Uno scrittore formato dal carcere
Causa repubblicana e alcool nei pitali
Solo a Brendan Behan si
poteva attribuire una autobiografia tanto succinta e iperbolica, di
immancabile effetto: «Sono stato giudicato da una corte marziale in
mia assenza, e condannato a morte in mia assenza, così dissi, mi
potete anche fucilare in mia assenza». A otto anni era già nella
Fianna, tra i pulcini dell’IRA, ma ne fu cacciato a undici perché
si era presentato ubriaco alla commemorazione di Tom Wolfe - era
stata la nonna a iniziarlo all’alcol, grande bevitrice e detentrice
di armi per la causa repubblicana.
Una passeggiata con
l’impareggiabile nonna e certe sue amiche è ricordata in questa
ultima autobiografia Confessioni di un ribelle irlandese
(traduzione di Enrico Terrinoni e introduzione di Rae Jeffs, Giano
Editore, pp. 397, € 16,00), dettata al registratore a Rae Jeffs, e
pubblicata postuma. «Quindi, dopo aver fatto visita a sette diversi
pub nella zona Nord, decidemmo di bere un po’ anche a Sud ... Ero
distrutto, fisicamente e spiritualmente: la testa mi sprofondava
nella spalla sinistra. Piovigginava, e un anziano signore si avvicinò
alla nonna e le disse: “Che bambino carino, peccato sia deforme!”
“La maledizione di Cristo ti colga! Il ragazzino non è deforme. È
solo un po’ ubriaco”». Ci fu un vano tentativo di
indottrinamento del precoce peccatore presso i Christian Brothers a
Dublino, la città in cui era nato nel 1923. A quattordici anni
inaugurò la sua approfondita conoscenza della vita carceraria. Fu
nella prigione minorile di Borstal dal 1939 al 41 (The Borstal
Boy, 1958), a Strangeways in Manchester, a Mountjoy, dove era
morto Thomas Ashe nel 17 per uno sciopero della fame e che divenne il
carcere in cui ambientò The Quare Yellow (1954). Qui i
condannati «ricamavano dannatissime immagini di misericordia con le
scritte "In memoria di Nostro Signore Gesù Cristo” o ’’Il
Sacro Cuore” o ancora ’’Per i soldati della repubblica uccisi
tra il 1939 e il 1942”», mentre lui era, miracolosamente, occupato
a leggere, a fumare, a bere. O a scrivere.
Nel 1942 Behan era stato
condannato a quattordici anni di carcere per aver sparato a due
poliziotti irlandesi, al cimitero di Glasnevin durante la
commemorazione repubblicana della rivolta di Pasqua. Per sua fortuna,
la condanna fu ridotta, e uscì nel 46. Aveva ventuno anni quando era
arrivato a The Glasshouse ai Curragh, e bevevano birra nei
pitali per ingannare i secondini. Sembra che Behan avesse sviluppato
non solo una pratica ma anche una teoria, e perché no? una poetica
della vita in carcere. La sua schiena s’adagiava tranquillamente
sul tavolaccio e la testa sulla giacca, la nudità propria e altrui
non l’imbarazzava, la compagnia obbligatoria era una buona
occasione per una festa, anzi un’orgia di canti, storie, scherzi,
bravate varie e sbronze abissali. Vantava una bella esperienza di
paramilitare. Era stato messenger boy per l’IRA, aveva anche
lui trasportato armi come sua nonna, aveva sparato, forse ucciso, si
era dato alla macchia per giorni, e fu estradato dall’Inghilterra
per sempre. Brendan e tutta la sua famiglia sono un bell’esempio di
fondamentalismo cattolico declinato all’irlandese, ossia stemperato
da innumerevoli bevute di Guinness, arieggiato da bellissime
romantiche ballate, imprecazioni pazze, sarcasmi violenti, furberie
da poveracci, ma nobilitato da una pratica della carità verso
l’estraneo, l’offensore, il nemico che un tempo era il cuore
ingenuo del cattolicesimo. Quando non era in prigione, lavorava come
imbianchino. «Io praticamente sono nato in un secchio di vernice.
Mio padre e i suoi antenati erano imbianchini...». Anche il talento
per la bestemmia è ereditato dal padre, mentre la madre, grande
cantante di ballate, proveniente da una famiglia di teatranti, gli
aveva insegnato a trarre il massimo profitto e divertimento dalla sua
vena sentimentale e istrionica.
Le Confessioni
appartengono in eguale misura al genere picaresco e
all’autobiografia. Se la trama autobiografica tende «alla
ricostruzione di un “io”, di un’unità che le diverse
esperienze di rottura hanno frantumato in maniera più o meno
conflittuale», come scrive Camilla Cattarulla (Di proprio pugno.
Auto-biografie di emigranti italiani in Argentina e in Brasile,
Diabasis, pp. 145 € 12,50) a proposito di autobiografie insolite,
in cui l’autore-personaggio tende dal «basso» del suo
condizionamento sociale all’«alto» della scrittura, della
legittimazione in un ordine normativo nuovo o politicamente alienato,
allora il senso di quest’ultima impresa di Brendan si spiega, e
rivela l’intima coerenza. È un testamento spirituale, quale solo
un irlandese poteva comporre, nella consapevolezza della morte
imminente. Che sia stato dettato e cantato al registratore e non
scritto di pugno dall’autore non fa differenza se si pensa a certi
logorroici, ma felici monologanti come Sterne o Joyce; e che sia
farcito di storie e storielle amene, di ballate vecchie e nuove, di
furiose invettive o devote invocazioni, di quelli che una volta si
sarebbero chiamati «schizzi dublinesi»: allegre e politicamente
indifferenziate brigate di bevitori (guardie e ladri, orangisti e CR
= Roman Catholics o Culi Rotti), di nonne e madri terrificanti, di
fondamentalisti protestanti o cattolici che scambiano la religione
per magia, e in realtà praticano riti tribali. En passant è
anche un documento folkloristi-co, sociologico, linguistico che
testimonia un fenomeno arcaico: l’«io» profondamente ancorato,
avviluppato, ma anche sostenuto dalla sua comunità. Autobiografìa
come gesto unico e finale di un local heroe, scanzonata,
beffarda come nell’Inghilterra settecentesca rilasciavano i più
famosi criminali prima di salire alla forca, a Tyburn.
C’è un’eccitazione
di vita nel lento processo della carretta del condannato, seduto
sulla sua bara, che percorre Oxford Street tra ali di folla
impazzita, così come nell’ultimo tratto di vita spesa nella corsia
di un ospedale. Il tono spavaldo è ben reso nella traduzione che
conserva la veemenza della voce e dei gesti di Brendan. A quanto
riferisce Rae Jeffs poteva parlare «al microfono ogni giorno da
dieci minuti fino a due ore. Era un allenato oratore, e i suoi
esercizi li aveva fatti al pub, in prigione, alla radio, dove
arrivava spesso sbronzo. In quanto cantante di ballate e oratore
popolare gli si richiedeva rapidità, belle immagini, e cuore per
toccare la corda della nostalgia, dell’amore o dell’odio e del
disprezzo. E, come tanti scrittori, dopo la sua morte avrebbe
desiderato solo agiografi. «I critici sono come eunuchi in un harem;
sanno come si fa, hanno visto farlo ogni giorno, ma loro non riescono
a farlo». Nel suo caso, pochi sono i critici che riescono a non
diventare agiografi.
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