Se c'è una città
italiana moderna, europea, è Milano. Sembra immune dal peso di quel
passato che vincola l'edilizia e ingombra il traffico con le sue
presenze monumentali. Non vi si riconosce neanche, come a Torino e a
Bologna, il cardo e il decumanus, le due vie ortogonali
Nord-Sud, Est-Ovest che i romani tracciavano quando stabilivano un
accampamento o ripartivano i lotti coltivabili con il sistema detto
centuriatio.
Tutto si cerca a Milano
fuorché l'archeologia: si visita Sant'Ambrogio fuori mano di
perfetto stile romanico e il Duomo d'imperfetto gotico; si ammira il
Bramante delle Grazie e, nonostante i restauri, l'Ultima Cena
di Leonardo; si rievocano gli Sforza e i Visconti; nei palazzi
signorili del 700 e dell'800 dalle belle cancellate sembra
d'intravedere il profilo dei Verri e del Manzoni; alla Scala si
guarda con venerazione il podio dove diressero Verdi e Toscanini. Ma
a Milano chi cerca i Celti, i Galli, i Romani, chi vi riconosce la
capitale d'occidente che si contrappose a Roma?
Ci ha pensato un
archeologo che insegna a Trieste ed è stato per molti anni
Soprintendente alle Antichità della Lombardia, Mario Mirabella
Roberti. In un volume illustrato edito da Rusconi (Milano romana)
segnala, capitolo per capitolo, i ritrovamenti fortuiti avvenuti
sotto gli edifici moderni, descrive in modo rigoroso e limpido tutto
ciò che è rimasto o è stato ricostruito dopo gli incendi di Attila
e di Federico Barbarossa e ciò che la città rinascimentale e
moderna ha sepolto nei secoli: mura, torri, terme, teatro, circo,
palazzo imperiale, chiese paleocristiane, affreschi, sculture,
sarcofagi, mosaici; e ripercorre l' evoluzione urbanistica della
città e la sua storia.
All'infuori delle colonne
e dei mosaici absidali di San Lorenzo Maggiore, le vestigia visibili
non sono molte. Tra le sculture, c'è al Castello Sforzesco una
bellissima testa detta di Teodora; ma Raissa Calza e Bianchi
Bandinelli ritenevano che potesse essere Galla Placidia. Ma se
poniamo queste poche pietre nel loro momento storico, vediamo
svolgersi una vicenda culturale e politica di rilievo nella storia
d'Italia.
A Milano repubblicana,
già importante per la produzione agricola e laniera, fece gli studi
Virgilio diciassettenne; vi si fermò Ottaviano, di ritorno dalla
vittoria su Antonio e Cleopatra; nel Capitolium, dove fu
ricevuto con il dovuto ossequio, notò - riferisce Plutarco - la
statua di Bruto ma non fece commenti (ci vuol altro per far batter
ciglio a certi politici). Nel III secolo Gallieno respinse i barbari
dalle mura della città e Diocleziano, che aveva stabilito la
capitale d'oriente a Nicomedia, vi incontrò Massimiano, il collega
d'Occidente, che aveva scelto Milano. Dichiarandosi discendenti
diretti da Giove il primo, da Ercole il secondo, nel 291 si
presentarono con le formalità rigide e l'aspetto ieratico che si
convenivano a sovrani divinizzati: "Che momenti, dèi buoni!",
scrive estasiato il panegirista; "che spettacolo fu vedervi
apparire l'uno a fianco dell'altro per coloro che erano ammessi a
adorare i vostri sacri volti! e quando, saliti su uno stesso cocchio,
attraversaste la città, con quali grida di esultanza uomini, donne,
vecchi e bambini si precipitarono nelle strade, si sporsero dalle
finestre per acclamarvi! Roma stessa, rapita dal gaudio della vostra
vicinanza, cercava di scorgervi dall'alto dei suoi colli...".
Ma la vista da vicino
degli imperatori a Roma era sempre più rara: a Milano Costantino
firmò il famoso editto che concedeva libertà di culto ai cristiani
e dette l'avvio alla costruzione delle prime chiese. Operò,
soprattutto, a Milano la più alta autorità della Chiesa alla fine
del IV secolo, Ambrogio, eletto vescovo per acclamazione nel 374:
egli persuase il giovane imperatore Graziano a revocare un editto di
tolleranza di cui non resta traccia nel codice e ad emanarne uno di
totale distacco della corona dai culti pagani; pochi anni dopo, fu
Teodosio ad essere spiritualmente soggiogato dal vescovo, tanto da
promulgare il famoso Editto di Tessalonica, nel quale chi non era
cattolico ortodosso conforme al dogma di Nicea veniva posto non solo
fuori della legalità, ma addirittura definito pazzo.
