loro
molteplicità, nel mio libro) ma alla fin fine il meccanismo è
sempre lo stesso: l’uso delle risorse alimentari come beni di
commercio, così come detta il sistema capitalista di mercato, ne
condiziona la produzione in modo da soddisfare i più ricchi e far sì
che controllino ciò di cui tanti altri hanno bisogno.
Molti sono stati gli
esperimenti falliti, dalle banche per il prestito alla diffusione
degli integratori alimentari; perché non si trovano soluzioni
strutturali?
Perché la soluzione
strutturale, insisto, consiste nel cambiare i termini di scambio, e
cioè produrre non perché alcuni diventino più ricchi ma perché
tutti abbiano il necessario. Ciò che io chiamo una “forma morale
di economia”. Solo che in questo preciso momento storico non
sappiamo quale sia in realtà la forma politica in grado di far
funzionare questo tipo di economia, ed è come se fossimo
paralizzati. Un modo di troverà, si è sempre fatto.
Sono molto efficaci i
capitoli intitolati Le voci che riportano il chiacchiericcio
del mondo sulla fame: perché ha voluto inserirli?
Magari perché mi
sembravano efficaci. No, a parte gli scherzi, perché volevo mettere
il lettore di fronte alle proprie idee, a tutta una serie di luoghi
comuni che in generale usiamo per tranquillizzarci, per discolparci,
per credere che facciamo già tutto quello che possiamo, o che non
possiamo farci niente. Ma né una cosa né l’altra sono vere:
possiamo fare molto di più per porre fine a questa grande vergogna,
per far sì che non esistano più affamati nel mondo. Tuttavia non
sembra che lo vogliamo davvero.
Traduzione dallo spagnolo
di Sara Amorosini
Dal sito de “L'Indice
dei libri del mese”, 23 settembre 2015
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