Ancora: a Milano Ambrogio
battezzò un giovane studioso di filosofia che, nel suo anelito a una
purezza spoglia ed essenziale, dopo un tormentato percorso attraverso
varie dottrine, era approdato al cristianesimo, l'africano Agostino.
E qui, in una delle chiese rintracciabili soltanto da scarsi ruderi
sottoterra, il pugnace vescovo combatté le sue battaglie più aspre,
tenne testa all'imperatrice madre Giustina, cristiana ma di
confessione ariana, la quale voleva uno degli edifici sacri esistenti
in città per i seguaci della sua setta. Per impedire che gli fosse
requisita la chiesa con la forza, Ambrogio la occupò con i fedeli
tutta la notte; e per vincere in loro il sonno e la paura, li fece
cantare quegli inni sacri che segnano la prima partecipazione del
popolo al culto e introducono la rima in latino. Emaciato,
inflessibile in quel pallio senatoriale di lana bianca che gli
vediamo indosso nel ritratto a mosaico di San Vittore (non esisteva
ancora l'abito del religioso), rimase tutta la notte ritto davanti
all'altare: come nelle chiese post-conciliari, quell'altare guardava
i fedeli.
Quando, con fragore
d'armi, grida e svenimenti delle donne, entrarono i soldati Goti
della guardia imperiale a prender possesso dell'aula sacra, li fermò
lo sguardo magnetico e l'energia sovrumana di Ambrogio. Non osarono
agire e piegarono le ginocchia per unirsi alle preghiere: "sono
venuti i popoli stranieri", scrisse Ambrogio alla sorella, con
una frase che sembra presagire le grandi invasioni imminenti, "ma
hanno ricevuto il retaggio di Cristo. Sono fratelli coloro che prima
erano nemici...".
Davanti a una delle
chiese milanesi il vescovo impose penitenza, rifiutandogli
l'eucarestia per tre giorni, all'imperatore Teodosio per il massacro
di Tessalonica, compiuto per suo ordine (una rappresaglia "esemplare"
per l' uccisione d'un alto ufficiale barbaro); qui, al cospetto delle
massime autorità, del Capo di Stato Maggiore Stilicone e dei
figliuoletti Onorio e Placidia, Ambrogio pronunciò la splendida
orazione funebre del sovrano cattolico, protettore della Chiesa,
prima che la salma fosse trasportata a Costantinopoli.
Qui, certamente nella
sala del trono del palatium scomparso, al cospetto del
giovanissimo Valentiniano II, Simmaco, prefetto di Roma, pronunciò
il canto del cigno del paganesimo romano. S'era recato a Milano per
implorare il sovrano adolescente di non togliere dall'aula del Senato
di Roma la statua della Vittoria che vi aveva collocato Augusto.
Davanti ad essa, entrando, bruciavano un granello d'incenso i Padri
Coscritti: era il simbolo della potenza romana e mai come in quel
secolo funestato dalle invasioni era necessario propiziarsela. Il
discorso di Simmaco è nobilissimo; invoca soltanto tolleranza
religiosa, com'era nel costume di Roma. L'Urbe, ormai canuta e
veneranda, si presenta a vantare le sue memorie: ormai, dice, è
tardi, non se la sente di cambiare i suoi dèi. E del resto, la
molteplicità dei culti non è che adorazione in varii modi d' una
divinità che è unica, e consente di procedere sul cammino della
salvezza per più vie: "Contempliamo tutti gli stessi astri",
disse l'oratore, "il cielo è per tutti lo stesso, uno stesso
universo ne circonda. Che cosa importa attraverso quale dottrina
ciascuno cerca la sua verità? non si può accedere a un mistero
tanto alto per una sola via...".
Ma Ambrogio, in quel
dibattito estremo, rispose con la famosa epistola, quasi un'apologia
postuma, che rimase senza replica. Pose, con grande splendore
stilistico, la pietra miliare dell'intolleranza della Chiesa,
affermando: "Cristo ha detto: "Io sono la Via"".
“la Repubblica”, 4
novembre 1984
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